Dopo la relazione del presidente del Consiglio regionale, Piero Lacorazza, nel dibattito sulla riforma del bicameralismo e del Titolo V della Costituzione sono intervenuti i consiglieri Rosa (Lb – Fdi), Perrino e Leggieri (M5s), Romaniello (Sel), Pace (Gm) e Spada (Pd).
Successivamente, la seduta è stata sospesa e si è riunita la Conferenza dei capigruppo che ha deciso di rivedere il calendario dei lavori: martedì 8 aprile (ore 10,30) continuerà il dibattito avviato oggi sulle riforme istituzionali; dal 15 al 17 aprile l’Assemblea esaminerà i tre disegni di legge della Giunta che compongono la manovra finanziaria per il 2014; il 29 aprile è prevista una seduta dedicata ai problemi dell’Università. La sessione comunitaria avrà luogo, invece, il prossimo 13 maggio.
Riforma Titolo V nota di Gianni Rosa, consigliere regionale Fratelli d’Italia Alleanza Nazionale.
In questo particolare periodo, in cui la fiducia del Popolo nella classe politica è ai minimi storici, ci si sarebbe aspettato da parte di chi ci rappresenta nelle istituzioni nazionali una presa diposizione decisa e determinata in favore della nostra Terra. Invece, come al solito, le risposte di chi dovrebbe tutelarci sono tutte ambigue. Pittella, che, a Roma, si schiaccia sulle posizioni di Renzi ed accetta senza colpo ferire i suoi dictat, mentre in Basilicata dichiara tutto il contrario, è l’emblema di tale ambiguità.
Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale Basilicata non ci sta! E lo abbiamo chiarito in modo fermo, oggi, in Consiglio regionale, durante la discussione sul ddl di superamento del bicameralismo paritario e di revisione del titolo V, parte II, della Costituzione.
La modernizzazione delle istituzioni non può prescindere dall’opportunità di restituire ai cittadini la facoltà di scegliere direttamente i propri rappresentanti istituzionali per abbattere la distanza che esiste tra la volontà popolare e il Governo. Il disegno di legge governativo, invece, accentua ancora di più il distacco tra istituzioni e Popolo.
Quanto poi alla dolente questione dell’art. 117 della Costituzione, così come si vorrebbe modificarlo, la nostra posizione è chiara. Non possiamo abdicare le competenze regionali in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia. Non possiamo accettare di essere espropriati della possibilità di concorrere alle decisioni su quanto, come e dove trivellare nel nostro territorio. Non possiamo far mettere le mani sul petrolio a chi ci vede solo come un serbatoio da prosciugare, a chi vuole scaricare sulla nostra terra solo il rischio di un danno ambientale irreversibile.
Ho presentato per questo un ordine del giorno affinché la Giunta ed il Presidente della Regione s’impegnino a esprimere e sostenere in tutte le opportune sedi di confronto istituzionale le ragioni della Basilicata, al fine di garantire che la prossima riforma dell’assetto istituzionale comprenda anche le nostre istanze regionali. Aspettiamo ora il prosieguo del Consiglio, rinviato all’8 aprile, per vedere quale posizione la maggioranza vorrà adottare.
Gianni Rosa, consigliere regionale Fratelli d’Italia Alleanza Nazionale
La relazione del presidente sulla riforma del titolo V. “L’istituzione regionale deve costare meno ed essere più funzionale e trasparente, oltre ad assumere scelte condivise in un contesto di programmazione più ampio”.
“In Basilicata la Regione è un irrinunciabile spazio democratico, innanzitutto a tutela dei territori interni e dei piccoli Comuni, che rappresentano un presidio essenziale per il territorio e che altrimenti rischiano di essere emarginati. Uno spazio democratico che deve costare meno, essere più funzionale e trasparente, che in poche parole deve contribuire a semplificare la vita ai cittadini e alle imprese. Perché così sarà più utile per il territorio”. Lo ha detto il presidente del Consiglio regionale, Piero Lacorazza, concludendo la relazione tenuta oggi in Aula sulla riforma costituzionale del titolo V.
“In un contesto come quello lucano – ha aggiunto – con pochi abitanti che vivono in un territorio esteso, aspro e difficile, la Regione è anche l’elemento della perequazione, di una programmazione temperata del territorio, della difesa e della valorizzazione di storia e tradizioni che possono essere modello di sostenibilità”.
A parere di Lacorazza “le Regioni non possono essere trasformate in enti di gestione amministrativa, devono mantenere un ruolo legislativo, di programmazione e di tutela del territorio, e quindi di iniziativa concorrente con lo Stato, almeno in materie fondamentali quali ambiente, urbanistica ed uso del suolo”, mentre “il Senato delle Autonomie deve essere il luogo in cui le istanze dei territori vengono rappresentate e ricomposte in una sintesi unitaria in un organo di rango costituzionale, che serva anche a dirimere i conflitti, oltre che a promuovere la leale collaborazione fra le Regioni e lo Stato”.
“Più che rivedere i confini amministrativi delle Regioni – ha aggiunto ancora il presidente del Consiglio regionale – occorre che questi enti assumano scelte condivise in uno spazio di programmazione più ampio, per esempio pianificando l’uso dei fondi comunitari per la realizzazione di pochi grandi obiettivi infrastrutturali; per fare questo occorre attribuire rilevanza di legge ad un Gruppo europeo di cooperazione territoriale del Sud, stabilendo allo stesso tempo che la sessione comunitaria divenga momento unificante della programmazione unitaria dei Consigli regionali”.
“Il percorso per la definizione del nuovo Statuto della Basilicata – ha concluso Lacorazza – deve andare avanti in maniera decisa e spedita, declinando in maniera compiuta anche i principi di cooperazione con le altre Regioni dell’ipotizzato Gruppo europeo di cooperazione territoriale del Sud”.
Riportiamo di seguito il testo integrale della relazione del presidente del Consiglio regionale a cura di Piero Lacorazza
Potenza, 2 aprile 2014
Signor Presidente, Assessori e Consiglieri,
credo che abbia fatto bene la Conferenza dei presidenti delle Assemblee legislative regionali a promuovere una giornata di dibattito sulle riforme istituzionali che si svolge simultaneamente in quasi tutte le Regioni italiane. I Consigli regionali devono essere protagonisti del processo riformatore e non testimoni inattivi di un percorso che si decide altrove. E l’ulteriore accelerazione impressa negli ultimi giorni, con gli accenti che si spostano dal riforma Titolo V (formalizzata lunedì scorso con l’approvazione del disegno di legge da parte del Consiglio dei Ministri) alla ridefinizione degli stessi confini amministrativi delle Regioni, va oltre i contenuti del documento della Conferenza che sta alla base di questa discussione, e ci chiede una riflessione più ampia e profonda.
Da nove nasce la crisi del regionalismo? A seguire le cronache degli ultimi mesi, o forse degli ultimi anni, sembra di poterne individuare la causa esclusivamente nelle inchieste su rimborsi. Le Regioni come luogo e paradigma degli sprechi: di fronte a un Paese che soffre e cerca di sbarcare il lunario fra tante difficoltà, la politica non sempre ha offerto una buona prova di se. C’è anche questo nella vicenda più recente che abbiamo vissuto. Ma al di là dei profili giudiziari che riguardano le singole persone, e al di là delle iniziative che in tutte le Regioni, e anche in Basilicata, sono state avviate per ridurre i costi e migliorare il funzionamento delle istituzioni regionali, davvero si pensa che basti eliminare le Regioni per risolvere la crisi italiana? Io credo di no. La crisi del regionalismo viene da molto lontano, dalle contraddizioni irrisolte che hanno segnato la loro nascita e lo sviluppo della loro storia. Le Regioni esistono da più di quarant’anni, eppure sembrano ancora oggi sospese nell’eterno dibattito fra chi le vede come luoghi di un decentramento amministrativo funzionale al rafforzamento dello Stato centralista, e chi invece punta sull’articolazione di poteri autonomi e concorrenti.
Emilio Colombo, che il 22 maggio 1971, in qualità di presidente del Consiglio dei Ministri, firmò la legge dello Stato che approvava lo Statuto della Regione Basilicata, ha ricordato più volte la discussione “profonda e tormentata” dell’Assemblea costituente sulle Regioni. Una discussione “non priva di dubbi, ma aperta a grandi speranze”, con la quale i costituenti volevano individuare lo strumento per allargare la partecipazione democratica e avvicinare i cittadini alle istituzioni e all’esercizio del potere pubblico. Così le Regioni sono nella Costituzione del ’48, ma la legge elettorale per queste istituzioni vede la luce solo vent’anni dopo, nel 1968, e dopo le prime elezioni del ’70 bisognerà attendere il 1975 per il completamento dell’ordinamento regionale con Massimo Severo Giannini. Un ordinamento che da subito, al suo stesso autore, apparve imperfetto e inadeguato per le resistenze che lo avevano condizionato. Poi, con alterne vicende, il processo di decentramento dei poteri dello Stato è andato avanti fino agli anni ’90, quando la parola federalismo è entrata con forza nella politica italiana, soprattutto all’indomani degli sconvolgimenti di tangentopoli e soprattutto con le elezioni regionali del 1995, quando (con il Tatarellum) ci sia avvicina al nuovo sistema di elezione dei sindaci varato nel 1993.
Federalismo, decentramento amministrativo con le leggi Bassanini, elezione diretta del presidente della Regione e riforma del titolo V diventano i temi caratterizzanti a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo. Ma sono anche gli anni del passaggio dalla lira alla moneta unica europea, e la coincidenza di questi processi mette in discussione l’equilibrio consolidato fra rappresentanza, democrazia e mercato, determinando un effetto divaricante e contraddittorio: mentre, da un lato, i poteri delle autonomie locali si sono di fatto estesi, dall’altro l’Italia cede sovranità nello spazio monetario europeo, ed i conti e il rigore dei trattati comunitari e delle regole monetarie entrano in noi. Per affrontare la nuova situazione sarebbe servita in quegli anni una buona legge sul federalismo fiscale, per definire fabbisogni, costi standard e meccanismi di perequazione per garantire efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione, ma anche diritti di cittadinanza uguali per tutti. Una legge arrivata invece solo dopo 8 anni (legge n. 42/2009) e come sappiamo mai attuata veramente. Come pure andava fatta allora la riforma del bicameralismo paritario, per rendere più veloce l’iter di approvazione delle leggi. Tutto ciò non è stato fatto perché siamo caduti nella palude di un certo ideologismo, veti incrociati e convenienze di parte hanno insabbiato i tentativi e le buone intenzioni comunque presenti in tutto l’arco costituzionale a cavallo tra il primo governo Prodi e il secondo governo Berlusconi.
L’esito di questa situazione è che in Europa ci siamo andati con la moneta ma non con il sistema pubblico e con il sistema economico. Portando così – questa è la mia personale valutazione – la gran parte dei cittadini ad individuare, oggi, tanto nell’euro quanto nelle istituzioni le cause della crisi. Ma non è con meno Europa e meno istituzioni che potremo uscire da questa situazione; non c’è passaggio difficile della storia, soprattutto nei momenti cruciali del ‘900, che si sia potuto superare senza spazi democratici ed economici più larghi e istituzioni più forti.
In questo contesto, con l’avvio della moneta unica, emergono la debolezza del nostro sistema economico, scarsamente competitivo e in qualche modo “dopato” dalla svalutazione della lira, le riforme incompiute e il fatto che la stessa riforma del Titolo V non sia stata sottoposta a verifica, man mano che emergevano problemi e contraddizioni. Problemi e contraddizioni che riguardano le materie concorrenti ampliate dal titolo V, soprattutto in tema di grandi reti di energia (proprio mentre in Italia si sviluppa il mercato delle energie alternative, eolico in primo luogo, e le grandi reti nazionali di energia elettrica e gas devono collegarsi alle reti che vengono da Est e Sud del Mediterraneo), e determinano l’ampliamento dei conflitti fra Stato e Regioni.
Negli anni successivi subentra la crisi finanziaria mondiale ed inizia di fatto un processo che porta le autonomie locali (i Comuni in primo luogo) a diventare il terminale su cui si scaricano le scelte più radicali di contenimento della spesa pubblica, di conflitto con il governo, di rafforzamento dei vincoli comunitari e del patto di stabilità interno. E’ in questa fase di “sfilacciamento/sfinimento” della Repubblica, almeno per come era stata definita dell’art. 5 della nostra Costituzione, che le Regioni vengono scosse da rimborsopoli; una vicenda che, oltre a portare l’attenzione della magistratura su una serie di ipotesi di reato che riguardano l’uso dei fondi per i rimborsi spese, riapre la discussione sul ruolo e sui confini delle Regioni, quasi che, improvvisamente, le Regioni vengano riconosciute come l’origine di tutti i mali. Se questa è la situazione, la campagna di stampa contro le Regioni, a volte collegata ai malumori di parti del mondo imprenditoriale per la difficile attuazione degli investimenti nel settore energetico, è una risposta assai parziale alla crisi, anche perché negli ultimi due anni sono stati rivisti i costi delle Regioni, ma non quelli della politica e delle istituzioni nazionali, dove pure si annidano molte inefficienze.
Nel frattempo, con la riforma approvata pochi giorni fa dal Senato e attualmente in discussione alla Camera, dopo un periodo di grande incertezza vengono cancellate le Province e nascono le città metropolitane. O meglio viene cancellato il voto diretto dai cittadini poiché le funzioni delle Province rimarranno quasi invariate.
Insomma, non è togliendo le Regioni, eliminando il voto diretto per l’elezione dei rappresentati delle Province o prosciugando i trasferimenti ai Comuni che si risolve il problema. Il tema è invece quello di rivedere, alla luce degli orientamenti comunitari ed allo scopo di recuperare la credibilità e l’efficienza del sistema pubblico italiano, di tutto il sistema pubblico, l’organizzazione dello Stato democratico sul territorio, ma partendo dal principio in base al quale tutti i cittadini italiani devono avere uguali diritti, e allo stesso tempo definire fabbisogni e costi standard. Diritto alla salute, solo per fare un esempio, significa che tutti devono poter accedere ai medesimi standard di qualità dei servizi di prevenzione e cura, significa riduzione delle liste di attesa e non il differenziale del costo di una siringa, anche che in alcuni casi è questo dato è davvero imbarazzante.
Fabbisogni e costi standard sono i parametri dai quali partire per non contrapporre diritti ed efficienza del sistema pubblico. E solo se ripartiamo dai diritti dei cittadini, anche quello di vivere in un piccolo Comune, e di portare servizi (scuola, sanità, trasporti, innanzitutto) anche dove è più difficile e costoso, abbiamo un metodo giusto per calcolare i costi standard dei servizi e possiamo allo stesso tempo mettere le basi per una nuova architettura costituzionale: i Comuni, le istituzioni più vicine ai cittadini, un livello intermedio che unisce i Comuni per la gestione condivisa di servizi sovra comunali (dove non arrivano i Comuni deve arrivare la sussidiarietà orizzontale), un livello di programmazione e governo del territorio che può ancora essere rappresentato dalle Regioni.
Non è con meno democrazia che si risolvono i problemi dell’Italia, ed anche i territori vasti e con pochi abitanti come la Basilicata hanno le loro ragioni da tutelare. A questi territori non si può soltanto continuare a proporre la legge dei numeri e delle percentuali. Riforme non può significare sempre e soltanto riduzione. La razionalizzazione può essere anche l’esito di un processo di riforma, se si accetta di cambiare realmente le cose dando funzionalità, efficienza e riducendo anche i costi del sistema pubblico. É una sfida che riguarda il Paese ma è soprattutto una grande scommessa che dobbiamo provare a giocare a Sud, qui nel Mezzogiorno.
Io continuo a pensare che noi meridionali dobbiamo fare uno sforzo innanzitutto per “pensarci” come soggetti di una comunità più vasta, per capire cioè che i diversi Sud devono stare insieme per ricostruire una prospettiva di sviluppo. E la Basilicata può essere il cuore di questo processo più volte evocato negli anni scorsi, e anche di recente, con la significativa riflessione sviluppata dall’Istituto nazionale di urbanistica della Basilicata. Ma questo non significa dover chiudere le Regioni. Deve crescere la consapevolezza degli amministratori regionali di dover agire come agenti di sviluppo, di dover costruire pazientemente relazioni tra le Regioni e con i rispettivi attori del sistema socioeconomico per ridare voce alla politica rispetto alle grandi questioni che il Paese e il Mezzogiorno hanno davanti in termini di specializzazioni produttive, invecchiamento del tessuto imprenditoriale, difficoltà a giocare un ruolo sulla frontiera dell’innovazione produttiva e sociale, capacità dei territori di “fare sistema” per uscire dalla crisi rilanciando lavoro e produzioni.
In questo senso è paradossale che, per quanto superficialmente e sulla spinta di posizioni discutibili come quello della Lega, il Nord rifletta da tempo sulla macroregione settentrionale, mentre il Sud non abbia un dibattito serio sulla macroregione meridionale, pur essendo stata da sempre quella meridionale la “questione” postunitaria principale. Ed anche se guardiamo alla fase dell’intervento straordinario, cioè agli interventi finanziati dalla Cassa del Mezzogiorno, possiamo valutare l’efficacia e l’utilità (in molti casi incontestabile) di molte iniziative, che però non sono mai state programmate e gestite con una visione unitaria, in una logica di promozione dello sviluppo di un’area vasta del Mezzogiorno.
Eppure l’Europa ci offre, in questa prospettiva, regole e strumenti. Strumenti anche finanziari, come quelli rappresentati dai Fondi Strutturali: che non abbiamo mai provato ad usare in una prospettiva federativa degli sforzi per superare problemi che pure sono comuni a tutte le diverse aree del mezzogiorno: debolezza dell’industria, arretratezza di settori potenzialmente trainanti come turismo culturale e agroalimentare, conseguente disoccupazione, inadeguatezza dei fondamentali servizi di cittadinanza (scuola, università, sanità, servizi ai più deboli, infrastruttura amministrativa). E regole: esiste dal 2009 una disciplina anche nazionale di adeguamento che ci consentirebbe di dare veste giuridica a una rafforzata cooperazione interregionale, nelle forme previste dai Regolamenti comunitari per i Gect (Gruppi europei di cooperazione territoriale). Gect a cui potremmo associare quelle aree del Nord Africa e dell’Est Adriatico che sono i nostri interlocutori naturali per la creazione di un’area di sviluppo mediterranea già oggi indispensabile nella logica dell’area di libero scambio ormai in vigore già dal 2010 (ennesima occasione mai sfruttata dalle Regioni del Sud in una logica associativa e di cooperazione). Esistono già oggi in Italia 7 Gect, altri 3 o 4 sono in istruttoria; ma la politica regionale del Sud non si è nemmeno interrogata sullo strumento e sulla prospettiva. Il gruppo di cooperazione territoriale è oggi di grande attualità anche perché la Basilicata è tornata nell’Obiettivo 1 dopo la l’esperienza del phasing out.
Proviamoci, sapendo che, sulle infrastrutture, e non solo, abbiamo bisogno di uno spazio di cooperazione più grande. Possiamo trarne un grande vantaggio. Siamo una Regione di piccoli numeri e abbiamo bisogno dei mercati di prossimità, di rendere attrattivi i nostri sistemi territoriali, che devono imparare a cooperare con quelli delle aree limitrofe. Con un vantaggio. Mentre Pescopagano (per fare l’esempio di un Comune che si trova in un’area di confine) si sente vicino alla Regione e la Regione è vicina Pescopagano non è così per Calitri nel rapporto con la Campania. É anche questa una nostra opportunità. Ricordo il dibattito sul piano di dimensionamento scolastico, quando si ragionava sul potenziamento dell’istituto tecnico di Pescopagano con l’istituzione dell’indirizzo socio sanitario e odontotecnico perché, in una relazione forte con l’ospedale, avremmo potuto attrarre studenti dalla vicina Campania. Oppure a Maratea con l’istituzione dell’indirizzo “nautico” per provare a rendere attrattivo il polo scolastico in tutta l’area del Golfo di Policastro. Lo stesso ragionamento vale per la sanità e per il turismo, con il Parco del Pollino e il Parco dell’Appennino lucano che possono mettersi in relazione con il Parco del Cilento o con gli scavi di Grumentum e il castello di Brienza che possono entrare in un progetto comune di promozione con la Certosa di Padula. Ma vale per l’area Nord della provincia di Potenza nella relazione con la valle dell’Ofanto e di Matera con l’area Murgiana o del Metapontino con l’arco ionico. Del resto è proprio la prossimità, oltre alla lungimiranza degli amministratori locali, ad aver consentito ai Comuni dell’Alto Bradano di mettersi insieme per un progetto di raccolta differenziata con percentuali dell’oltre il 60 per cento grazie all’impianto di compostaggio di Laterza. E infine, se penso al dibattito sui trasporti e la mobilità, al tema della riorganizzazione dei servizi su ferro e su gomma, alla necessità di “agganciare” i nodi strategici del Sud: Bari, Foggia e Salerno. Altro che contrapposizione tra Piani del Mattino e Pista Mattei.
Noi, quindi, non possiamo che essere interessati ad una cooperazione vera e strategica tra le Regioni. E se, quindi, c’è da scrivere un nuovo patto democratico per cambiare davvero e permettere al Sud di giocare all’attacco, la Basilicata deve saper tessere alleanze istituzionali, sociali ed economiche. Lo abbiamo fatto altre volte, questa Regione ha saputo attraversare momenti drammatici e difficili negli ultimi 40 anni, superando prove importanti: dalle macerie del terremoto dell’80 è nata una Università il cui ruolo va rilanciato e rafforzato, ed anche in una battaglia difficile come quella di Scanzano la nostro piccola Regione, che qualcuno vorrebbe cancellare, ha saputo attrarre alleanze e simpatie.
Ma possiamo dire qualcosa in più per rileggere scelte e fatti che hanno messo la nostra Regione al centro di rilevanti passaggi della storia del rapporto tra Stato centrale e territorio, tra Regioni e governi, portando un contributo significativo e singolare, che non va dimenticato perché anticipa temi che oggi sono di grande attualità. Perché qui in Basilicata abbiamo praticato il federalismo solidale e cooperativo “a Costituzione invariata”, come si dice in gergo, cioè ben prima che fosse approvata la riforma del titolo V. Il che dimostra come non solo di competenze istituzionali, ma anche di capacità politica e negoziale, oltre che di unità e di coesione di un territorio, si tratta. Perché nel 1996/1998, quando a seguito di un lungo negoziato vengono sottoscritte l’intesa istituzionale fra Governo e Regione Basilicata e il protocollo d’intenti per lo sviluppo delle attività petrolifere in Basilicata fra Eni e Regione, e nel 1999, quando fra la Regione Basilicata, la Regione Puglia il Ministero dei Lavori Pubblici viene sottoscritto l’accordo sul governo delle risorse idriche, la Regione Basilicata non ha nessun potere (neanche di natura “concorrente”) sulla materia energetica, ma solo una legge che disciplina la procedura di valutazione di impatto ambientale in ambito regionale, una delle prime approvate da una Regione italiana, dopo il Trentino. Ed in effetti da più parti si prova superare (o ad ignorare) la Regione. Le compagnie petrolifere ad esempio cercano di rapportarsi direttamente ai Comuni. Ma la capacità negoziale della Regione insieme ai buoni rapporti con il governo e con il ministero dell’Industria dell’epoca, Pierluigi Bersani, determinano una sintesi positiva: non ci sono leggi che lo prescrivono, ma la Basilicata impone che le attività petrolifere (che, anche volendo, non si possono impedire perché il sottosuolo è di proprietà dello Stato) dovranno avvenire entro certi limiti ed in un contesto di sostenibilità ambientale, mentre lo Stato e le compagnie dovranno investire per le infrastrutture, il completamento della metanizzazione e lo sviluppo. Come pure, in materia di risorse idriche, in attuazione dei più recenti principi comunitari si stabilisce che la Puglia, al pari della Basilicata, contribuirà alle spese per il mantenimento dei bacini idrografici.
Lo stato di attuazione dei piani, dei programmi e delle iniziative nati a seguito di quegli accordi è oggetto delle valutazioni politiche che ancora oggi generano, in quest’Aula come altrove, appassionate discussioni. Ma al di là degli esiti di queste iniziative è bene non dimenticare ciò che questa Regione ha saputo fare, appunto, prima del 2001, prima che la riforma del Titolo V le attribuisse più poteri.
Oggi sappiamo, però, che dobbiamo aggiungere qualcosa in più: dentro la crisi a noi si chiede uno sforzo in più per accorciare le distanze con i cittadini, trasformando anche una sana autocritica in risposte sui costi, sulla trasparenza e sulla funzionalità delle istituzioni che rappresentiamo. Siamo sulla strada giusta, avviata già dalla scorsa legislatura. Dobbiamo proseguire con serenità senza cedere all’idea che c’è una democrazia senza costi, quella che porta a rappresentare per censo una comunità, ma allo stesso tempo rigorosi con noi stessi per evitare di far apparire la nostra difesa della regioni come una difesa arrogante e pretestuosa della “casta” a tutela della proprie poltrone, ma senza dimenticare che la nostra presenza qui è espressione di migliaia di cittadini che hanno espresso una preferenza, hanno scritto su una scheda elettorale un cognome.
Questa occasione mi torna utile per ricordare che i consiglieri assegnati a questa Regione sono 20 e non più 30 (io avrei preferito che rimanessero 30 a parità di costi, in modo da non limitare ulteriormente la rappresentanza), la Giunta è composta da 4 e non più da 6 assessori, la Commissioni sono 4 e non più 5, con i rispettivi uffici di presidenza composti da 3 e non da 5 persone, da questa legislatura sono stati aboliti vitalizi e indennità di fine mandato, con le norme nazionali sulla riduzione delle indennità, recepite anche in Basilicata con le leggi regionali approvate a dicembre del 2012, a cui si aggiungono le misure che sono all’ordine del giorno della seduta di oggi per la destinazione di parte delle somme per i rimborsi spese ai contratti dei collaboratori, si è determinato un deciso contenimento dei costi di questa istituzione. Aggiungo, che nella Conferenza delle Assemblee legislative, e nelle stesse proposte del governo nazionale, ci sono altre due proposte, che condivido e riguardano il divieto di cumulo dei vitalizi e la sostituzione dei contributi ai gruppi con servizi reali. A queste misure si aggiungono gli sforzi per migliorare la funzionalità del sistema regione, a partire dalla trasparenza di ogni procedura. Qualche giorno fa abbiamo pubblicato sul sito internet del Consiglio regionale tutta la documentazione trasmessa dalla Giunta ed attualmente all’attenzione delle Commissioni per la manovra finanziaria 2014. Un gesto semplice, sul quale ho raccolto commenti positivi da parte di cittadini che ci chiedono, tra l’altro, di poter seguire ogni fase della nostra attività. E quando parliamo di opendata, un obiettivo da perseguire, non stiamo parlando solo di comunicazione ma di un modo di pensare, di governare e di fare le cose bene. Una Regione, al pari di ogni altro ente pubblico, è utile se risponde in tempi certi e con procedure chiare a un cittadino o a un’impresa. E questa sfida di riorganizzazione e di innovazione riguarda anche il sindacato, con la consapevolezza che, mentre da anni sono ferme le retribuzioni del pubblico impiego, dall’altra alcuni istituti, lentezze e non scelte hanno ingessato la possibilità di premiare produttività, merito ed esperienza. E c’è poi il tema della qualità e dell’aggiornamento della legislazione, per evitare ad esempio che alla domanda di diritto allo studio che proviene da giovani nati negli anni ’90 l’istituzione risponda con una legge del 1979, approvata in un contesto molto diverso da quello attuale.
Dobbiamo affrontare senza preconcetti questa fase di riforme e annunciati stravolgimenti, a cominciare dall’attuazione del disegno di legge Del Rio, attualmente in fase di approvazione alla Camera dei deputati. Alcuni di noi hanno sollevato dubbi e fatto domande che sono rimaste senza risposta su limiti ed errori concettuali di quella legge. Sono i dubbi e le domande che mi portano a sollevare un grande interrogativo sui processi di cambiamento: è possibile che alla complessità dei problemi si oppongano risposte semplici? Certo di fronte alla complessità non bisogna arrendersi sapendo che per cambiare c’è bisogno di visioni, obbiettivi e fatica democratica. Certo alla fine è giusto decidere. Ma guai a pensare che la riforma è la riduzione di un numero e o l’avvio di un iter legislativo. La riforma è un cambiamento reale che si misura nell’esito di ciò che ci si propone di fare. Peraltro nulla è mai definitivo.
Per questo nel dibattito aperto nel nostro Paese, come in quello che nella nostra regione si fa avanti a partire dalla ridefinizione dello Statuto, eviterei di perderci in un vecchia e stantia dialettica tra centralismi impotenti e localismi insensati, semplificazioni amministrative e concentrazioni di potere che alla fine rafforzano feudalizzazioni e non partecipazione diffusa e responsabile, che è il lievito indispensabile per cambiare davvero. La vecchia geografia amministrativa ha fallito. Ha fallito prima il centralismo, poi il regionalismo sbilenco, infine la retorica assurda del federalismo, che il Sud ha subito da un Nord che aveva tutto da guadagnare (e infatti ha guadagnato, spostando di nuovo a suo beneficio quote significative di spesa pubblica ordinaria). Oggi la riforma delle autonomie ci offre la possibilità di estendere la logica interistituzionale di cui parlavo anche sul piano infraregionale. La parola chiave, per usare un’espressione di moda, è multilevel governance, ovvero non più federalismo leonino del Nord contro il Sud ma sintesi efficace di azioni tra diversi livelli di governo, con le Regioni a fare da area di decentramento ottimale e le nuove autonomie che nasceranno a rinforzare la propria capacità di attuazione e servizio sfruttando le logiche di integrazione. Un nuovo ruolo anche per le Regioni che richiede, però, che esse abbiano per i rispettivi nuovi ambiti intercomunali un disegno, una strategia, che condividano e che non può fermarsi agli incerti confini del passato. Anche chiedendo allo Stato di fare la sua parte, in termini di supporto, trasferimento di conoscenze e modelli, di operatività.
E’ una partita tutta da giocare, che ci costringe ad alzare lo sguardo e a rilanciare fortemente il nostro ruolo, il ruolo di questa istituzione regionale, in una logica di cooperazione. Una partita che possiamo giocare avendo come guida l’interesse dei nostri cittadini, i doveri di servizio e di costruzione di un senso politico per le comunità. La sintesi possibile è nella definizione di standard sostenibili per le famiglie e le imprese del Mezzogiorno e della Basilicata, alle quali va offerta l’opportunità di un pacchetto di riforme che diminuiscano i costi e i tempi della burocrazia, migliorando invece la semplificazione delle procedure. E soprattutto innalzando la qualità dei servizi nei settori fondamentali e rispetto ai bisogni fondamentali degli attori sociali.
In conclusione, credo che la nostra riflessione debba partire da alcuni punti fermi:
• le Regioni non possono essere trasformate in enti di gestione amministrativa, devono mantenere un ruolo legislativo, di programmazione e di tutela del territorio, e quindi di iniziativa concorrente con lo Stato, almeno in materie fondamentali quali ambiente, urbanistica ed uso del suolo;
• più che rivedere i confini amministrativi delle Regioni (il che non comporterebbe un gran risparmio e ci impegnerebbe in defaticanti, lunghe e forse inutili discussioni), occorre che questi enti assumano scelte condivise in uno spazio di programmazione più ampio, per esempio pianificando l’uso dei fondi comunitari per la realizzazione di pochi grandi obiettivi infrastrutturali; per fare questo occorre attribuire rilevanza di legge ad un Gruppo europeo di cooperazione territoriale del Sud, stabilendo allo stesso tempo che la sessione comunitaria divenga momento unificante della programmazione unitaria dei Consigli regionali;
• in un contesto come quello lucano, con pochi abitanti che vivono in un territorio esteso, aspro e difficile, la Regione è un irrinunciabile spazio democratico, innanzitutto a tutela dei territori interni e dei piccoli Comuni, che rappresentano un presidio essenziale per il territorio e che altrimenti rischiano di essere emarginati; la Regione è anche l’elemento della perequazione, di una programmazione temperata del territorio, della difesa e della valorizzazione di storia e tradizioni che possono essere modello di sostenibilità;
• il Senato delle Autonomie deve essere il luogo in cui le istanze dei territori vengono rappresentate e ricomposte in una sintesi unitaria in un organo di rango costituzionale, che serva anche a dirimere i conflitti, oltre che a promuovere la leale collaborazione fra le Regioni e lo Stato;
• il percorso per la definizione del nuovo Statuto della Basilicata deve andare avanti in maniera decisa e spedita, declinando in maniera compiuta anche i principi di cooperazione con le altre Regioni dell’ipotizzato Gruppo europeo di cooperazione territoriale del Sud.
Oltre a questi spunti di riflessione, che spero possano risultare utili per il dibattito, i consiglieri dispongono di un’ampia documentazione, prodotta dalla Conferenza delle Regioni e dalla Conferenza delle Assemblee legislative regionali. Ringrazio i consiglieri che aderendo alla mia richiesta mi hanno fatto pervenire contributi e riflessioni. Ritengo positivo il fatto che i presidenti Errani e Brega, abbiano trovato un intesa per rappresentare nel confronto con il governo un punto di vista il più possibile unitario, che rappresenti in maniera compiuta le esigenze dei governi regionali e quelle delle assemblee legislative, tese a rappresentare i territori. Credo però che l’ambiente debba essere fra le materie concorrenti. Sono certo che la discussione ci metterà nelle condizioni di conferire un ampio mandato al presidente della Regione Marcello Pittella, che concluderà questo dibattito e rappresenterà le ragioni della Basilicata nel confronto nazionale.