Nel suggestivo scenario dei Sassi di Matera, nella piazzetta della Chiesa della Madonna dell’Idris, Andrea Orlando, candidato a segretario nazionale del Partito Democratico, ha tenuto in mattinata pubblico comizio denominato “Prospettiva Italia,- rifessioni per il mio paese”. Ad accoglierlo in piazza San Pietro Caveoso per poi proseguire insieme a piedi fino a raggiungere il luogo della conferenza stampa il segretario cittadino del PD Cosimo Muscaridola, il consigliere regionale Roberto Cifarelli e l’ex sindaco e consigliere comunale Salvatore Adduce. Di seguito il testo integrale dell’intervento di Andrea Orlando a Matera.
Prospettiva Italia, Matera, 23 Aprile
Prospettiva Italia, è il titolo che abbiamo scelto per questa iniziativa. Prospettiva Italia, perché vogliamo rivolgerci al futuro.
Ma quale prospettiva?
Soprattutto una: Unire l’Italia.
Questa oggi è la missione che mi propongo.
Siamo venuti qui per dirlo.
Per raccontarlo in mezzo a questa bellezza.
Voi direte, un po’ lontano!
Sì, è vero ma la scelta del luogo, come sempre, conta.
1945.
La guerra è finita. L’Italia si rialza.
Era un’Italia che sapeva ancora poco di sé, ma che iniziava la sua strada.
Togliatti per primo. Poi Alcide De Gasperi vennero tra questi sassi. Entrambi si trovarono d’accordo, dopo aver visto le condizioni in cui gravava questo posto, che vivere a quel modo era una “vergogna nazionale”. Da cancellare.
Matera è stata anche questo.
La storia di un Paese che dalla miseria più nera vede l’alba del risanamento.
Ho detto miseria perché miseria era.
“Miseria” non è lo stesso che dire “povertà”.
In quel termine, “miseria”, è vissuta per secoli una coscienza di popolo. Una lingua.
“Porca miseria” per un tempo infinito è stata un’imprecazione.
L’incubo che tanti avevano vissuto. Eppure quel Paese – e questa città – seppero rialzarsi. E scoprire lo splendore della civiltà.
Matera oggi è patrimonio dell’umanità. E in questo posto considerato allora una “vergogna nazionale”, ora si celebra la Capitale europea della cultura.
Questa è una delle tante storie della Ricostruzione. Storie di gente che ha rimesso in piedi una nazione.
Seppero ripartire dalle macerie e dalla miseria, perché chiamarono le cose con il loro nome.
Non promisero scorciatoie.
Non si affidarono ad uomini eccezionali. Non ricercarono azzardi o colpi di fortuna. Non imprecarono contro oscuri complotti, né si consolarono, additando le responsabilità di chi aveva tradito la Patria.
Ma con la fatica, il sacrificio, la perseveranza e la verità seppero rimettere un Paese in piedi.
Seppero riconquistare la dignità nazionale che il fascismo aveva calpestato.
E quando il miracolo arrivò non si trattò di un miracolo, ma del frutto del lavoro e dell’intelligenza di uomini e donne che in un mondo diviso, in una società segnata da profonde diseguaglianze, seppero costruire un cammino comune.
A noi oggi tocca ripartire dalla verità.
È una responsabilità della politica dire la verità nei momenti difficili.
Diroccate non sono le case, ma i valori. Il senso di appartenenza alla comunità nazionale. In un Paese spaesato dallo scarto tra le aspettative suscitate da una cattiva politica e le effettive opportunità offerte a ciascuno, e a tutti.
La crisi più profonda che si sia mai abbattuta sul nostro Paese ha lasciato profonde ferite.
Un rancore e una paura che impedisce di vedere come da questa crisi civile, morale, economica si possa uscire soltanto insieme.
Io non vi dirò che tutto va bene, che il peggio è alle spalle, perché seppure qualche passo è stato fatto, il più è ancora da fare.
Le notizie di questi giorni ci dicono quanto sia precaria la nostra situazione finanziaria, altro che tesoretti.
La crisi ha distrutto capacità produttiva, ha desertificato intere aree del Paese, ha portato per le nuove generazioni livelli di disoccupazione inaccettabili.
La crisi ha profondamente incrinato la cultura democratica, a partire dai suoi presupposti fondamentali: il rispetto per ogni individuo che nasce dal principio di uguaglianza, dal riconoscimento che ogni persona è portatrice sin dalla nascita di una dignità che né lo Stato né altri possono sopprimere.
Abbiamo lasciato che “terrone”, “frocio”, “negro” diventassero moneta corrente del dibattito pubblico.
Che le promesse di annientamento dell’avversario politico diventassero consuetudine.
Non ci sono solo i cappi sventolati e le promesse di patiboli.
Ci sono anche le versioni più edulcorate delle asfaltature e delle rottamazioni. Così l’interlocutore, quello con cui dovresti costruire insieme una strada, nella leale competizione e nell’inevitabile conflitto, diventa un oggetto da rimuovere.
C’è una violenza nelle parole, soprattutto se le parole sono quelle di chi ha grandi responsabilità, che è il presupposto di una violenza nella società. Dell’impossibilità, appunto, di trovare, al di là delle differenze culturali, ideologiche, religiose un cammino comune per rialzare la testa.
E la violenza nella società genera molto spesso la richiesta di risposte autoritarie, di uno Stato che si erge a tutore di un ordine basato sulla superiorità di una nazione sulle altre.
È la storia anche di oggi.
In molti Paesi sentiamo risuonare parole antiche e pericolose che parlano di supremazia.
E per questo è urgente farsi carico della ricostruzione di una cultura democratica.
Il fascismo fu violento, odioso, come violente e odiose sono tutte le dittature della storia.
Quelle che affondano nel passato. E quelle che aggrediscono il nostro presente.
Quella dittatura fu sconfitta.
Non solo con i fucili.
La vittoria si compì con l’alfabetizzazione democratica di un popolo che per vent’anni aveva ignorato le regole della democrazia, e prima ancora aveva conosciuto solo quelle della sua versione oligarchica e notabilare.
Le grandi forze popolari compirono questa impresa e costruirono la Repubblica, scrissero la Costituzione.
Poi si divisero, anche duramente.
Perché così andava il mondo.
Ma nei passaggi cruciali seppero sempre riunirsi.
Qui, da Matera, vorrei dire che di quella grande visione dobbiamo tornare ad essere eredi.
Eredi degni.
Matera è la storia di una politica capace di vedere la realtà, anche quella dolente.
Capace di ascoltare.
Con umiltà.
Ascoltare la cultura, anche quando è più critica.
E ascoltare la società, anche quando è più arrabbiata.
Oggi non sono i manganelli ad allontanare dalla democrazia ampi strati della popolazione, ma il disincanto, la delusione, l’idea che nulla possa cambiare se non con distruzione delle stesse istituzioni democratiche.
Ecco perché siamo qui.
Per porre rimedio a queste ferite.
Perché volevo tornare in un luogo del riscatto e dell’orgoglio nazionale. Riscatto e orgoglio, due parole belle che la politica ha smarrito.
Qualcuno ha provato a sostituirle con altri termini: “rivincita” e “vanità”. Ma non è la stessa cosa.
La rivincita può limitarsi a numeri, percentuali, rapporti di forza.
Il riscatto è sempre, anche, una sfida morale.
La vanità appaga il senso di sé.
L’orgoglio ti fa scoprire la forza di una comunità.
Riscatto e orgoglio sono sempre il risultato di lotte, anche dure.
Battaglie culturali e sociali.
Matera è anche questo.
Le famiglie furono portate fuori dai tuguri e si costruirono case popolari.
I figli magri come chiodi, curati e mandati a scuola.
Alla scuola pubblica.
Matera è l’Italia che diventa adulta.
I leader di allora seppero riconoscere una verità comune: che non ci poteva essere vero sviluppo se non riguardava tutto il Paese.
Se non si ricucivano le ferite. Se non si sanavano le fratture. Se non si provava davvero a “unire l’Italia”.
Ci provarono, e in parte ci riuscirono. Come qui.
Il Mezzogiorno in quegli anni partecipò e fu protagonista dello sviluppo che trasformò l’Italia in una grande potenza economica e industriale.
Questa è la lezione di cui abbiamo bisogno oggi.
***
Oggi la guerra si proietta ai nostri confini.
Il terrore colpisce le nostre città e anche da qui la mia e nostra solidarietà e vicinanza a Parigi e ai francesi.
Buon Voto, e che oggi sia una domenica di forza della democrazia. Dicevo, la guerra ai nostri confini.
E la morte nel cuore del Mediterraneo.
Ho pensato che ci sono mondi, in questo mondo, di cui non sappiamo nulla.
Mondi che abbiamo smesso di incontrare, conoscere, cercare.
È come se nelle nostre società si fossero aperti degli abissi, scavati da divari economici, sociali, territoriali sempre più profondi.
Come se vivessimo in universi paralleli.
Accade nella società.
E accade nella politica.
Penso alla distanza tra centro e periferie, alla frattura tra città e campagne. Divari che stanno mettendo a rischio la democrazia.
Che hanno stravolto la geografia elettorale, penso alla Brexit, alla vittoria di Trump, al referendum in Turchia.
Ho accennato al voto francese.
Diciamoci la verità, se vincesse il Front Nazional per l’Europa si aprirebbe un tempo buio.
Il cammino comune che ha portato a settant’anni di pace e benessere, all’esperimento di democrazia più avanzato al mondo, rischierebbe di interrompersi.
E l’Unione di dissolversi.
Rischiamo di fermarci quando attorno a noi il mondo si muove, e non nella giusta direzione.
Le minacce di conflitti nucleari, la legalità internazionale come carta straccia.
I crimini contro l’umanità in Siria.
Abbiamo visto tutti le immagini dei bambini uccisi dalle bombe chimiche, “Casa loro”? “Casa loro”…
Torniamo umani, riaffermiamo la nostra civiltà, anche per sottrarci ai ricatti della Turchia di Erdogan.
Un modo ce l’abbiamo: corridoi umanitari subito e gestione europea della crisi dei profughi.
In queste ore mobilitiamoci per la liberazione di Gabriele Del Grande.
La Turchia che si avvia verso il sultanato rende ancora più evidente una verità. La democrazia è in minoranza nel mondo. Ed è in recessione. Persino dove aveva le radici più antiche. Nell’America sfregiata dal muro di Trump.
Contro tutto questo non si alza che la voce potente di Papa Francesco. La sua geopolitica della misericordia.
E allora dobbiamo scuoterci.
Reagire al senso di terrore che investe il quotidiano, tenta di storcere le nostre abitudini, i nostri stessi sentimenti.
Se non reagiamo adesso, il messaggio delle forze populiste e nazionaliste si farà più insidioso.
Se ci manca il coraggio, quel messaggio diventerà ancora più forte. Sull’Europa, sull’immigrazione, sulle istituzioni democratiche, io non userò mai, mai, mai le parole dei populisti.
Userò parole “sovversive”, perché parole di verità.
Oggi la verità è che per affrontare i drammi e le sfide che ci stanno attorno, per costruire la pace, per affrontare il cambiamento climatico, serve più Europa.
Non le piccole patrie, non i muri. Più Europa.
Non ci sono altre formule, altri slogan.
L’alternativa oggi è questa: più Europa o fine dell’Europa.
Voglio dire da che parte sto. Sto dalla parte dell’Europa e non scaricherò sull’Europa i limiti delle politiche nazionali, non devierò il malessere nazionale contro l’Europa.
Vogliamo l’unione bancaria per tutelare i nostri risparmi o no?
Vogliamo un bilancio europeo degno di questo nome, un grande piano di investimenti finanziato anche attraverso emissione di debito europeo? Vogliamo una politica di sviluppo europea?
Vogliamo politiche fiscali comuni?
Tassazioni comuni per colpire i grandi colossi, contro cui la fiscalità degli stati nazionali non può nulla?
Una tassa europea sulle transazioni finanziarie potrebbe assicurare risorse per costruire finalmente il “pilastro sociale” dell’Unione.
Un’assicurazione europea contro la disoccupazione.
A Napoli ho proposto un piano europeo per la copertura totale dei servizi per l’infanzia.
Vogliamo o non vogliamo una politica estera e di difesa comune, un comune esercito europeo, o vogliamo essere in balia degli eserciti degli altri?
Questo voglio dire, dirlo senza ambiguità.
I burocrati comandano quando la politica gli lascia il campo, quando gira a vuoto, quando annuncia cinque volte al giorno, ma non sa che fare. Quando non sa fare bene, quando perde forza, competenza, cultura.
Voglio dirlo da Matera, che presto sarà Capitale europea della Cultura. Oggi è a rischio la cultura democratica, la civiltà dei diritti di cui l’Europa è stata culla.
Su questo, stiamo perdendo la sfida decisiva.
Ci siamo dimenticati che eravamo nati proprio per questo.
Dieci anni fa, quando fondammo il Pd, lo chiamammo “democratico” proprio perché avevamo iniziato a scorgere i segni di una crisi democratica, che pure si poneva in forme meno drammatiche di ora.
Non siamo riusciti nella nostra missione.
Ma le ragioni per cui siamo nati, oggi, sono ancora più forti. Più urgenti.
“Unire l’Italia”, fu il messaggio che Veltroni lanciò al Paese in un bellissimo discorso a Spello.
Ci ha travolto la crisi, consegnandoci dieci anni dopo un’Italia ancora più divisa.
***
Il voto del 4 dicembre ci ha sbattuto in faccia una radiografia sociale del Paese.
Le periferie, il Sud, i giovani hanno detto No e ci hanno voltato le spalle. Non sono stati i “traditori”. Sono stati gli italiani. Che probabilmente si erano già sentiti traditi da noi.
Dopo la sconfitta del referendum la nostra posizione non è cambiata di una virgola. Anzi, è peggiorata.
Chi ha perso è andato in cerca di rivincite. Non abbiamo messo a fuoco il messaggio che ci veniva dal Paese.
Per questo, da partito della stabilità, della responsabilità, rischiamo di diventare il principale elemento di instabilità del sistema.
Avevamo pensato di risolvere la questione democratica attraverso la via delle riforme istituzionali. Abbiamo perso. Perché non abbiamo legato la questione democratica alla questione sociale.
Le divaricazioni sociali hanno aperto fratture, divisioni nel modo di vivere e dunque anche nel modo di pensare.
Il 4 dicembre ci ha dato anche la misura politica di queste distanze, tra i centri e le periferie delle città, tra le città e le campagne, tra le generazioni, tra il Nord e il Sud.
C’è chi dice: mi tengo il mio, voglio una rivincita, sfido tutti gli altri.
Io dico che è tempo di unire, di colmare i divari, ricucire le ferite.
Guardiamo certo al 40% che ha votato SI, ma interroghiamoci su quel 60% che ha votato No. Non sono tutti gufi, nemici, conservatori. Sono il popolo. Un pezzo del popolo del nostro Paese, a cui abbiamo dato l’occasione di esprimersi. E ci ha lanciato un messaggio.
Un grido di dolore che ha manifestato la voce soffocata di molte periferie, dei più giovani, delle aree interne del Paese, del mezzogiorno. Quell’urlo è un monito per noi. Esprime rabbia, paura.
Io vorrei che diventasse speranza di riscossa.
Oggi, abbiamo bisogno di un messaggio nuovo.
Da Matera, dico agli italiani: ho capito il vostro disagio.
Cambiamo insieme.
Oggi l’1% più ricco della popolazione italiana possiede il 25% della ricchezza nazionale. Negli ultimi 15 anni, il surplus di ricchezza prodotto è andato per oltre il 50% al 10% più ricco degli italiani. Così è avvenuto anche nel resto del mondo occidentale. Un mondo sempre più guasto che erode le basi della democrazia.
Non voglio fare la lotta alle disuguaglianze per spostare a sinistra il Pd. Voglio farla perché questa, oggi, è la nostra funzione democratica.
Non è un’operazione semplice, e non è nemmeno indolore. Bisogna compiere delle scelte, e ridiscuterne altre.
I figli dell’1%, quando compiono 18 anni, nel nostro Paese, prendono il bonus cultura di 500 euro. Vogliamo dirlo che abbiamo sbagliato? L’abbiamo fatto noi. Non ce l’ha chiesto l’Europa.
Bisogna andare a toccare interessi costituiti, i centri di potere che in Italia sono forti coi deboli e deboli coi forti.
Anche noi siamo visti così.
Se sei un giovane senza lavoro, uno dei due milioni di disoccupati under 35, e senti parlare dei “1000 giorni che hanno cambiato l’Italia”, tu pensi ai tuoi 1000, 2000 giorni cancellati dalla crisi.
Pensi ai tuoi amici che se ne sono andati, via dal Sud, via dall’Italia.
E pensi di abitare in un altro pianeta rispetto al PD.
Se dici “noi siamo la buona scuola, basta piagnistei” a un insegnante che fatica in una periferia del Sud o del Nord, o in un piccolo comune spopolato che raggiungi a fatica, e il suo stipendio è bloccato da anni, stai perdendo una grande occasione.
L’occasione di chiederle “cosa possiamo imparare da te?”, “come possiamo costruire insieme un patto educativo per i nostri figli?”.
Perdi quell’alleato storico e vitale che, per la cultura democratica, da sempre è stato il mondo della scuola.
Una comunità, non l’ufficio circolari del dirigente.
Se sei un risparmiatore che ha paura per il suo conto corrente, non gli serve sapere che “l’Europa ci ha fregati”. Gli servono rassicurazioni, spiegazioni sulle azioni del governo e di avere garanzie per i risparmi di tutta la sua vita.
Se sei uno studente universitario idoneo senza borsa di studio, cioè uno che merita la borsa di studio e ne ha bisogno, ma che anche quest’anno non ha avuto quello che gli spetta, e senti “abbiamo lasciato un tesoretto di 47 miliardi da qui al 2032”, cosa pensi del Pd?
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Abbiamo fatto molte cose buone, in questi anni.
Abbiamo fatto molte cose giuste.
Ma allora perché un pezzo del nostro popolo non le ha riconosciute?
Forse anche perché non si governa, non si riforma un Paese, strattonandolo, sfidandolo continuamente.
Abbiamo litigato con il vasto mondo della cultura.
Al mondo del sapere abbiamo preferito quello delle società di consulenza.
Abbiamo rotto con il mondo del lavoro organizzato.
Girando per le fabbriche, in questi giorni, ascoltando quanto sapere, quanta cultura industriale diffusa ancora c’è, mi sono convinto che è giunto il tempo, nel nostro Paese, per un salto di qualità nella cultura del lavoro e dell’impresa: dare rappresentanza ai lavoratori nella governance delle aziende.
È una battaglia difficile? Sì, lo so. Ma io voglio farla.
C’è stata presunzione, in questi anni.
La presunzione di bastare a se stessi. Che non c’entra nulla con la vocazione maggioritaria.
È stata questa l’arroganza, la prepotenza che gli italiani non sopportano più.
Abbiamo parlato di un’Italia che ce la fa, e che certo dobbiamo valorizzare, aiutare ad emergere, ad essere eccellenza nel mondo.
Abbiamo una straordinaria vitalità imprenditoriale.
Noi abbiamo fatto le start-up prima che le chiamassero così. Ma anche nelle piccole e medie imprese c’è una distanza, un dualismo.
C’è chi gioca in Champions, sta nelle catene globali del valore, tiene in attivo la bilancia commerciale. E c’è chi arranca tra i dilettanti, che non riesce ad innovare, a trovare capitali. E si tiene in vita con bassi salari. Dobbiamo ridurre questa distanza, perché così l’Italia non può svoltare.
C’è un’Italia che ancora fatica, un’Italia che non ce l’ha mai fatta e un’Italia che non ce la fa più.
Con questa Italia abbiamo rotto i ponti.
Ma noi non siamo nati per essere il partito di quelli che ce l’hanno già fatta.
Siamo nati per dare l’opportunità a tutti di farcela. Per fare un Paese in cui a vincere non siano sempre gli stessi.
Torniamo a rappresentare l’Italia che vuole farcela. Che lavora, si sforza, ma che non crede più nella politica, perché la politica ha smesso di ascoltare, imparare, agire.
Torniamo a combattere l’Italia che si chiude in se stessa, nelle sue molte caste, che non sono solo la politica.
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Io voglio indicare una prospettiva nuova per l’Italia del futuro.
Obiettivi comuni, prospettive per tutti.
Abolire la povertà assoluta. Diciamolo da qui, da Matera. Ancora oggi più di 6 milioni di italiani vivono in condizioni di grave deprivazione. Non possono permettersi pasti adeguati, di pagare l’affitto, di andare in vacanza. Anziani soli, bambini in famiglie numerose. Giovani senza lavoro. Quattro milioni e mezzo nella povertà assoluta. Siamo gli ultimi in Europa per contrasto alla povertà. Dobbiamo diventare i primi in tre anni. Servono 5 miliardi. Abbiamo detto dove trovarli.
Tornare a fare figli. Perché il nostro problema principale è la demografia. Anche nel 2016 abbiamo toccato il record negativo di nascite. Il Sud ha perso il primato della natalità. Un Paese che diventa vecchio è un paese che diventa povero.
Oggi il sistema di sostegno alle famiglie è dispersivo, non funziona ed è anche ingiusto. La nostra proposta è molto semplice. Riorganizzare tutto, fare una sola misura. Una dote: 200 euro a figlio, 2400 euro l’anno per ogni figlio a carico. Che aumenta per i minori di tre anni, per le famiglie numerose e dove c’è una disabilità. E che diminuisce all’aumentare del reddito. Una proposta semplice e sostenibile.
Tutelare i giovani. Anche i giovani professionisti. Avvocati, architetti. Quelli che un tempo avremmo pensato come la futura classe dirigente. Oggi sono sfruttati nei grandi studi, spinti a una concorrenza al ribasso se si mettono in proprio.
Riconosciamo un “equo compenso”. Per tutelare loro e la qualità delle loro prestazioni. Ma non basta. Assicuriamo al vasto mondo degli autonomi, delle false partite Iva, che hanno avuto carriere lavorative instabili o interi periodi mancanti, una pensione dignitosa. Diamo loro un messaggio: non abbiate paura nel futuro.
Ho detto uguaglianza. E dico anche parità di genere. Superare il divario salariare tra uomini e donne entro 5 anni. Questo è uno degli obiettivi centrali della mia agenda
E prima di tutto, creare lavoro. Lavoro buono, di qualità. Rompendo anche il tabù degli ultimi vent’anni.
Tornare ad assumere nel settore pubblico giovani energie con alta formazione. Per rinnovarlo. Nella ricerca, nell’Università, nei servizi per l’impiego, nei servizi sociali, negli enti locali.
Oggi l’età media nella PA è di 52 anni. Solo 1/4 dei dipendenti sono in possesso di una laurea. Con il blocco del turn over, nella crisi, ne abbiamo persi 200 mila.
Oggi l’Italia è nettamente sotto la media dei grandi paesi europei per quota di addetti nel settore pubblico. Per questo non riusciamo a offrire servizi adeguati, ai cittadini e alle imprese. Per questo nemmeno riusciamo a farli bene, gli investimenti pubblici. Io propongo di riportarli ai livelli precedenti la crisi.
E propongo un piano straordinario per portare 100 mila giovani l’anno nel settore pubblico, per cinque anni.
Servono in tutto 30 miliardi, in grado di generare complessivamente una crescita di oltre il 5% del Pil. Nuovi consumi, nuovi risparmi, e anche nuove entrate.
Non sono tutte risorse aggiuntive: c’è il turn over, c’è la revisione della spesa da cui recuperiamo oltre 5 miliardi.
I paesi che hanno retto meglio la crisi sono quelli che hanno mantenuto un sistema pubblico efficiente e strategico, che hanno aumentato gli investimenti in ricerca, che hanno indirizzato risorse per stimolare e sostenere la trasformazione del tessuto produttivo.
Per questo ho proposto un “Iri della conoscenza”, un soggetto pubblico in grado di trasferire ricerca e tecnologia all’impresa, come fa la Germania. Per questo penso a un ruolo nuovo di Cassa depositi e prestiti come soggetto in grado di attivare capitali “pazienti” per investire nei settori nuovi e più alto rischio, nell’innovazione sociale e ambientale, nelle sfide del futuro.
Investimenti significano soprattutto piccole opere, nei comuni, nelle province italiane che non siamo riusciti a cancellare ma che abbiamo dimenticato.
È questo che fa ripartire il nostro sistema produttivo, le piccole imprese, gli artigiani.
Sulle grandi opere, quelle che più impattano sul territorio, diamoci un metodo. Organizziamo il “dibattito pubblico”. Anche per superare il comitatismo e i ricorsi che poi bloccano tutto. Discussioni argomentate, razionali. Con il supporto degli esperti. Posizioni diverse, dibattito approfondito, ma alla fine una decisione che coinvolge tutti e dunque e impegna tutti.
Così rilegittimiamo le decisioni pubbliche, rivitalizziamo la democrazia. Non con l’imbroglio del voto online, in cui uno-vale-uno ma decide sempre uno solo.
L’Italia è un Paese bellissimo, guardate alle mie spalle. Ma è un Paese fragile, di cui dobbiamo prenderci cura. Ha bisogno di una grande opera di manutenzione straordinaria. Di prevenzione contro i terremoti, le alluvioni. Servono investimenti? Sì, concordiamoli con l’Europa.
Si tratta della nostra priorità, di salvare vite umane dai disastri futuri. Il territorio, l’ambiente. Abbiamo il più grande patrimonio europeo di biodiversità. È la nostra ricchezza dimenticata.
Diamoci un orizzonte.
Voglio restituire colore al verde della nostra bandiera.
Mentre l’America di Trump minaccia di stracciare i protocolli contro il riscaldamento climatico, io lancio un grande piano per la conversione ecologica, delle costruzioni, della mobilità urbana.
Tutto questo significa sviluppo, innovazione.
Io dico che dobbiamo fermare il consumo sconsiderato di suolo: rigenerare, prima di costruire il nuovo.
Certo, poi serve anche il nuovo. Matera sarà Capitale europea della cultura nel 2019? Ma come ci si arriva a Matera? Voglio portare l’Alta velocità al Sud. Non è un’eresia, è una condizione essenziale per lo sviluppo. Facciamo di questo appuntamento un’occasione per rilanciare e ripensare al nostro modello di sviluppo.
Non solo di Matera, ma di tutto il Mezzogiorno.
La valorizzazione, anche turistica, del patrimonio artistico, culturale e naturale del Mezzogiorno negli ultimi anni ha dato segnali incoraggianti. Andiamo avanti.
Io rivendico la cultura in tutte le sue forme. Che nel nostro Paese è anche una cultura del sapere fare, e fare bene.
La sapienza della piccola manifattura che non va perduta, e che va reinventata con le nuove tecnologie, fatta conoscere al mondo. L’agroalimentare di qualità da far arrivare su tutte le tavole del mondo, un marchio da difendere, dalle contraffazioni che uccidono la nostra piccola impresa sana.
Ma come ci arriviamo al mondo? Qualche giorno fa Romano Prodi ci ha ricordato le occasioni perse del rilancio di Gioia Tauro e di Taranto, dove abbiamo fatto andar via i cinesi, che ora si sono stabiliti al Pireo.
Il rilancio della logistica portuale non è una questione del Sud, è una grande sfida nazionale.
Facciamo arrivare in tutto il mondo, dal mare nostro, i segni e i frutti della nostra alta qualità della vita.
L’idea che, con la memoria di settant’anni fa, da Matera oggi possa arrivare all’Europa e al mondo un messaggio di civiltà, di cultura, di benessere, deve accendere il nostro orgoglio, il nostro entusiasmo, la nostra creatività.
Con queste prospettive, con queste proposte, il Partito democratico può ripresentarsi agli italiani.
Dimostrare che la politica non è manovra di Palazzo. Non è legata al destino di un leader o di un partito.
È destino comune, da costruire insieme.
Oggi, a tutte le forze politiche italiane, dico a tutte, manca la prospettiva. Qual è la prospettiva della destra populista e nazionalista?
Un Paese incattivito, chiuso, a catenaccio.
Ma anche il Partito democratico in questi ultimi mesi l’ha persa.
La corsa verso le elezioni anticipate farà magari l’interesse di qualcuno, ma certo non quello dell’Italia.
Non possiamo andare alle elezioni senza prima aver restituito lo scettro ai cittadini.
Non possiamo accontentarci di una legge elettorale qualsiasi.
Abbiamo noi il dovere di dire la nostra.
Lo dobbiamo agli italiani. Diciamo via ai capilista bloccati. Diciamo collegi uninominali. E un premio di governabilità a una coalizione.
Senza una nuova legge elettorale, siamo condannati all’ingovernabilità. O alle larghe intese con Berlusconi.
Non porsi il tema delle alleanze, nel Pd, significa essere pronti a questo.
Io dico di no. Io non voglio fare questo regalo ai populisti e ai fascisti 4.0. Se non vogliamo la palude, dobbiamo costruire una coalizione vera, sulla base di una proposta di governo.
Su questo siamo chiamati a scegliere il 30 aprile.
Io non mi sono candidato per correre il giorno dopo a Palazzo Chigi.
Io mi metterò al lavoro per offrire all’Italia una prospettiva diversa.
La ricostruzione del centrosinistra.
E non può farlo chi fin qui ha diviso e ancora oggi rappresenta l’ostacolo principale alla sua ricomposizione. Lavorerò per tenere insieme ispirazioni diverse per dare un futuro all’Italia.
Da Giuliano Pisapia a Enrico Letta, ai sindaci, a tutti coloro che ci vorranno stare. Un campo aperto alle forze vive della società, al volontariato laico e cattolico, all’associazioni, alle forze sociali che si organizzano e tengono alta la civiltà del lavoro, della solidarietà, della cura degli altri.
È questo il percorso che io propongo.
Mi candido per dedicare tutto il mio tempo a questa prospettiva per l’Italia. Il candidato premier lo sceglieremo tutti insieme.
Io lancio un’idea. Facciamo in autunno, a fine ottobre, dopo una bella discussione sui valori e sui programmi per l’Italia, le primarie aperte a tutta la coalizione di centrosinistra.
Il candidato del Partito democratico sarà la persona che più sarà in grado di unire, di rappresentare un campo largo, di ricostruire un rapporto di fiducia e di simpatia con gli italiani.
Ma il primo tempo di questa partita si gioca domenica prossima, il 30 aprile.
Lo dico a quelli, e sono tanti, che sono stanchi di noi.
A quelli che in questi anni ci hanno abbandonato, che non ci votano più, ma che non hanno trovato una casa.
Venite con noi, dateci una mano, noi siamo quelli che vogliono ricostruirla.
Diamole nuova luce, splendore, come questi Sassi.
Venite a cambiare il Pd, se vogliamo davvero cambiare l’Italia.
C’è chi in queste settimane ha provato a imporre l’idea che la storia di queste primarie sia già scritta.
Hanno sbagliato i calcoli, perché le storie già scritte non parlano al futuro. Inducono alla rassegnazione. Spingono tanti uomini e donne a stare chiusi in casa ad attendere da spettatori la storia.
Io vi chiamo invece a vivere insieme una sfida avvincente.
Chiamo gli italiani che non vogliono rassegnarsi a un Paese chiuso e ripiegato su stesso, che non voglio vivere in un Paese rancoroso e incattivito.
Chiamo gli italiani che hanno paura, che temono per il loro futuro, per quello dei loro figli.
Il 30 aprile potete scrivere una storia diversa, cambiare il verso della storia, riscrivere il copione.
Chi vuole che tutto resti com’è, spera che voi restiate a casa.
Sapete perché?
Perché chi vuole una storia già scritta teme quando il popolo si mette in marcia.
Perchè quando il popolo esce di casa e partecipa, rompe sempre il gioco, fa saltare i piani precostituiti.
Ecco, io vi chiedo di fare questo. Fate saltare i piani e i calcoli partoriti nei palazzi.
Il 30 uscite di casa, usciamo di casa, respiriamo aria nuova e diamo all’Italia una prospettiva.
la fotogallery della conferenza stampa di Andrea Orlando a Matera (foto www.SassiLive.it)