Piazza Sant’Angnese a Matera, Basilio Gavazzeni: I Cari pipistrelli dello stradone detto piazza”.
Nottetempo, Matera sud, unica piazza di una lunga periferia. L’hanno appena ristrutturata alla bell’ e meglio. A destra dell’ingresso, un po’ sottostante, l’antico bagno di tufi è chiuso. Una settimana fa, intorno, sono state sfalciate le graminacee. Che invece vigoreggiano alte due metri nella pineta e rasente il nuovo parco giochi attiguo. Lì, al buio pesto, dovrebbero giocare solo i bambini e sedersi i genitori che li accompagnano. Più spesso, vi folleggiano e vandalizzano, con gran fracasso, ragazzi tra i dodici e i sedici anni. La cosiddetta piazza, mal sagomata, è uno stradone che a un certo punto si slarga fin davanti alle due chiese della Parrocchia. Nessuna segnaletica, né verticale né orizzontale, niente strisce e geometrie bianche sul vasto asfalto, per vietare, suddividerne lo spazio e stabilirne la destinazione. Mai che vi compaiono Vigili urbani o Forze dell’Ordine (a chi tocca, insomma?). Perciò la piazza è un campo di furiose pallonate trasvolanti in ogni direzione, contro gli edifici ammalorati della vecchia Succursale della perenta Scuola Media Alessandro Volta e contro le serrande sonore di un negozietto di alimentari abbandonato. Ancor di più, la piazza è una pista per motorette, biciclette e monopattini elettrici che sfrecciano pericolosi in un andirivieni senza tregua e ammorbano l’aria già greve. Gli acrobati del monopattino non si fanno scrupolo di irrompere perfino sul marciapiedi, dove sono allineate sei panchine (per decine e decine di persone: ah, la miseria comunale!), sfiorando le ginocchia di chi vi è seduto. Il protagonismo appartiene a un torma di ragazzi che, appena si fa scuro, salgono, per lo più, dal quartiere profondo verso Montescaglioso. Mobilissimi, è un trionfo di vitalità che inscenano. Al calcio senza costrutto e alla gincana sfrenata, alternano scherzi, sgambetti, cori di “scemo scemo scemo”, rincorse, spintoni, manate reciproche sulla cervice, sottrazioni e lanci di scarpe. E come gli piace azionare la varia acustica dei cicalini dei motoveicoli. A volte si frangono in sottogruppi: uno cala nel parco giochi, un altro si raccoglie intorno alle panchine concentrandosi sui telefonini, un capannello improvvisa una elementare esercitazione di pallavolo attorno a un bluetooth alimentato dalle musiche e dalle canzoni preferite, altri fanno bordello sotto la pizzeria. Spettatori sono pochi anziani che riescono a trovar posto sulle panchine. Hanno un bel stigmatizzare i nuovi tempi e chiedersi che ci facciano nella baraonda degli scatenati acerbe ragazzine, dove stiano i padri e le madri. Moralismo di chi non detiene né autorevolezza né forza per arginare tanto disordine. Decenni e decenni di praticaccia parrocchiale, prima nella periferia romana dove Pier Paolo Pasolini girò Accattone, poi nei Quartieri Spagnoli di Napoli, finalmente in uno dei rioni più scordati di Matera, più che le lontane lezioni sulla dinamica di gruppo impartitemi da una famosa psicologa quando studiavo cinema, mi hanno insegnato come affrontare simili situazioni. Quelli che, scherzando, chiamo pipistrelli, perché fuoriescono quand’è notte, sono simili a quelli che un tempo i sociologi definivano “ragazzi di muretto”. Non hanno disegno. Si accontentano di poco, paghi di quel che sono. Dicono di non attendersi alcunché dalla società. In quest’oasi notturna condividono almeno una germinale fraternità. A nulla serve provare a inquadrarli, offrirgli strutture ospitali, vezzeggiarli con un paternalismo untuoso. Nel cerchio acceso del gruppo anche i migliori, di volta in volta, divengono anarcoidi, infantili, bugiardi, ipocriti, protervi, pagliacci, vili… Mai cedere all’altro moralismo, antitetico al primo: «Eh, sono ragazzi, devono pur sfogarsi, anche noi siamo stati così…». Certo, ma se non ci avessero e non ci fossimo raddrizzati, non saremmo qui. Alcuni dei nostri coetanei si perdettero. Se i bambini stessi non sono innocenti, figuriamoci i preadolescenti. L’esperienza e la conoscenza, le efferate cronache dei nostri giorni ci mostrano che i ragazzi hanno bisogno di sottoporsi a un dressage, per dirla con un termine di chi alleva cavalli. Si tratta di proteggerli non solo dai facinorosi, ma anche da sé stessi, e di svelargli il meglio delle loro possibilità personali e avviarli a giusti traguardi. Guai se li contristassimo. E, tuttavia, mai gli si deve concedere di prevaricare. La prevaricazione non è un diritto. Non mi sfugge il gregarismo che li gerarchizza, per cui ogni membro occupa nel gruppo il posto consentitogli dai mezzi di locomozione su cui si esibisce e dalla leadership agrodolce di qualche elemento più forte e spregiudicato. Non ravviso un bullismo esplicito, perché ognuno d’istinto si autolimita nello spazio riconosciutogli. I litigi smuoiono sul nascere, mentre il gruppo aizza allegramente: “sangue sangue sangue”. Quando il loro movimentismo rallenta, la prossimità si esprime in lazzi e giochi maneschi. A loro modo, le ragazzine, saettando sguardi misteriosi sull’uno o sull’altro, li trattengono da grossolanità. Nonostante i miei settantotto anni, resto fra loro per controllarne l’incontenibile esuberanza che potrebbe mettere in pericolo la loro e altrui incolumità e danneggiare le cose comuni. Qualcuno ha già un braccio ingessato e altri zoppica e ha le gambe escoriate per cadute in bicicletta. Dall’imboccatura della piazza-stradone può anche accadere che si avventi la macchina di qualche giovane distratto o bevuto. Ora alzo la voce fino alle stelle per riprendere inaccettabili trasgressioni, ora accetto di lasciarmi coinvolgere dalla loro dialettica, chiedo informazioni sui loro studi e sui progetti che covano, ora richiamo nominativamente qualcuno di cui ho contato le sigarette fumate senza pausa, ora reagisco con battute sferzanti alle provocazioni con cui credono di sovrastare l’adulto e scandalizzare il prete di cui si son fatti un’idea bigotta che proprio non mi corrisponde. L’altra notte, per esempio, uno dei leader, cui avevo rivolto una raffica di intemerate, ridotto al silenzio, ripetutamente mi è passato davanti con il telefonino che reiterava una canzonaccia di bestemmie. Poco più tardi, dopo l’una inoltrata, a distanza di sicurezza, in fondo alla scalinata a metà piazza, alcuni ritirandosi hanno berciato “viva Maria”. Ecco come le estrosità processionali della Bruna hanno erudito i pupi! Ho irriso a gran voce la loro provocazione. Sono tornati indietro. È stato un assalto di atei in sedicesimo che mi son trovato a fronteggiare. Con pazienza, come lo scriba del Vangelo, ho tirato fuori dal mio sacco cose vecchie e cose nuove in un ruvido confronto. Ho ripreso e puntualizzato le affermazioni veterocatechistiche che rimasticavano con disprezzo. Si sono incuriositi e ammansiti. A uno, fattosi pensoso, gli ho schiaffato che, non credesse in Dio, quello vero, non quello dei suoi pregiudizi, crederà sempre il lui. Si sono fatte quasi le due. «Ragazzi, a dormire». Nella notte afosa e nuda, sui pini, le cicale continuavano a stridere.