Mercoledì 28 giugno 2023 alle ore 17,30 nell’ex Conservatorio di Santa Croce ad Altamura è in programma l’inaugurazione della mostra personale dell’artista pugliese Claudio Vino dal titolo “Il mio fisolofo è in campagna”. La mostra è stata organizzata dal comitato per le celebrazioni dei 50 anni dalla morte del meridionalista ed ex sindaco di Altamura, Tommaso Fiore e curata da Michele Saponaro. La mostra resterà aperta fino al 18 luglio 2023.
Di seguito il testo critico di Daniele Maria Pegorari
Il formale scenico di Claudio Vino
Mezzo secolo ci separa dalla morte di Tommaso Fiore (4 giugno 1973), ma – per una di quelle casualità che rendono inopinatamente simbolica la cronologia che segna le nostre vite – mezzo secolo è anche l’arco di tempo lungo il quale si snoda la ricerca artistica di Claudio Vino, nato a Bari il 9 luglio 1953 ed esordiente proprio all’inizio degli anni Settanta con le sue prime mostre collettive. Sempre in quel torno di anni moriva anche Pier Paolo Pasolini (2 novembre 1975) che diventerà negli anni un potente rovello ermeneutico per il poliedrico artista barese, al punto da sollecitare una pluridecennale ricerca figurativa, volta a scavare tanto nella corporeità del poeta e cineasta bolognese quanto nei temi della sua scrittura, da cui trarre metafore, metonimie e sineddochi, proprio come farebbe uno scrittore. L’arte di Vino, infatti, è per larga parte fondata su una retorica di tipo linguistico, per così dire, ma transcodificata secondo le tecniche delle arti pittoriche e plastiche, quelle secolarmente consolidate dalla tradizione, sviluppate però alla luce delle più recenti potenzialità proprie delle applicazioni digitali. Non saprei dire se questo artista pensi originariamente da scrittore o da pittore, ma certamente nel suo approccio ai temi della contemporaneità un posto primario tocca alla sua biblioteca ideale, frequentata con la competenza di un letterato professionale.
Da essa Vino attinge scoperte, anticipazioni e profezie sul presente, ma anche storie minime e generali che hanno solcato, baciato, ferito, accarezzato, incistato, abbracciato, corrugato le vite individuali e collettive per secoli; ed è a questo punto della sua riflessione che la sua ‘scrittura’ diviene una forma postmodernista di ‘pittografia’, sia nel senso della presenza immediatamente referenziale dell’oggetto raffigurato, sia nel senso inconsueto di una contaminazione fra pittura e fotografia. Ma, si badi, anche quella accennata referenzialità della figura, non scade mai nel didascalismo o nel verismo mimetico; è intorno alla riconoscibilità del ‘pittogramma’ che scatta il dispositivo metaforico o metonimico, per il quale l’oggetto – dipinto come se fosse stato ‘trascritto’ da una fonte precedente, da un archetipo, come farebbe un amanuense – sta a significare se stesso, ma anche e soprattutto altro, sbalzando il pubblico (che ‘legge’ le forme e i colori della ‘pagina’ pittorica o scultorea di Vino) verso associazioni, relazioni e suggestioni inattese.
Per questo per la poetica dell’artista barese parlerei di ‘formale segnico’, cioè di una creazione che non concede nulla all’astrazione, al gesto performativo, alla concettualizzazione e nemmeno alla poesia visiva (dominanti nel terzo Novecento postbellico), poiché innanzitutto essa mette al centro la figura, restituita con un realismo che per Vino è il segno di un rispetto sacro per la verità tanto dei corpi quanto degli oggetti d’affezione (quelli che Remo Bodei invita a chiamare ‘cose’ e non ‘oggetti’, termine questo che attiene alla loro neutra matrice industriale). Perciò, con l’andare degli anni, l’artista si è affidato alla manipolazione delle fonti fotografiche, con un’intenzione che è parallela a quella di certo documentarismo cinematografico, che parte dallo scavo di immagini d’archivio, per poi lavorare di montaggio, manipolazione, restauro, tradimento, ecc. Ed è a questo stadio che si colloca il secondo aspetto dell’arte di Vino, la ricodificazione della forma come ‘segno’: la figura (umana, oggettuale, paesaggistica, architettonica) non si esaurisce nella sua esattezza fotografica o mimetica, che in linguistica corrisponderebbe al valore lessematico di una parola, ma viene trattata come un semema, una unità di significato disponibile sia alle traslazioni allegoriche sia a creare enunciati complessi con le altre figure-sememi del quadro o dell’installazione. È con questa disposizione d’animo che il riguardante deve fermarsi davanti ai suoi quadri, percorrendo le sale delle sue esposizioni o sfogliando le pagine di questo catalogo.
Il titolo di questa mostra, ideata e realizzata nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della morte di Tommaso Fiore, l’ultimo grande socialista utopista del Novecento, è esso stesso un esempio del colto citazionismo di Vino, giacché è tolto dalla prima di quelle Lettere pugliesi che Fiore scrisse come reportage a puntate per «la Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti (e poi per «Conscientia» di Giuseppe Gangale, quando la prima rivista fu soppressa per ordine di Mussolini), fra gennaio 1925 e agosto 1926, e che molto più tardi, nel 1951, fu raccolto in volume, col celebre titolo Un popolo di formiche. Ma per Vino quello pugliese è piuttosto “Un popolo di giganti”, titolo che egli dà alla prima sezione della mostra, dedicata propriamente a Fiore e al suo lungo itinerario politico e letterario. I giganti sono i lavoratori delle Murge, del Tavoliere e del Subappennino, i marinai dell’Adriatico e dello Jonio e, più tardi, i metal-mezzadri di Taranto, come genialmente li definì con efficace neologismo Walter Tobagi nel 1971.
Ma gigante ora ci appara soprattutto Tommaso Fiore, ritratto da Vino nelle sue ‘pagine visuali’ a costruire sintassi con la bandiera sabauda e la divisa di fanteria che lo portò alla disfatta di Caporetto; con la Cattedrale di Altamura e la falce-e-martello del primo socialismo; con Benedetto Croce, il papa laico della religione della libertà, e il suo quasi omonimo Benito Mussolini, che della libertà fece strame. Così le sineddochi diventano parte di un gioco ossimorico, arricchendo la tramatura retorica di queste opere, come nelle citazioni giustapposte del Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo e della Marcia su Roma. Oppure si tratterà di scoprire le stratificazioni ideali e morali che hanno dato vita alla complessità del pensiero dell’altamurano, fra Piero Gobetti e Giuseppe Di Vittorio, Don Milani e Carlo Levi, il cui Cristo si è fermato a Eboli non poco deve agli articoli meridionalistici di Fiore; ma il dialogo fra i due proseguirà negli anni Cinquanta con i paralleli reportage dall’Unione Sovietica, Il futuro ha un cuore antico del torinese e Al paese di Utopia dell’altamurano. Non può mancare l’accostamento fra il vecchio Tommaso e il giovane Pier Paolo, uniti dalla passione per la poesia popolare e da una insospettabile stima reciproca: Pasolini riconosceva l’autorevolezza del professore pugliese e Fiore amava in particolare Il pianto della scavatrice.
Ma l’omaggio biografico della prima sezione si allarga in un’autobiografia della nazione, selezionatissima nei suoi capitoli eppure di ampio respiro, cominciando dalla sezione “Schiavismo agrario”, che trae ispirazione dal primissimo impegno politico di Fiore a favore delle riforme agrarie nel primo dopoguerra, schiacciate dalla repressione squadristica, quella che portò all’assassinio del protomartire socialista, il conversanese Giuseppe Di Vagno, il 26 settembre 1921, e poi al più celebre omicidio a Roma di Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924.
La terza sezione, “Proiezione archeologica”, ci fa transitare poi dalla storia alla geografia o forse, a essere più precisi, alla geografia storica, ovvero all’indagine di un territorio, quello collinare murgiano, che nasconde e poi rivela i segni di una storia umana: è l’‘umanesimo della pietra’ – come si è detto talora con una felice formula – quello in cui la dimensione geologica e quella georgica, la severa espressività dei sassi e la faticosa manipolazione del paesaggio, resa necessaria per la sopravvivenza dell’uomo, si incontrano in un ‘terzo paesaggio’ di cui le terrecotte di Vino, i suoi enigmatici ‘totem’, i suoi altarini laici, sono la dimostrazione di un altro risvolto del suo talento.
Proprio un altarino pagano – nel duplice senso di una religiosità materialistica e di una memoria ancestrale, legata al folclore del paese e alla contaminazione fra saggezza e superstizione – è il centro dell’ultima sezione, dedicata “A Ugo e Gigetta”, il sindacalista brindisino arrestato nel 1933 per antifascismo e la bella partigiana triestina, trucidati probabilmente entrambi nel 1944 nella risiera di San Sabba: un edificio nato come fabbrica, dunque come tempio laico di una civiltà fondata sul lavoro e sull’organizzazione e che diventa, invece, il vergognoso inferno della violenza di Stato. L’itinerario della mostra si chiude dunque simbolicamente col ricordo di due ‘formiche giganti’, sineddochi di un popolo che da Sud a Nord trova la sua unità nella difesa dei più umili e nell’amore per la libertà: a questi sogni Ugo e Gigetta immolarono la loro vita, nella stessa città per la cui liberazione, quasi trenta anni prima, Fiore si era arruolato come volontario nella Grande Guerra, facendo dell’impegno civile una vera e propria forma di ‘ascesi’. E l’utopia continua.