Vincenzo Maida (Centro Studi Jonico Drus): “Gli orrori nella storia dell’uomo stanno da tutte le parti”. Di seguito la nota integrale.
Non se n’è parlato abbastanza ma i primi veri e propri lager furono piemontesi. Uno dei più giovani, finito nella calce viva, era di Montalbano Jonico.
Da ormai quasi un secolo una certa pubblicistica ha imposto la tesi che gli “orrori”, veri o presunti, nella storia dell’umanità sono attribuibili ad una sola parte.
È sufficiente approfondire un poco o osservare con occhi disincantati la realtà odierna per verificare che essi sono, purtroppo, patrimonio dell’umanità.
Chi ha visto le immagini dei bambini feriti o mutilati, strasferiti da Gaza all’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, non può non aver provato un moto di sdegno e di compassione, né di piu’ e né di meno di quello provato di fronte alle immagini dei bambini istraeliani il 7 ottobre del 2023.
E quanti sanno, ad esempio, che il primo lager fu quello dei sabaudi a Fenestrelle, sopra Torino, in alta montagna? Lì trovarono la morte migliaia di giovani che si erano rifiutati di dismettere la divisa dell’esercito borbonico, per indossare quella sabauda.
Tra essi uno dei più giovani, appena ventenne, si chiamava Antonio Maria Mosetti.
Era nato a Montalbano Jonico il 19 novembre del 1843 e morì a Fenestrelle il 5 luglio del 1864.
Non aveva ancora compiuto 21 anni ed era stato lì deportato per essersi rifiutato di tradire il giuramento fatto al Re delle Due Sicilie Francesco II (Re Franceschiello) e di passare armi e bagagli con l’esercito piemontese. A Matera è stato inaugurato alla presenza delle massime autorità locali e provinciali nella villa comunale, un busto in bronzo dedicato a Giambattista Pentasuglia, l’unico lucano ad aver preso parte alla spedizione dei mille. Nessuno ha sentito la necessità di ricordare quei giovani che dall’altra parte della barricata attestarono con la vita la fedeltà a quella che era allora la loro patria. Tra i primi nomi emersi dai documenti della fortezza di Fenestrelle c’è stato anche quello di un altro lucano: Giuseppe Masareca di 22 anni. Saremo una nazione unita e civile solo quando riusciremo ad essere inclusivi delle memorie diverse e riconosceremo dignità alle storie avverse.
La fortezza nella quale Antonio Mosetti esalò l’ultimo respiro era posta a duemila metri d’altezza, sulle montagne piemontesi. Gli internati furono circa ventimila. Erano militari borbonici che non volevano ultimare il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo, tutti quelli che avevano apertamente dichiarato la loro fedeltà a Francesco II e quelli che avevano giurato resistenza ai piemontesi. Il più anziano tra essi non aveva che 32 anni. La naturale asperità dei luoghi ed il clima freddo rendevano quel posto un vero e proprio campo di concentramento disumano. Il 22 agosto del 1861 i detenuti tentarono una rivolta, ottenendo solo l’inasprimento della pena ed i più furono costretti ad una palla al piede di circa 16 chili, a ceppi e catene. Erano senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Vennero smontati gli infissi per farvi entrare aria e rieducare con il freddo i segregati. Denutriti e con dei cenci come abbigliamento, di giorno si trascinavano nei punti più assolati per catturare qualche timido raggio di sole e riscaldarsi. E’ facile immaginare che nella loro mente, in quei momenti prendeva corpo la voglia e la nostalgia del tepore degli assolati meriggi mediterranei. La liberazione dalla sofferenza avveniva solo con la morte ed i corpi venivano disciolti nella calce viva in una immensa vasca scavata nel retro della chiesa, all’ingresso della fortezza.
“Questi soldati – ha scritto Maurizio Di Giovine – finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Erano poco più che ragazzi: il più giovane aveva 20 anni, il più vecchio 32. Se non fossero stati relegati a Fenestrelle, probabilmente sarebbero divenuti “briganti”, e forse anche per questo motivo, furono relegati nella fortezza del liberale Piemonte, dove entrando su un muro è ancora visibile l’iscrizione “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”. Motto antesignano del più celebre e sinistro slogan che si poteva leggere nei lager nazisti : Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi). Non deve destare meraviglia l’abbinamento, perché la guerra del Risorgimento, come ha giustamente osservato Ulderico Nisticò, fu una guerra ideologica. E la guerra ideologica non può che concludersi con lo sterminio del nemico. Abbiamo rintracciato l’atto di nascita di Antonio Mosetti e la registrazione del suo battesimo. La madre aveva appena vent’anni quando lo diede alla luce, il padre ventisette. Erano ancora giovani quando non ebbero più notizie del loro figlio e con ogni probabilità non vennero a conoscenza dell’orrenda fine che era stata a lui riservata dai liberatori piemontesi. Dopo un’immane sofferenza, a Fenestrelle non si riusciva a sopravvivere più di tre mesi, era morto senza una tomba, sciolto non in un forno crematorio, ma nella calce viva.
La storia, è noto, la scrivono i vincitori, ma non avremmo l’obbligo della memoria e del ricordo anche per i vinti che fanno parte del nostro passato, a volte di quello più glorioso? Il mediterraneo oggi come ieri fa gola ad alcune nazioni europee, Inghilterra e Francia in primo luogo, ed il Regno delle Sicilie con la sua potentissima flotta, seconda solo a quella inglese, era un ostacolo oggettivo alle loro mire mercantili e coloniali.