Basilio Gavazzeni: l’attualità del pensiero sociale di Giuseppe Mazzini. Di seguito la nota integrale.
In visita a una cara malata, come altre volte frugando nella sua biblioteca non dappoco, attirato dalla estrema collocazione in un palchetto e dalla costola sbrindellata e quasi combusta, ho scovato I doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini, un’edizione torinese del 1944, un tascabile di cento pagine in gran parte intonse fitte di caratteri minimi.
Giuseppe Mazzini (1805-1872) l’avevo lasciato sui banchi di scuola, con gli altri padri del Risorgimento per i quali non ho mai avuto un’esagerata simpatia. Qualche giorno fa, tuttavia, mi era ricomparso dinanzi sulla pagina di un giornale nella straordinaria fotografia pittorica sul letto di morte che nel 1873 ne fece Silvestro Lega (1826-1895) ed è al centro di cimeli risorgimentali in una mostra al Vittoriano intitolata appunto L’ultimo ritratto (31 maggio – 8 settembre).
Mazzini che, ante litteram, fu un grande comunicatore e gestì con accortezza la sua immagine di profeta mentre promuoveva con successo le sue idee per mezzo di quell’unico strumento di comunicazione sociale alla portata dell’Ottocento che fu la stampa, avrebbe apprezzato il capolavoro di Lega, artista per di più mazziniano.
I doveri dell’uomo, scritto nel 1860 dall’esilio in Inghilterra, era indirizzato agli operai di un’Italia ben lontana dalla compiutezza politica che vagheggiava. In un periodo storico in cui erano negati diritti essenziali, fu un colpo di genio morale svolgere un’appassionata perorazione per raccomandare prima di tutto ai lavoratori, privi di diritti essenziali, i doveri verso l’Umanità, la Patria, la Famiglia e sé stessi e porli a fondamento di una proposta di soluzione della questione sociale.
Stupito che Mazzini riconduca ogni momento della sua teoresi a Dio, ho verificato quante volte lo citi. Ne ho contato circa 175 occorrenze in 100 pagine, escludendo le voci Cristo, Signore, Provvidenza, Creatore e le locuzioni Intelletto e Amore, Padre ed Educatore, Mente Suprema, e senza mai nominarlo invano.
Mazzini avversa fieramente il Papato dei suoi giorni che ritiene la base di ogni autorità tirannica […],dannoso in oggi, ma riconoscendolo utile nei primi secoli dell’istituzione. L’Umanità è il popolo di Dio, non la Chiesa monarchica che detiene Roma, impedisce la riunificazione della penisola ed è complice dei poteri che calpestano le Nazioni.
Soddisfatta la curiosità teocentrica, non mi sono trattenuto dal divorare l’intero libretto. Certamente la diffusione del nostro idioma nell’Ottocento deve molto anche a questo scritto di Mazzini che associa a un inesausto fervore una mirabile chiarezza di dettato, concetti e distinzioni. Impossibile estrarre della sua colata d’oro qualche frase più rilucente.
Mette conto soffermarsi un istante sul capitolo VI Doveri verso la Famiglia che inizia: La Famiglia è la Patria del core. V’è un Angelo della Famiglia che […]. Mazzini la ripete la definizione della donna tanto vituperata dagli spiriti forti maschili e femminili. Ma che cosa inculca Mazzini agli operai? Amate, rispettate la donna […] Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. […] Un lungo pregiudizio ha creato con una educazione disuguale e una perenne opposizione di leggi quella apparente inferiorità dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione […] Abbiatela eguale nella vostra vita civile e politica. Siate le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere. È il caso di rilevare che negli ultimi tre righi del libretto l’emancipazione della donna è accoppiata all’emancipazione dell’operaio.
Sulla questione sociale Mazzini prende le distanze dai pensatori che andavano per la maggiore in Europa, dalle posizioni dei filantropi e degli economisti, alle dottrine già funeste di Sansimonismo, Fourierismo, Comunismo. Per Mazzini la Repubblica è l’unica forma legittima di Governo perché fondata sul consenso di uomini liberi. Gli operai non si illudano di raggiungere il riscatto con altra forma di Governo. Liberi, educati al sociale, stretti in associazione pacifica e pubblica, gli operai devono dare quel che possono di lavoro, devono ottenerne compenso tale che li renda capaci di sviluppare, più o meno, la propria vita sotto tutti gli aspetti che la definiscono. Non bisogna abolire la proprietà perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla. Riuniti in associazione col sagrificio si formerà il primo capitale che congiuntamente al lavoro consentirà agli operai di elevarsi da assalariati a liberi e fraterni produttori, etc.etc.etc.
Il pensiero sociale di Mazzini, purtroppo solo abbozzato, apparve senza dubbio ingenuo e sentimentale in una temperie culturale che vedeva trionfare il famigerato manifesto che avrebbe spinto gli oppressi a divenire violenti rivoluzionari subito riportati alla triste condizione di partenza da sanguinarie personalità prevaricatrici uscite dalle loro stesse file.
Grazie al video di un computer contemplo il ritratto di Mazzini esposto al Vittoriano. Sta morendo solo, Giuseppe Mazzini, in una stanza anonima. Del letto si intravede una piccola voluta della spalliera di ferro. Su un cuscino disposto verticalmente in aggiunta a uno orizzontale spicca il lato destra della sua bella testa serenamente abbandonata. Ha un foulard nero al collo ed è avvolto da un plaid grigio quadrettato da cui fuoriescono le mani posate l’una sull’altra. Non è la mors immortalis di Lucrezio che lo vince e la sora nostra morte corporale di Francesco d’Assisi che lo soccorre. Una quiete e una compostezza sacre traspirano dal quadro verista di Silvestro Lega. Mi commuovo.