Riportiamo di seguito l’indirizzo di saluto del Prefetto Michele Campanaro in occasione della cerimonia per il “Giorno della Memoria” che si è svolta questa mattina al Teatro Stabile di Potenza.
Saluto e ringrazio le autorità religiose, civili e militari, e saluto con sincero calore le ragazze e i ragazzi delle diverse istituzioni scolastiche presenti, insieme con i loro professori e dirigenti scolastici. Oggi vogliamo onorare la Memoria dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati e internati, militari e civili, italiani nei campi nazisti. Alle migliaia di italiani che non sono più tornati dai campi di sterminio, ma anche a quelli che sono rientrati va il mio pensiero commosso. Ai familiari di dieci di essi, residenti nella nostra provincia, consegneremo in mattinata le medaglie d’onore conferite dal Presidente della Repubblica. Intendiamoci. Il Giorno della Memoria che celebriamo oggi non deve essere un retorico ricordo di quel 27 gennaio di 80 anni fa, quando l’esercito russo ha abbattuto i cancelli di Auschwitz, essendo trascorsi vieppiù ottantasette anni dall’infamia e dalla vergogna delle leggi razziali. Collocandole tra gli atroci delitti che il fascismo stava perpetrando, così scrive Benedetto Croce a proposito delle leggi razziali: “La fredda spoliazione e persecuzione degli ebrei nostri concittadini, che per l’Italia lavoravano e l’Italia amavano, né più né meno di ogni altro di noi”. Un numero sempre crescente di divieti e di misure persecutorie rese gradualmente più difficile la vita delle famiglie ebree: dalla perdita del lavoro all’esclusione sociale, sentimenti di disprezzo e di scherno nella propaganda di Stato bollarono gli ebrei italiani come nemici estranei all’Italia. L’applicazione delle leggi contro gli ebrei alimentò in Italia un clima generale di odio crescente per quella piccola minoranza, che da secoli era profondamente integrata nel tessuto sociale, culturale e politico del nostro Paese, in piccola parte anche qui da noi in Basilicata. Il piano di eliminazione degli ebrei d’Europa, come ricorda un grande storico della Shoah, Raul Hilberg, si muoveva lungo un progressivo e inesorabile percorso: la legge che proclamava la persecuzione, l’espropriazione dei beni, la perdita dei diritti, l’arresto, la deportazione, l’assassinio. L’ossessione del diverso, dell’altro da sé, anche se, da secoli, pienamente e lealmente parte della propria comunità, aveva intossicato quasi interamente una nazione; e contagiava quelle vicine. Neanche l’Italia fu immune dal virus razzista e antisemita. Da poco insediatomi nella mia prima sede da Prefetto, mi è toccato il privilegio di partecipare il 13 dicembre 2017, in presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla inaugurazione del primo museo italiano dedicato alla storia della cultura, dell’ebraismo italiano e della Shoah: il MEIS di Ferrara. Il valore di realizzazioni come per quel Museo – che si propone di suscitare e propagare un forte impulso nelle Istituzioni, nella scuola, nella coscienza pubblica e in special modo tra le giovani generazioni, alla conoscenza di temi così delicati e importanti – è fondamentale, anche per rinnovare quotidianamente la memoria degli oltre settemila cittadini ebrei vittime della persecuzione nazifascista in Italia. Nei giorni successivi a quella inaugurazione, lo stesso Presidente della Repubblica ha voluto ancor più sottolineare l’importanza di coltivare e tramandare la memoria della Shoah nominando Senatrice a vita Liliana Segre, che ha speso la sua vita testimoniando l’orrore patito ad Auschwitz ed ha reso lustro alla Patria con altissimi meriti nel campo sociale. Questa scelta, avvenuta in un momento in cui il numero dei sopravvissuti e dei testimoni diretti di quella tragedia si assottiglia velocemente (oggi sono rimasti in vita appena sette custodi della Memoria e la più giovane ha 85 anni, pensiamoci!), pone con forza l’accento sul valore di chi con la sua testimonianza ha trasmesso il senso del coraggio, della vita, della necessità del dialogo tra diversi, della solidarietà e della pace, utilizzando parole sempre chiare e potenti che non lasciano spazio ad alcun fraintendimento, né a scorciatoie consolanti su quanto è avvenuto.
Mentre ricordo che è venuto a mancare qualche giorno fa Furio Colombo, intellettuale, giornalista, scrittore e parlamentare, uomo di passione civile, artefice della legge istitutiva del “Giorno della Memoria” (la legge 211 del 20 luglio 2000), non posso non ricordare che ho avuto l’onore di conoscere personalmente nel 2019 Liliana Segre e di emozionarmi profondamente vedendo sul suo avambraccio sinistro scoperto ancora ben impresso il numero di matricola 75190. Ho ancora scolpite dentro di me le parole che Liliana Segre rivolgeva ad una platea attenta e silenziosa di molte centinaia di ragazze e ragazzi: “Io avevo paura di ciò che i miei occhi potevano vedere. Allora avevo scelto un dualismo dentro di me, una sovrapposizione di realtà diverse: ero lì con il mio corpo, che pativa il freddo, la fame e le botte, ma con lo spirito abitavo altrove”. Come non condividere i sentimenti della Senatrice Segre quando afferma che il crimine più grande e aberrante di tutti è stato l’indifferenza? Osservo: è stato oppure lo è ancora oggi? Provo vergogna e profonda sofferenza per gli attacchi e le parole di odio sui social che in questi giorni hanno colpito Liliana Segre. La stessa Senatrice a vita ha confessato il suo pessimismo ed il timore che accada “come in ‘1984’, il libro di George Orwell in cui vengono riscritti i libri e tutte le generazioni sanno quello che il governo vuole che si sappia. La Shoah sarà ridotta ad una semplice frase nei libri di storia”. Ecco, queste sue parole dure e sofferte significano una sola cosa: occorre ancora oggi superare l’indifferenza, perché sono in gioco valori supremi, che nei ghetti di Cracovia, Lodz o Varsavia e nei lager di Auschwitz-Birkenau, o Dachau, sono stati calpestati come in nessuna costruzione di pensiero si era prima immaginato potesse catastroficamente accadere. Valori di civiltà e umanità senza frontiere di luogo e di tempo, che si chiamano rispetto della dignità della persona, ridotta a brandello umano, a sopravvivenza nel terrore fino alla soppressione più brutale. Nonostante la storia dell’uomo sia costellata di eccidi, massacri e genocidi, Auschwitz, con il sistema di cui faceva parte, costituisce un unicum, che continua a tormentare la mente e il cuore di ogni persona umana degna di questo nome. Mi viene in mente il paradosso delle parole dello scrittore ungherese Imre Kertész, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e premio Nobel per la letteratura nel 2002: “La Shoah è un valore, in quanto ha condotto, attraverso una incommensurabile sofferenza, a un’incommensurabile conoscenza; e in tal modo nasconde dentro di sé un’incommensurabile riserva morale”. Nessuno, né oggi né mai in futuro, può sottrarsi dal peso che la Shoah colloca sulle spalle dell’umanità e dalle conseguenti responsabilità, per il tempo presente e per l’avvenire. Auschwitz ci ricorda, ci insegna ogni giorno di quali orrori può essere capace l’uomo, anche il più istruito e apparentemente civilizzato, se si lascia catturare dall’odio, dal fanatismo, da teorie aberranti. Odio, fanatismo e aberrazioni che purtroppo oggi, come sappiamo bene, spargono sangue innocente in tante parti del mondo, mettendo a rischio la pace, la civiltà e la convivenza. L’antisemitismo non è scomparso, mentre altre forme micidiali di razzismo, di discriminazione, di intolleranza si diffondono nella civiltà del ventunesimo secolo in maniera insidiosa e incontrollata e impegnano le responsabilità di tutti noi alla difesa convinta e quotidiana dei valori democratici sanciti dalla nostra Carta Costituzionale. Chiudo con i versi brevi del poeta rumeno Paul Celan e con il monito di Primo Levi, entrambi hanno vissuto in prima persona l’Olocausto. Scrive il primo, in un grido di dolore che descrive la realtà del campo di concentramento: “Nero latte dell’alba, lo beviamo la sera, lo beviamo a mezzogiorno e al mattino, lo beviamo di notte, beviamo e beviamo. Scaviamo una tomba nell’aria, là non si giace stretti”.
E’ uno strepito di rabbia quello di Primo Levi nella sua poesia ‘Se questo è un uomo’, al ritorno da Auschwitz: “Meditate che questo è stato. Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore”. Meditare e vigilare, è questo l’invito che ci viene fatto oggi nel Giorno della Memoria!