Secondo appuntamento a Matera con il ciclo di mostre nell’ambito di Coscienza dell’Uomo. Venerdì 5 luglio 2019 alle 18.30 presso lo Spazio Galleria Cine Sud in via Passarelli sarà inaugurata “I Believe”, la mostra realizzata con gli scatti di Matteo Fantolini, il compianto fotoreporter morto improvvisamente nella sua casa di Pinerolo. La mostra resterà aperta fino al 21 luglio nei seguenti orari: 9-12,30 e 16.30-19.30. Ingresso libero.
Non sarà presente per poter raccontare in prima persona alla stampa e al pubblico il suo lavoro, ma le immagini saranno sufficienti per comunicare la passione e il sentimento che Fantolini ha messo in un progetto originale, ambizioso, fuori dall’ordinario. E Coscienza dell’Uomo non poteva non dare spazio ad un’idea che, ancora una volta, punta il faro sull’uomo e ciò che lo circonda. Il tema religioso è tutt’altro che scontato. Da sempre oggetto di studio di filosofi, scienziati, letterati e storici, il rapporto Uomo-Dio non è il vero soggetto del racconto di Fantolini. È un pretesto, un punto di partenza per compiere una approfondita e struggente indagine sull’animo umano. Cosa è capace di fare l’uomo per ciò a cui tiene? Fin dove riesce a spingersi? Cosa può indurre qualcuno a infliggersi sofferenza, ad autoflagellarsi? La risposta è tanto semplice quanto scioccante: crede. E la fede, il credo, diventano più forti di qualsiasi sofferenza.
Malesia, India, Thailandia, Italia, i riti cambiano, le tradizioni anche, ma il pathos umano, il dolore e la passione accomunano tutti i fedeli del mondo, di qualsiasi colore, razza o religione. Un viaggio lungo 4 anni, per raccontare da dentro, dal mezzo della folla, ciò che accade nell’essere umano quando crede fortemente in qualcosa.
Coscienza dell’Uomo e tutti gli eventi in programma sono finanziati dalla Cine Sud di Catanzaro in collaborazione con Hasselblad, Canon, Nikon, Olympus, Panasonic, Sigma, Sony, Tokina-Howa, Toscana Foto Service che hanno reso possibile la realizzazione e la fruizione gratuita degli eventi.
Il progetto è a cura di Francesco Mazza, Maurizio Rebuzzini e Antonello Di Gennaro
Breve Bio
Matteo Fantolini
Nato a Livorno nel 1978, inizia la sua carriera di fotografo nei villaggi turistici in giro per il mondo, da animatore a responsabile del diving e poi la fotografia subacquea. Nel 2010 si diploma in fotografia presso lo IED Torino e inizia l’attività di fotografo di matrimoni e new born. La voglia di scoprire e raccontare il mondo non si placa, viaggia molto soprattutto alla ricerca dei riti religiosi dove la tradizione, l’esasperazione del credo e il sacrificio si fondono in una alchimia fatta di punizione/espiazione e sangue. Per quattro anni indaga, osserva e racconta. Malesia, India, Thailandia, Italia. Matteo lascia i suoi progetti fotografici incompiuti, il 16 dicembre del 2016 muore improvvisamente nella sua casa di Pinerolo.
Il Credo e il Sacrificio di Paolo Ranzani
Il sacrificio è sempre stato il simulacro delle religioni. Alla memoria viene imediatamente il gesto di Abramo che non ebbe esitazioni ad ubbidire alla richiesta di Dio, pronto a sacrificare il figlio Isacco si fermò solo per il volere divino. In varie parti del mondo fu usanza, e purtroppo lo è ancora, uccidere non solo animali, ma essere umani, bambini, donne vergini come dono sublime per guadagnarsi il ben voler degli Dei. Secondo la chiesa Cattolica, in ogni Eucarestia si rinnova il sacrificio di Cristo per il mondo e si riceve simbolicamente il suo corpo. C’è qualcosa di potente da affrontare, ci sono molti perché, ci sono domande alle quali solo la fede più intensa può rispondere, solo “il credo” più profondo ed esasperato può fornirci spegazioni.
Con questo lavoro fotografico Matteo Fantolini non cercava risposte e forse non si è mai davvero posto domande, lui era Ateo ma interessato alla ricerca di cosa volesse significare “accettare qualcosa per vero”. Credere e farlo al punto di offrire la propria sofferenza, il sangue e la carne, il dolore e il sudore. Quel che cercava era di soddisfare un gesto sublime. “Raccontare. Io sono qui e questo sta succedendo ora. Io così lo sento”.
Nessun giudizio, nessuno spettacolo. Lo sforzo è di osservare attraverso il suo sguardo e quello che ci lascia sono immagini potenti. Tracce di vita che fanno male, uomini e donne che si preparano al dolore perché il dolore è amore per quello in cui credono, perché la sofferenza eleva lo spirito.
Riquadri di strade polverose che il sangue trasforma in grumi, in sentieri ruvidi come catrame, occhi vacui, santoni imbellettati dai riti antichi e pelle nuda che si vanta di cicatrici. Sembra di sentirne il rumore, la vibrazione di mille voci che si allungano all’unisono. Muscoli martoriati e fisici spezzati. Formiche umane che rincorrono labirinti come cavie disperate ma consapevoli, loro lo sanno perché lo fanno. Loro ci credono.
Matteo fa una scelta. Decide che non è lì per documentare, per certificare un evento, quel che accade, per forza di cose, gli entra dentro e quando esce è qualcos’altro che prima non c’era. Perde il colore, la vivacità cromatica se la ruba il dramma e il dramma si scioglie nel bianco e nero che l’autore sente di concedere al raccontare. In fotografia “togliere” è come aggiungere, se lo sai fare bene. Spogli il superfluo per arrivare all’essenza.
A noi arriva l’essenza di ciò che Matteo ha visto e noi gli crediamo.
I Believe di Riccardo Bononi
Ho conosciuto Matteo nel 2014 durante un Workshop di Fotogiornalismo tenuto a Torino insieme all’amico Francesco Cito. Ricordo ancora le prime parole che ci siamo scambiati, un avvertimento prima di mostrarci i suoi scatti: “attenti, le immagini sono piuttosto forti!”. Sul momento, pensando alla natura professionale dei due interlocutori (uno, Francesco Cito, tra i più importanti fotografi di guerra del nostro secolo; l’altro, il sottoscritto, che ha dedicato la carriera allo studio della morte e della malattia), ho pensato ad un’esagerazione. Eppure il lavoro di Matteo è sempre sembrato “troppo esplicito” per un pubblico generico. Nelle foto di Matteo non ci sono morti né guerre, non ci sono violazioni di diritti umani o condizioni di violenza o povertà estreme, nessuno dei temi caldi ormai sdoganati dal fotogiornalismo moderno. Nel lavoro di Matteo ci sono il sangue e la carne, ma manca completamente ogni forma di violenza. Paradossalmente, a penalizzarne la visibilità, è stata proprio la sua innocenza, l’assenza di una ragione sufficiente per sfidare il tabù del dolore: in un mondo come quello del giornalismo contemporaneo, dove i limiti dell’etica sono elastici e permeabili quanto l’andamento del mercato editoriale, il sangue può essere concepito solo come manifestazione di un torto o un’ingiustizia sociale, come un male necessario, una prova da presentare al tribunale dell’opinione pubblica per influenzarlo.
Susan Sontag, nel suo saggio “Davanti al dolore degli altri”, riflette sulla reazione dell’uomo davanti alle immagini che rappresentano la sofferenza altrui. Dalla tragedia greca, passando per la pittura, le immagini hanno rappresentato un veicolo privilegiato non solo per raccontare il dolore, o per descriverlo, ma per evocarlo, per risuonare nel corpo dell’osservatore come un’eco straziante. La Sontag, contro ogni facile moralismo, ritiene lo sguardo sulla sofferenza altrui non solo accettabile, ma necessario: “Disegnare un inferno non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell’inferno, come moderare le fiamme. E tuttavia, sembra di per sé utile ampliare le nostre conoscenze e prendere atto di quanta sofferenza causata dalla malvagità umana esiste nel mondo che condividiamo con gli altri”. Nonostante la profondità della riflessione, si resta sempre legati alla convinzione che il sangue e il dolore, essendo dei radicati taboo dell’Occidente, debbano essere sempre causati da un’ingiusta malvagità dell’essere umano, e possano essere mostrati solo sotto forma di denuncia socialmente utile.
Le immagini di Matteo sfuggono a questa riflessione: il sangue e il dolore sono in questo caso autoinflitti come forma rituale di purificazione, i ruoli di vittime e carnefici, coincidendo, sfumano completamente. E’ facile (e giusto, secondo la Sontag) provare disgusto e orrore davanti al dolore degli altri, quando è subito dalle vittime come una forma di violenza. A sconvolgere del lavoro di Matteo è esattamente questo: ad essere considerata oscena e a shockare lo sguardo non è una qualche forma di ingiustizia, ma è la professione di fede di qualcuno. “Davanti al dolore degli altri”, nel caso del lavoro di Matteo, coincide con “Davanti alla fede degli altri”.
Ora che Matteo non c’è più, le sue immagini ci parlano ancora con forza e, in barba alla morte, il dialogo che ha iniziato con noi – il suo pubblico – è ben lontano dall’esaurirsi. Gli scatti che Matteo ci ha lasciato non sono solo la prova visuale di un determinato rituale, collocato nello spazio e nel tempo, ma sono le basi di un discorso che il fotografo continua ad intessere con il proprio pubblico. Proprio questo è il grande potere della sua fotografia: costringerci a confrontarci con la diversità, senza limiti geografici o cronologici, a riflettere sulla fede nelle sue manifestazioni meno conosciute e più estreme. Matteo ci costringe a guardare il sangue, la carne straziata, e a chiederci con lui: “perché farsi una cosa del genere”. La risposta siamo costretti a ricercarla tra le nostre stesse esperienze e, avviando un esame di coscienza, chiederci cosa saremmo disposti a fare noi quando crediamo fermamente in qualcosa, quando riponiamo la fede nelle nostre più intime passioni o convinzioni. L’immaginario collettivo ha spesso ridotto le dinamiche religiose a una polarità rigida, da un lato le radicalizzazioni estremiste, dall’altro le fedi “deboli” delle religioni secolarizzate occidentali: immagine dopo immagine, Matteo ci racconta una storia diversa, fatta di credenze e tradizioni, vissute in modo intimo e personale dai devoti, in controtendenza rispetto alla norma degli stessi Paesi che le ospitano.
Ogni scatto ci mostra una visione della fede che non può certo essere definita di convenienza: la via della fede non ha come fine ultimo la liberazione dalla sofferenza, ma la sua accettazione. Il dolore va controllato e incanalato, è una risorsa da sfruttare, non qualcosa da evitare ad ogni costo.
Quello che le immagini finiscono sempre per tradire è il punto di vista del fotografo. Parlando con Matteo, diventava ancora più chiara la stima e l’intima comprensione che provava per ognuno dei soggetti ritratti, non importa in quale parte di mondo vivessero: la fatica, le insoddisfazioni e le critiche negative sono solo una parte del processo di crescita, sempre fedeli alle proprie passioni e ai propri sogni. Matteo si è guadagnato pienamente il diritto di parlarci del dolore perché, come lui stesso credeva, era un flagellante tra i flagellanti, impegnato in un percorso di sofferenza e fatica personale da cui, ne era certo, sarebbe arrivata la più grande delle soddisfazioni: la comprensione. Come molti fotografi della sua generazione, aveva capito che vivere delle proprie passioni era una strada in salita, faticosa, fatta di difficoltà, spese impreviste, straordinari, lunghi periodi lontano da casa e dai propri affetti. E senza nessuna garanzia di successo a sostenerci. Cosa ha spinto quindi un ragazzo talentuoso come Matteo a sfidare tante difficoltà? Proprio come nel caso dei flagellanti, è stata la fede: decisa e incrollabile, nelle proprie passioni e abilità.
Il lavoro che Matteo ci ha lasciato va inteso quindi come un percorso di ricerca personale basato sul confronto con le culture Altre, i cui destinatari ultimi siamo proprio noi. Il suo modo di lavorare sul campo, energico e appassionato, le lunghe interazioni e la profonda stima verso i suoi soggetti, sono state ricambiate dall’accoglienza accordatagli, riservata non ad un semplice professionista, ma ad un amico.
Le foto che vediamo raccontano la storia di una lunga intesa, il dialogo tra due forme di fede distanti, ma non incompatibili: da un lato i “battienti” con il proprio carico di dolore, dall’altro il fotografo sotto il sole cocente a condividerne la fatica, il sudore, e certamente la sofferenza. Cosa spinge qualcuno all’autoflagellazione, all’imposizione del dolore e della mortificazione della carne? Quali entrate o vantaggi immediati ne ricaverà? La risposta, ci ricorda Matteo, è la Fede: “I believe”.