Il 18 ottobre 2022 è una data importante per Vito Salluce. Il cittadino montese, Cavaliere della Repubblica, già presidente provinciale e della sezione di Mpntescaglioso dell’Associazione Nazionale combattenti e reduci di guerra, compie nella giornata odierna 100 anni.
Il neo centenario è stato festeggiato nella suggestiva Abbazia di San Michele Arcangelo di Montescaglioso, circondato dall’affetto di parenti, amici, concittadini ed autorità civili e militari.
Il Sindaco Zito a nome dell’Amministrazione Comunale di Matera ha consegnato al neo centenario una targa ricordo anche per sottolineare il suo impegno come ex partigiano e presidente della locale sezione della Associazione Nazionale dei Combattenti e Reduci di Guerra.
La cerimonia ha regalato momenti emozionanti al festeggiato e a tutti i presenti grazie alla partecipazione della fanfara dei bersaglieri, una piacevole sorpresa a cui hanno pensato i suoi nipoti. I bersaglieri hanno accompagnato la cerimonia con inni e canzoni del glorioso corpo.
La famiglia di Vito Salluce ha ringraziato tutti coloro che hanno inviato affettuosi messaggi di auguri e soprattutto quanti hanno partecipato alla festa per i 100 anni: con la loro presenza hanno reso gioioso e indimenticabile il giorno in cui Vito Salluce ha compiuto 100 anni.
Michele Capolupo
Vito Salluce racconta la storia della sua vita nell’intervista rilasciata a Giuseppe Lomonaco. Di seguito i particolari sulla vita di Vito Salluce.
Vito Salluce ha combattuto la seconda guerra mondiale e fu soprannominato dai suoi amici presenti sul fronte di guerra “Barbarossa” anche se lui non accettava questo nomignolo. I suoi amici rispondevano: “Ma com’è che non lo vuoi? È un nome buono. Barbarossa era un grande guerriero”.
Vito Salluce dichiara: “Sono nato il 18 ottobre 1922. Mio padre era contadino, mamma era casalinga. Eravamo sette figli. Io sono il primo dei tre maschi. A casa si viveva in pace, con educazione, rispettosi. Noi figli eravamo rispettosi dei genitori. Abitavamo in via Eraclea, ma sono nato a “Torre Vetere”. A scuola ci sono andato fino alla 3^ elementare. C’era da aiutare i miei genitori nei lavori della campagna. La 5^ classe l’ho fatta con la scuola serale.
In campagna con i miei genitori ci sono stato fino ai miei quattordici anni quando ho deciso che in campagna non ci sarei più andato. Ho iniziato a lavorare dai muratori. Mi trovavo bene. Quelli più grandi dicevano che il mio fisico non era adatto ai lavori della campagna. Avevano ragione. Era accaduto che un giorno d’estate mentre raccoglievamo le gregne è scoppiato un forte temporale. Ero a una certa distanza dai miei genitori, mi sono riparato rannicchiandomi vicino a una bica di covoni. Alla fine del temporale ho raggiunto i miei genitori, che si erano riparati in una casupola, e gli ho detto che me ne tornavo a Monte perché in campagna non ci volevo più stare. Mio padre preoccupato disse: “Ma dove vai? Non vedi che il tempo minaccia. Statti con noi”. Mi avviai dalla contrada “San Vito”. Sono arrivato a casa dopo tre o quattro ore. In quelle ore per la strada non passava nessuno, neanche un carretto.
Con i muratori ho lavorato quasi fino alla partenza per il servizio militare. In quel periodo, da ragazzo, di sera dopo una giornata di lavoro uscivo con i miei amici. All’ora tarda ci divertivamo andando a svuotare i recipienti dell’acqua sporca e quelli colmi di escrementi in attesa di essere svuotati la mattina nella botte del pubblico servizio. Per un breve periodo lavorai alle dipendenze del Municipio come muratore giardiniere. Erano gli anni in cui partecipavo alle istruzioni premilitari. Per il servizio militare sono partito in piena guerra nel 1941 o 1942. Mi hanno hanno destinato al 71° Fanteria motorizzata, a Trento. Eravamo mobilitati. Da Trento ho spedito a casa gli abiti civili. Quelli di casa non sapevano dove mi trovavo dal momento che il mio recapito era: Posta Militare n. 94. A Trento eravamo già in zona di guerra.
A Trento con me stava Franceschino Bubbico che aveva il grado di sergente ed era in fureria. C’era pure Leonardo Mianulli che aveva il grado di caporalmaggiore. Da Trento sono stato trasferito a Genova.
C’erano le sanzioni, i cittadini prendevano il pane con la tessera. C’era molta gente che soffriva la fame, soprattutto i bambini. Le mamme si soffermavano nei paraggi delle caserme dei militari con la speranza di recuperare un pezzo di pane per i figli. Da Genova sono stato trasferito a Roma per poi raggiungere Albano Laziale, vicino a Castelgandolfo del Vaticano. Gli americani sarebbero sbarcati a Anzio, a Nettuno. Io non sono partito perché ero geniere della salmeria, conducente dei muli.
Durante la mia permanenza ad Albano Laziale c’è stato l’Armistizio che ci ha fatto diventare amici dei nostri nemici americani e nemici dei nostri amici tedeschi. I tedeschi ci hanno sopraffatto e ci hanno fatto prigionieri. Io mi sono salvato perché nelle stalle dei muli dov’ero sono arrivati i contadini a dirci di metterci in salvo ché stavano arrivando i tedeschi che già avevano fatto prigionieri intere compagnie dell’esercito italiano. A quel punto ho aperto la scuderia e ho detto: “Prendete tutto quello che volete”.
Ho trovato rifugio presso una famiglia di Albano Laziale. Un giorno mentre ero sulla strada in abiti civili vidi due miei amici in abiti militari. Li ho avvertiti del pericolo di finire prigionieri e deportati in Germania consigliandoli di cambiarsi gli abiti quanto prima. Trovarono ospitalità presso famiglie di contadini dove oltre a mangiare lavoravano in campagna. Questa situazione si è creata dopo l’8 settembre 1943.
Io ero ospite di una famiglia la cui signora si chiamava De Gasperi Amelia. Questa famiglia gestiva un piccolo negozio dove si vendevano pure le sigarette. Quando venivano i tedeschi a fornirsi di sigarette non firmavano come tutti gli altri, non avevano la tessera. Bisognava dare le sigarette e basta. Una sera nella casa della signora, al piano sopra il negozio, c’era una riunione dei vicini per decidere sul da farsi. A un certo punto sono arrivati i tedeschi. Gli uomini della riunione si sono nascosti dietro i mobili, sotto il letto per non farsi prendere. Uno dei tedeschi ha guardato la signora e ha detto: “Che bella signora!” Io ero lì. Mi è venuta l’idea di sferrargli un colpo come si deve. Ma quello, indicandomi con la mano, alla signora ha chiesto chi fossi io. Amelia ha detto che ero uno dei suoi figli. Mi hanno lasciato stare. Hanno detto che cercavano le donne per portarsele al fronte, a Nettuno. Io mi sono prestato ad accompagnarli. Li ho portati alla caserma dei carabinieri ai quali ho detto: “Vedete cosa vogliono questi tedeschi.” Dopo di che sono rientrato nella casa che mi ospitava. Non so cosa abbiano fatto i carabinieri per i tedeschi. Probabilmente niente. Dopo un po’ di giorni, con alcuni altri fuggiaschi, ho tentato di passare il fronte di guerra per rientrare a Monte.
Il tentativo non riuscì. Era passato del tempo quando da Roma sono partito per l’Alta Italia dove sono andato a finire nel 7° Reggimento Bersaglieri, dalle parti di Udine. Inquadrato in questo reggimento sono arrivato nei pressi di Gorizia, ai confini con la Jugoslavia.
Il nostro Comando era in collegamento con i partigiani di Tito. Una notte ci siamo spostati dalla pianura verso le montagne raggiungendo i partigiani titini. Ci siamo aggregati a loro e ognuno di noi ha assunto un nome di battaglia. Non ero più Salluce Vito. Mi hanno affibbiato il nome di Barbarossa. Non mi piaceva. Il comandante insisteva: “Ma com’è che non lo vuoi? È un nome buono. Barbarossa era un grande guerriero, un uomo di coraggio.” Ma io non ne volevo sapere di Barbarossa. Facevo parte della Squadra Volante. Dopo dei giorni mi hanno detto che dovevo per forza scegliere un nome.
Ho scelto il nome di un mio amico che stava nella pubblica sicurezza a Roma: Gigetto. Uno dei nostri comandanti si chiamava Vanni. Un altro comandante si chiamava Sasso. Al comandante ci si rivolgeva semplicemente dicendo: “Compagno comandante.” Abbiamo attraversato l’Isonzo. Siamo stati sulle montagne della Jugoslavia in combattimento contro i tedeschi e contro la repubblica di Salò. Nei primi tempi i partigiani di Tito ci chiamavano “partigiani fascisti”. Hanno cambiato atteggiamento quando le brigate Garibaldi intervennero per rompere l’accerchiamento nemico in cui s’erano cacciati alcuni loro reparti.
Su Trieste siamo arrivati di notte. Il Comando diede l’ordine di riposarci quella notte. Nessuno di noi è stato d’accordo a riposare. Abbiamo proseguito l’avanzata verso Trieste. Alle porte di Trieste siamo arrivati il 30 aprile. Siamo arrivati alle tre di notte. Quando alcuni hanno capito che eravamo i partigiani italiani immediatamente le porte delle case e i portoni dei palazzi si sono aperti. La gente ci abbracciava. Abbiamo liberata Trieste dai tedeschi. Quando ci hanno comunicato che i tedeschi si erano arresi, avevamo avuto venticinque morti. Poi sono arrivati i soldati neozelandesi. A Trieste gli armati di Tito sono stati per quaranta giorni. Ci chiedevamo su chi avrebbe comandato l’Italia, la democrazia, la dittatura… Dopo l’Aprile del 1945 a Trieste sono stato per tre o quattro mesi quando mi hanno congedato.
Sono rientrato a Monte con il treno da Trieste a Bari. A Monte era evidente la povertà. Mi hanno raccontato di quando arrivarono gli inglesi, i canadesi, gli americani. Alcuni montesi assalirono la casa del segretario del fascio don Franceschino Locantore. Buttarono tutta la roba giù. Dato che si viveva con la tessera per il razionamento di alcuni generi alimentari, nella casa del segretario trovarono sacchi di sale, sacchi di farina, tanta di quella roba… Quello da casa sua scappò dalla finestra. Si rifugiò nella casa di una vicina. Qualcuno l’aveva visto nascondersi. Fu scoperto e ucciso in questa casa in via Pitagora.
Al mio rientro dalla guerra a casa ho saputo che pure mio fratello Liborio, che era della classe 1925, era partito per la guerra. Era stato sul fronte a Nettuno. Quando è rientrato ho capito che aveva qualche problema. Usciva di casa per allontanarsi solo per poche decine di metri. Aveva come una fissazione. Dalla guerra rientrò invalido. Si dedicava alla cucina di casa, aiutava mamma nei lavori domestici.
Io ho ripreso a lavorare come dipendente comunale dal momento che quando fui arruolato per la guerra ero già dipendente municipale come muratore e come giardiniere. Da quel rientro, dopo le operazioni di guerra, non sono mai più uscito dall’Italia. Sono andato spesso a Roma per l’Associazione Combattenti e Reduci di cui sono presidente provinciale dal 2005.
Nel 1949 ci furono le occupazioni delle terre. Le nostre donne facevano bene ad andare ad occupare le terre perché non avevano come fare a sfamare la famiglia. A quelle occupazioni ho partecipato anch’io quando si andò tutti ai “Tre confini”, nella “Dogana”. A quelle occupazioni e manifestazioni io ho partecipato e le ho condiviso. Una quota di terreno di 80 are in contrada “Cantore” l’hanno data pure a me.
Ho smesso di essere dipendente comunale nel 1956 anno in cui nevicò abbondantemente. Tanta neve come non s’era mai vista. Andai a lavorare alla Provincia. Fu allora che comprai la Vespa per i miei spostamenti.
Quando mi sono sposato abitavo in fitto in una casa di piazza del Popolo. Ho tre figlie. Tutte e tre sposate. Ho cinque nipoti dei quali uno è dottore e lavora in ospedale.
Il 2 giugno del 2015 sono stato nominato Cavaliere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella. Sono sempre a disposizione di tutti in qualsiasi orario. Ogni anno provvedo a fare da me le corone per il monumento ai Caduti in occasione del 25 Aprile, del 4 Novembre e della Festa patronale. Per il resto sono contento della vita che faccio e della pensione che prendo”.