Pierluigi Diso traccia un bilancio dei primi dieci anni di Partito Democratico e guarda alle prossime elezioni che determinare la guida del Paese. Di seguito la nota integrale.
Venerdì ho partecipato a diversi incontri ed a tutti c’era chi mi chiedeva del Rosatellum e la domanda finale era sempre la stessa: se il PD vince le elezioni Renzi va a Palazzo Chigi? In tutti i Paesi europei diventa premier di governo il leader del partito che ha vinto le elezioni, sia da solo che in coalizione. Il Rosatellum spinge comunque verso coalizioni e la ricomposizione del centrosinistra. Non vedo perché in Italia si dovrebbe seguire una regola diversa. Era questa la mia risposta. Certo l’Italia deve sempre distinguersi dagli altri partners europei e questo è l’unico Paese dove si pretende di sapere che governo ci sarà prima ancora delle elezioni. In Germania né la Merkel né Schulz hanno anticipato in campagna elettorale le future alleanze. Credo che questa regola andrebbe adottata anche in Italia: non si può fare il governo a priori prescindendo dalla volontà degli elettori. Son salito anch’io sul carrozzone della politica dieci anni fa, quando ancora ci identificavamo come Margherita e DS. E adesso a dieci anni esatti questo partito richiede una seria riflessione politica. Certo questo decennale è un po’ amaro per il clima di forte contrapposizione all’interno del centrosinistra. Il PD è stato centrale sulla scena politica italiana così come lo è stato Grillo e, prima ancora, Berlusconi ed è l’unico vero partito che può fare da argine alla destra e al populismo. Certo gli spifferi, più che le correnti interne, non producono effetti positivi sui cittadini elettori, che siano tesserati PD o meno. Il PD che è nato dalla fusione a freddo del socialismo e del cattolicesimo democristiano con Veltroni aveva cercato di superare le culture di riferimento, poi ha avuto una fase discendente, sino a Renzi che ha cercato di riunirlo attorno a sé. Le ultime pubblicazioni in libreria individuano un partito “incompiuto”, quel che oggi serve è invece un progetto politico condiviso e di cui ciascuno si senta parte, superando la cronica debolezza italiana a fare sistema, che purtroppo per noi ha la sua massima criticità nel Mezzogiorno, come affermato nella sua ultima fatica editoriale da Piero Fassino. E’ qui ancora non si parla di discussione democratica a livello congressuale. Ciò allarga il divario tra cittadini e classe dirigente politica, mentre serve un colpo di reni per “richiamare alle armi le giovani generazioni del Sud” (Fassino) che guardano al proprio futuro con ansia, in un vero e proprio progetto di rinascita che consenta al Mezzogiorno di essere una risorsa per sé e l’Italia intera. Eppure il Sud, anche con le Zes che si spera di poter ottenere dal Governo, può rappresentare per i prossimi anni una grande occasione di sviluppo; occasione che però si rischia di perdere se non si riuscirà a programmare progetti efficaci in grado di incidere sulle politiche territoriali connesse all’economia del mare, al turismo sostenibile, ai trasporti e all’ambiente. Nella Seconda Repubblica è stata messa in scena una “democrazia delle facce”, quelle dei leader (o presunti tali) per cui i cittadini erano chiamati a votare. Il ritorno al proporzionale cambierà molte cose nella vita politica degli italiani. Col proporzionale torna la “democrazia dei partiti”. Serve adesso una nuova “connessione sentimentale” fra la politica partitica e gli italiani. Adesso la politica, cioè le discussioni politiche, quelle che logorano se fatte al servizio del cittadino, devono tornare nelle sedi di partito e non negli uffici del leader di turno. Tutto ciò richiede una capacità corale dei dirigenti, dei militanti e dei simpatizzanti di diffondere i significati della proposta politica promuovendo mobilitazioni civiche e proponendo proprie narrazioni sui problemi fondamentali della vita comune. Il PD deve cambiare il binario percorso in questi dieci anni, rinnovando la sua organizzazione e la percezione che ne hanno i cittadini elettori. La vitalità del PD dipende dal modo in cui leggiamo la crisi della democrazia e ne rigeneriamo la qualità. Per affrontare il tema della qualità della democrazia in Italia occorre dare alla politica la funzione costituente che la situazione esige elaborando una nuova idea della democrazia. I cittadini vanno rieducati alle responsabilità della democrazia. Non si può continuare con le rivendicazioni individuali o collettive, senza assumere la responsabilità del loro impatto sul futuro delle comunità. Su queste basi non è possibile difendere e tanto meno riqualificare la democrazia, che affonda le sue radici nell’idea di sovranità popolare. Ecco che l’appello di Renzi è a tutte le forze di centrosinistra. È un invito a essere consapevoli che queste saranno elezioni particolarmente complicate: i tre poli, secondo i sondaggi, hanno più o meno la stessa consistenza e dunque sarà una corsa che si concluderà sul filo di lana tra Renzi, Grillo e Berlusconi.
Quindi serve un’unità più ampia, non lacerazioni e divisioni che indeboliscono. Renzi è stato chiaro: i nostri avversari non sono a sinistra, ma sono i populismi e il ritorno della destra. Se si vuole costruire una prospettiva unitaria non si può avere come principale caratteristica l’antagonismo dentro il centrosinistra. Dire che si vuole l’unità e fare la guerra a Renzi sono due contraddizioni in termini. Se si accetta l’appello all’unità, tutti dovranno fare passi in questa direzione.