Congresso Eucaristico Nazionale a Matera con Papa Francesco, Basilio Gavazzeni: “Papa ecologia eucaristica e gli altri”. Di seguito la nota integrale.
Come un Papa percepisce il suo ruolo
Fra i libri dove sono stato in crociera nel bello dell’estate, In cammino alla ricerca della verità (Rizzoli, aprile 2022) di Piergiorgio Odifreddi mi ha conquiso e mi induce a rivisitarlo. Si tratta di «lettere e colloqui» fra il matematico ateo e Benedetto XVI. Tesaurizzato fra il 16 dicembre 2013 e il 28 novembre 2020, il materiale, riletto e riordinato dallo stesso Odifreddi, è stato inviato al Papa che gli ha proposto di farlo leggere all’amico cardinale Gianfranco Ravasi, con la preghiera, in caso di pubblicazione, di scriverne una prefazione a spiegarne le ragioni.
Alla fine del colloquio del 30 novembre 2016, svoltosi come le due volte precedenti nel Monastero Mater Ecclesiae del Vaticano, il matematico chiede se the old Pope abbia visto The Young Pope di Paolo Sorrentino e gliene parla suscitandone la curiosità. È che il protagonista del serial, un immaginario Pio XIII, recupera la tiara di Paolo VI, riesuma la sedia gestatoria, ripristina i flabelli e il bacio della pantofola da parte dei cardinali, rifiuta non solo di comparire in pubblico, ma perfino di farsi fotografare, proibisce il commercio delle sue immagini, abolisce ogni cerimonia pubblica, sostenendo che i fedeli devono concentrarsi su Dio, non sul Papa, non importa se perdendo spettatori.
Dal canto suo Benedetto XVI conferma di aver risposto: «Preferirei che una parola valesse più di cento immagini» quando Joaquín Navarro-Valls lo invitò a sottoporsi a qualche scatto fotografico perché «oggi un’immagine vale più di cento parole». Anche the old pope ritiene che debba interessare la qualità, i fedeli, non la quantità, i telespettatori. Fa però notare che «le cerimonie e le funzioni non sono fini a sé stesse, e intendono invece rappresentare e celebrare lo splendore divino».
Cortese ma diretto, Odifreddi domanda se non si corra un doppio rischio: «Il primo è quello di un “vitello d’oro” moderno per i fedeli, nella forma di un “culto della personalità” nei confronti del papa, e lui conferma che effettivamente il pericolo esiste. Il secondo è la tentazione di un peccato di superbia per il papa stesso, nel venire idolatrato dalle folle, ma lui nota che personalmente queste manifestazioni gli sono sempre state indifferenti».
Il kairós che muove il parlar franco di papa Francesco
Kairós e parrēsia sono due parole greche adottate dagli scrittori sacri del Nuovo Testamento che in chiesa talvolta ricorrono nelle omelie. Kairós significa «tempo favorevole, opportuno», parrēsia «parlar con franchezza». Michel Foucault, che a lungo si è dedicato allo studio della parrēsia, ha chiarito che «è il kairós a definire per l’essenziale le regole della parrēsia, ovvero l’occasione, la quale rappresenta la situazione degli individui gli uni rispetto agli altri, nonché il momento che viene scelto per dire la verità».
Parlar con franchezza è proprio di papa Francesco. La parrēsia caratterizza non solo il suo magistero più pronunciato, ma anche le parole che semina nelle circostanze meno impegnative.Carlo Ossola riconosce: «In verità, nei discorsi di papa Francesco, la parrēsia sembra essere il carattere che ricapitola, dal Concilio Vaticano II e dal pontificato di Giovanni XXIII, il tratto saliente della cattolicità romana nel proprio tempo».
Alla fine del 2014, Vittorio Messori segnalava come l’imprevedibilità del Papa turbasse i fedeli più semplici. Il teologo della liberazione Leonardo Boff gli rispose che l’imprevedibilità è la caratteristica dello Spirito Santo (cfr Gv 3,8) ed è una specificità della Chiesa latino-americana da cui il Papa proviene. Carlo Ossola riflette che, se si tira di mezzo lo Spirito Santo, non è possibile circoscriverne il soffio all’America Latina. Nel parlare di papa Francesco, invece, ravvisa la parrēsia e la simplicitas della tradizione greco-latina e cristiana (cita Gregorio Magno e san Francesco, Marco Aurelio e Agostino), mentre ritiene che il kairós gli sia imposto dalla drammatica concezione che la Chiesa debba essere un «ospedale di campo» in soccorso dei «feriti non da dietro le trincee, ma nel campo aperto; la sua parola è “imprevedibile” come lo è l’accidentato agone di miseria e di morte che ci tocca attraversare».
L’omelia del Papa
Domenica, 25 settembre, liturgicamente sarà la 26esima del cosiddetto Tempo ordinario. La Liturgia della Parola offrirà alla riflessione un brano corrusco del profeta agricoltore Amos (Am 6,1.4-7), VIII secolo a.C., contro i gaudenti del regno settentrionale d’Israele; poi un passaggio mirabile di una lettera di san Paolo a Timoteo (1 Tm 6,11-16) perché conservi «senza macchia e in maniera irreprensibile» ciò che è stato comandato; infine il Vangelo (Lc 16,19-31), con la parabola che pone in contrasto la vita sulla terra e la retribuzione nell’aldilà del ricco gozzovigliatore anonimo che tradizionalmente chiamiamo Epulone e di un mendicante affamato di nome Lazzaro, (che in ebraico significa «Dio mi ama»).
Come non prepararci in anticipo all’omelia del Papa che, da par suo, metterà in relazione col tempo presente la Parola che di sua natura risveglia alla coerenza? Sarebbe indecente arrischiarci a prevedere che cosa lo Spirito Santo gli suggerirà per i rappresentanti del popolo di Dio convenuti da tutta Italia e per la stessa città ospite del Congresso Eucaristico. Il Papa sa meglio di noi che i Lazzari, estromessi dal perimetro del pane, crescono dovunque, adesso perfino in Occidente – è di ieri mattina la notizia che il prezzo del pane in Europa, ad agosto, è cresciuto del 18% e in Italia del 13,5% rispetto allo stesso mese del 2021 – e denuncia di continuo che bagliori di apocalisse sembrano riflettersi sulle innumerevoli crisi che si assommano sulla terra ridotta ad altare e a vittima sacrificali. Di sicuro dal Papa saremo incitati a suggere mistiche dolcezze ed esemplarità dall’Eucaristia, e perciò a organizzare sùbito la speranza, dove e come Dio chiama, nonostante le paure e gli sconforti, smettendo di fingere deplorazioni e stringendoci nel dinamismo concreto del farci prossimo.
Eucaristia traguardo dell’ecologia
Per la transustanziazione eucaristica il sacerdote non predispone chicchi di frumento e acini d’uva, ma il pane e il vino che l’uomo ne ha tratto trasformandoli con il lavoro. Non c’è immagine più adeguata per rappresentare l’uomo ecologico e lo sviluppo ecologico, anzi il traguardo ecologico.
Amplifichiamo l’immagine: l’uomo è chiamato a fungere da sacerdote del creato e l’ecologia attinge il compimento nel trasformare il mondo in Eucaristia. Spieghiamoci: la crisi ecologica del nostro tempo è tale da sembrare irreversibile e da far apparire vani i rimedi che si approntano. È un problema spirituale, ha denunciato il Papa nell’enciclica Laudato si’.
Le cause della crisi ecologica sono l’avidità e l’egoismo accresciuti dallo strapotere tecnico. Soverchiatore senza freni nei confronti della natura, l’uomo, per quanto impaurito a volte nell’osservare i delitti che ha perpetrato contro l’ambiente, non smette di prevaricare. È necessaria una conversione. L’uomo fra gli animali è l’unico inabitato dal logos. Può comprendere che la natura non è una schiava da stuprare, è una madre, una sorella, una casa di cui prendersi cura, gli è organica e connessa.
Il logos che lo caratterizza non è pura razionalità, è creatività. Con questa dotazione l’uomo può fare del mondo costituito da elementi diversi e sparsi un cosmos tutto unità e armonia. Riconosciuto che la creazione è un dono di Dio, resosi lui stesso microcosmo, prendendo in mano l’ambiente con finezza sacerdotale, l’uomo può presentarlo come offerta a Dio, così che lo benedica e lo assuma in comunione redento e perfezionato.
Cessasse l’uomo di agire da predone destinando l’ambiente alla decadenza e alla morte, come se Dio non esistesse e non ci anticipasse nell’Eucaristia il traguardo, il «punto Omega» (Teilhard de Chardin) dell’ecologia. L’uomo e il suo ambiente viventi sono la gloria del Dio vivente.
Due eucaristie?
Il grande poeta Osip Mandel’štam come altri, nei primi anni dopo la rivoluzione d’ottobre, si adoperò per «conquistare il pane per tutti». La pagò cara finendo in un gulag siberiano dove morì di fame, invocando il pezzetto di pane che gli era stato assegnato, ma che un detenuto delinquente gli aveva rubato. Mandel’štam aveva scritto un’opera con l’intento di conciliare nella stessa saga «due eucaristie», quella del credente e quella del non credente.
Due eucaristie? Convocati dall’Eucaristia non possiamo sequestrarla nel recinto del confessionalismo. L’Eucaristia è un atto di amore universale, un’epifania per tutti. In mysterio la sua potenza è all’opera in ogni persona, come in noi, per vincere il male ed elevare. Va incontro al quaerere Deum, alla cerca di Dio, che, nonostante tutto, pungola l’uomo moderno. Che sarebbe il Congresso Eucaristico Nazionale se non fosse sale, lievito e luce per tutti?