Emergenza Coronavirus in Basilicata, La Basilicata Possibile: “Una lezione per il futuro”. Di seguito la nota integrale.
Molto di ciò che sarebbe sensato pensare e dire, a proposito del modo in cui la Giunta Bardi sta gestendo l’emergenza Coronavirus in Basilicata, è già stato detto mentre molte domande – come quelle dell’appello pubblicato da Decanter on line – attendono tuttora risposte.
Ciò che invece è rimasto in ombra – nel confronto di questi giorni su stampa e social e che verosimilmente esploderà prossimamente – è il modo in cui dovrà riorganizzarsi e ripartire l’esistenza di tutti e di ciascuno, quando, speriamo presto, l’emergenza allenterà la presa.
Esiste un problema gigantesco che riguarda la materiale sopravvivenza di tantissime persone, a partire dalla prossima settimana e nei prossimi mesi.
Tutti quelli che sono considerati lavoratori autonomi di seconda generazione – cioè precari, stagionali, intermittenti, parasubordinati, riders e chi più ne ha più ne metta (in Italia e in Europa fra i due terzi e la metà degli occupati o classificati tali) – tra qualche giorno avranno necessità urgente e drammatica di misure di sostegno al reddito.
Il coronavirus scoperchia semplicemente una realtà scomoda, ma già nota, riportando al pettine tutti i nodi non sciolti del ventennio che abbiamo alle spalle. Colpevoli distrazioni ed ossequio subalterno al pensiero dominante hanno irresponsabilmente coperto una situazione destinata ad esplodere: non c’è più alternativa al varo di uno strumento universale di sostegno al reddito delle persone che riunifichi organicamente le numerose e svariate forme di indennità, sussidi, provvidenze locali, spesso in deroga, disordinatamente messe in piedi per fronteggiare emergenze sociali, dunque slegati e fatalmente parziali ed inefficaci.
Perché i cittadini di questo paese ce la possano fare (come tutti ripetono in questi giorni), è prosaicamente necessario che venga effettivamente riconosciuto il loro il diritto alla salute ed al reddito.
Sul secondo si è detto, a proposito della prima, superata l’emergenza, sarà forse il caso di aprire una discussione impietosa sul sistema sanitario nazionale e sullo stato in cui è ridotto per effetto di un quindicennio ininterrotto di tagli e privatizzazioni. Queste politiche non hanno giovato neppure a chi le ha promosse immaginando forse di farne un modello.
L’ecatombe, a cui assistiamo impotenti, in un paese normale avrebbe già posto una pietra tombale su ogni chiacchiera spesa a proposito di autonomia differenziata. A questo riguardo, e oltre le valutazioni di superficie, appare oggi chiaro che il servizio sanitario nazionale che tutto il mondo ci invidierebbe, al netto degli elementi di universalismo residui, è in realtà ridotto ad un’immagine sbiadita di quello che fu.
Ciò che oggi drammaticamente si coglie è il crollo del sistema: gli ospedali, anche quando eccellenti, sono ormai presidi isolati da un territorio privo di strutture ed abbandonato unicamente alle cure dei medici di base che a mani nude ed eroicamente dovrebbero fronteggiare un’emergenza senza precedenti. E’saltato cioè esattamente quel tessuto che fa di presidio ospedaliero e medicina del territorio ciò che si definisce un sistema, ovvero una struttura solida e capace nel suo insieme.
E’evidente che un modello incardinato su presidi eccellenti, pubblici e privati, concepito per attrarre grandi flussi di migrazione esterna ha finito per sguarnire progressivamente tuto ciò che non appariva altrettanto remunerativo. Quando l’epidemia ha colpito, falcidiando le prime linee, l’assedio ha naturalmente investito gli ospedali che ne sono rimasti schiacciati.
Fare tesoro di questa lezione è l’unico modo non retorico per onorare i morti e lavorare a difesa dei vivi, mettendo in sicurezza fisica, psicologica e materiale milioni di cittadini che dovranno superare questa fase drammatica conservando le forze per potersi rialzare.