Vent’anni fa, il 1° marzo 2004, padre Basilio Gavazzeni, uno dei sei Consiglieri della Fondazione Lucana Antiusura “Mons. Vincenzo Cavalla”, e Angelo Festa, primo Presidente della medesima, venivano assolti dal Tribunale di Matera dall’imputazione di stornamento e malversazione, con la formula «perché il fatto non sussiste». Mette conto commemorare la sentenza: non per spargere querela, come si esprimerebbe Giacomo Leopardi, del fatto che a due persone notoriamente benemerite fu ascritto un disegno criminoso, ma per le «complessive considerazioni» con le quali i Giudici dimostrarono la fallacia dell’accusa. Il processo offrì alla dottrina giuridica la possibilità di assimilare lo spirito della Legge 108/96, appena approvata e poco nota, e l’ermeneutica dei criteri deliberati dallo Stato che ogni Fondazione antiusura applica quando garantisce prestiti bancari ai richiedenti meritevoli con il Fondo assegnatole dal Ministero del Tesoro (oggi MEF), ai sensi dell’art.15 della Legge. Coloro che indagarono sull’impiego da parte del Gavazzeni e del Festa (non sfugga l’ordine illogico ma rivelatore in cui erano citati i due) del Fondo affidato dal Ministero del Tesoro alla Fondazione Lucana Antiusura non compresero che l’uno e l’altro, esperti della Legge di cui, unitamente a un gruppo dinamico, il 7 marzo 1996, avevano ottenuto l’approvazione, operavano entro il perimetro dell’art.15 che norma la “prevenzione dell’usura”, non dell’art.14 preposto alla “solidarietà” verso le vittime d’usura. Ignoravano la delibera emanata dalla Commissione istituita ex art.15, comma 8 della Legge che suggeriva di «integrare gli Statuti delle Fondazioni ed Associazioni con i seguenti criteri di meritevolezza: 1) effettivo stato di bisogno del richiedente; 2) serietà della ragione dell’indebitamento; 3) capacità di rimborso in base al reddito o alla situazione patrimoniale; 4) fondate prospettive di sottrarre l’indebitato all’usura». Il giudizio gradatamente riconobbe l’infortunio in cui era incorsa l’imputazione: prima con uno studio approfondito della Legge 108/96, acquisendo l’essenziale distinzione fra i disposti dell’art.14 e dell’art.15, chiamando in dibattimento due funzionari del Ministero del Tesoro, ascoltando la deposizione di due testi quali Padre Massimo Rastrelli e Mons. Alberto D’Urso della Consulta Nazionale delle Fondazioni, di cui padre Gavazzeni era cofondatore e consigliere, infine sottoponendo a interrogatorio venti beneficiari delle erogazioni bancarie garantite dalla Fondazione Lucana Antiusura dalle cui dichiarazioni non emerse che il Gavazzeni e il Festa non avessero ottemperato alla Legge e ai suoi criteri. La Pubblica accusa, in sede di conclusioni, fece marcia indietro, appigliandosi invano a un solo caso. È da incorniciare la bilanciatissima dichiarazione postrema dei Giudici prima della formula liberatoria: «Certamente la valutazione effettuata dagli imputati in ordine alla meritevolezza delle esigenze prospettate dai richiedenti non appare esente da aspetti più o meno marcati, di una qualche discrezionalità nella disamina di singoli casi personali e tuttavia, alla stregua di quanto diffusamente illustrato in precedenza, tale caratteristica deve ritenersi del tutto connaturata ed in un certo senso “ messa in conto” dallo stesso legislatore che, dettando parametri normativi non tipizzati ed anzi decisamente elastici, consentiva e in un certo senso obbligava, ad una visione particolaristica e parametrata al singolo caso concreto in ordine alla meritevolezza ed alla difficoltà di accesso al credito per l’ammissione ai benefici economici della legge». Per la memoria: i Procuratori furono Eva Toscano, Annunziata Cazzetta, Rosanna De Fraia; i Giudici Domenico De Facendis, Presidente, Vittoria Orlando, Giudice estensore, Emma Conforti, Giudice; gli Avvocati difensori Roberto Danzi per padre Gavazzeni, Dario Piccioni per Festa. A Danzi e a Piccioni gli imputati prosciolti riconobbero complessivamente il compenso di Euro 33.463.460. L’Avvocato Emilio Nicola Buccico che, propostosi subito a difendere padre Gavazzeni, ma chiamato a un alto incarico nazionale si era fatto sostituire dal migliore penalista del suo studio, Bruno Oliva, rinunciò al compenso. L’avviso di garanzia era stato consegnato dalla Polizia giudiziaria il 26 settembre 1998. Il GUP in sede aveva disposto il rinvio a giudizio l’8 febbraio 2000 perché gli imputati rispondessero del reato «di cui agli artt.110,81 cpv., 316 bis cp.» di stornamento e malversazione della somma di Lire 427.500.000 provenienti dal Patrimonio Statale della Fondazione. Non vi fu nemmeno un’ombra della dovuta presunzione d’innocenza. Il processo era iniziato il 20 settembre 2000. La Fondazione Lucana Antiusura Mons. Vincenzo Cavalla, quarta a nascere dopo quelle di Napoli, Bari e Torino, avendo per levatrice una bomba, fu gravemente ridimensionata. Gli imputati trascorsero sei anni purgatoriali. Poiché, George Orwell “docet”, anche davanti alla Legge siamo tutti uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri, della formula «perché il fatto non sussiste», se riflettiamo, ne fruirono di più gli stessi inquirenti, soli responsabili (non c’era stata nessuna denuncia a spalleggiarli) di avere mosso, ineconomicamente per la collettività, un mulino giudiziario che non si trovò a macinare nemmeno il chicco di una bagatella. Non pagarono nulla, loro, appunto come non sussistesse il fatto, come non avessero infierito, per ignoranza o intenzionalmente, chissà per quale ispirazione, su due cittadini fra i primi in Italia a scendere in campo contro l’usura, dai quali bisognava apprendere come “essere per gli altri”. Un’altra triste prova che la nostra non era, non è, la Giustizia Occhio d’oro che invocava Sofocle.