Basilio Gavazzeni: “L’esercizio della buona morte”. Di seguito la nota integrale.
Sono stato presto un alunno della morte. Via Magenta che, alla fine della guerra, mi aveva visto nascere, a Verdello, in quel di Bergamo, era chiamata la strada dei morti. Penso che la indichino tuttora così perché vi transitano sempre le processioni che accompagnano i defunti al camposanto. Sopravvissuto alla moria che allora falciava gli infanti, piccino, mi invitavano con i coetanei a reggere uno dei fiocchi biancodorati che adornavano le bare nei funeralini, grazie a Dio più radi, della generazione seguita alla mia. Come dimenticare il canto roco ma virtuoso del Miserere erompente dalle gole dei disciplini che, in doppia fila, con le tonache rosse e le cotte gualcite, avanzavano alle nostre spalle, oscillando e brandendo lunghi ceri gocciolanti? Divenuto chierichetto, per me e per i miei compagni era irresistibile il richiamo della cantoria dietro la struttura monumentale che sovrasta l’altare, quando veniva celebrato l’ufficio dei morti. Ci inebriavamo a unire le vocette a quella stentorea del sagrestano che, per nulla intimidito dal latinorum, berciava il Dies irae dies illa tremendo.
A dieci anni, fatta la quarta elementare, presi la valigia e senza voltarmi entrai nel seminario minore dei Padri Monfortani a Redona di Bergamo. Altrove ho raccontato quegli anni guidati da pedagoghi volenterosi ma, poveri cristi, del tutto a corto di psicologia. Non mi hanno storpiato, però, come è evidente! In quegli anni, fino al 1962, ogni venerdì sera, terminato il Rosario, alle ore 19 si svolgeva l’Esercizio della buona morte. Ne riferisco perché un amico di valore, venuto a visitarmi dopo anni di ritiro, reagendo alla nolontà di riallacciarsi ai vivi, avendomi sentito parlarne, me ne ha domandato il testo. Le ho ritrovate le Preghiere dell’Apostolino che lo contengono, rilegate in similpelle, labbro rosso cremisi, costola un po’ sdrucita, nulla osta e imprimatur del 1952. Eccolo qui l’Esercizio.
Si apre con la Preghiera per la buona morte in cui si chiede, qualsiasi uso si sia fatto della vita, di poter morire come san Giuseppe fra le braccia di Gesù e Maria, come la Vergine Madre accesa dal desiderio di unirsi al Figlio, con rassegnazione fra i patimenti e con abbandono alla misericordia divina. Poi attaccano le Litanie, ognuna sigillata dall’invocazione Misericordioso Gesù abbiate pietà di me. Martellano in un crescendo di pathos: Quando i miei piedi… Quando le mie mani tremule e intorpidite… Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall’orrore… Quando le mie labbra fredde e tremanti… Quando le mie guance esangui e livide… e i miei capelli… Quando la mia immaginazione… Quando il mio debole cuore… Quando verserò le mie ultime lacrime… Quando i miei parenti e amici… Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi… Quando gli ultimi sospiri del cuore… Quando la mia anima uscirà per sempre da questo mondo… Finalmente quando la mia anima comparirà dinanzi a Voi… Misericordioso Gesù abbiate pietà di me. L’Esercizio, raggiunta l’acme, finiva con un atto di accettazione di qualsiasi tipo di morte.
Storpiature teologiche? Nella penombra della chiesetta che ci tutelava, le litanie calavano a folate sulle testoline di 120 ragazzetti fra i 10 e 15 anni, già con la vestina da prete, inginocchiati. Nessuno fiatava, nessuno tossiva, i corpi così immobili che non c’era più scricchiolio di banchi. Poco dopo, nel refettorio, durante la cena, le voci non scoppiavano come le altre sere, ma si contenevano in un fitto bisbigliare. L’esercizio sul Grande Istante aveva percosso e ammansito tutti.
L’Esercizio della buona morte non è reperibile in nessun libro di devozione italiano. Alle Preghiere del’Apostolino che ho sotto gli occhi è pervenuto dalla tradizione dei Padri Monfortani francesi fedelissimi al fondatore san Luigi Maria Grignion da Montfort (1673-1716). Potente organizzatore e predicatore di missioni popolari in Bretagna, il Santo recava sempre con sé un poderoso manoscritto di materiali per la predicazione pubblicato qualche tempo fa col titolo Le livre des Sermons du Père de Montfort che si conclude con un lungo schema per pensare alla morte les sept jours de la semaine. Per la domenica: Il faut mourir; per il lunedì: La mort est proche: per il martedì: La mort est trompeuse: per il mercoledì: La mort est terrible; per il giovedì: La mort des pécheurs est terrible et abominable; per il venerdì: La mort des justes est douce et désiderable; per il sabato: La mort est semblable à la vie.
Far tinnire queste espressioni di tre secoli fa sarà controcorrente ma non anacronistico. Ancora ieri tanatologi, storici, pensatori e sociologi denunciavano la rimozione della morte e dei morti. Oggi ne dovrebbero rilevare il dilagante presentismo prolungato oltretutto da dibattiti ossessivi. Chi ha la pessima abitudine di esporsi ai telegiornali mentre fa colazione deve masticare e inghiottire regolarmente puntuali informazioni sulla mietitura della morte: morti di guerra, morti per acqua, morti per incidenti, morti delle cronacacce, divi d’ogni grado e vip d’ogni genere trapassati. Morti morti per davvero, per i quali, interrompendo i bocconi, sono solito recitare un Requiem, ma che per le citazioni televisive, straripetute per giorni e riproposte a distanza di tempo, possono sembrare meno morti, come se la trascendenza mediatica garantisse l’immortalità, mentre non è che un’illusoria bolla dell’immanenza, perché anche la gloria mediatica non scalda la polvere o la corruzione del sepolcro.
L’antico e iperrealistico Esercizio della buona morte non si confà a noi delicatuzzi, ma riveduto, corretto, centrato su una sostanziosa escatologia cristiana, ci farebbe più buoni e giusti, mentre si marcia nel tempo verso la meta dove Dio tergerà ogni lacrima dagli occhi, non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né l’affanno, essendo passato il passato (cfr Ap 21,4).