Domenica 30 aprile 2023 alle ore 19 negli spazi di Momart Gallery in Piazza Madonna dell’Idris nei Sassi di Matera è in programma l’inaugurazione della mostra “Innen und Aussen”, la doppia personale di Sabino de Nichilo e Dario Molinaro a cura di Antonello Tolve. Di seguito i particolari.
Sculture dalle volumetrie morbide e ricercate, dai colori brillanti e dal gusto prettamente pop che evocano strutture organiche, e pitture dalle atmosfere disarmanti, in cui figurano volti travolti da valanghe cromatiche che neutralizzano ogni posizione definita. Sono gli «Ossimori materici» dei due artisti pugliesi, lo scultore Sabino de Nichilo (Molfetta, 1972) e il pittore Dario Molinaro (Foggia, 1985) racchiusi nella mostra Innen un Aussen che sarà inaugurata a Matera il 30 aprile, negli spazi espositivi della Momart Gallery, diretta da Monica Palumbo. Curata da Antonello Tolve, la mostra si compone di opere in cui «la materia è trattata dagli artisti come conduttore di gesto mentale, di impronta, di Stimmung (tonalità emotiva), di primäre Entdeckung der Welt (rivelazione primaria del mondo)». Opere carnali di de Nichilo che si giustappongono in maniera del tutto naturale, alle figure in dissolvenza di Molinaro. Si compenetrano, si compensano come il pieno e il vuoto, il dentro e il fuori, diventando la scia emotiva di un’idea cristallizzata in una forma plastica, che si espande oltre la materia. Facendo proprio un orizzonte di pensiero sul corpo, metaforicamente aperto e ispezionato in tutta la sua vitale organicità, Sabino de Nichilo «sviluppa un discorso plastico che trasforma la materia carnosa in teorema visivo, in spazio di riflessione dove aperto e chiuso si bilanciano per disancorare l’anatomico dalla sua spietata topia e riarticolarlo, deformarlo, rinnovarlo fino a convertire la carne in argilla refrattaria o grès industriale, materie dure – culturalmente crude – su cui una serie di pigmenti vitrei si fanno squillante e argentina pulsazione cromatica, denso e apparentemente molle impasto, fluida e brillante messa in scena della paralisi. de Nichilo – spiega Tolve – sottrae il corpo a ogni vagolante precarietà del tempo e lo incanala in un processo linguistico che converte l’organo con funzioni vitali in oggetto scultoreo la cui forza formale non soggiace al racconto o alla rappresentazione, non descrive, stimola piuttosto a rivolgere lo sguardo verso un interno fantastico (ironicamente viscerale) dove gli organi, appunto, sono trattati come accenti o accenni, come incidenti, come strutture da cui partire per leggere l’intreccio e la trama di una potente autopsia immaginifica». Coratella (2017) dove Il cuore dissacrato si fa frattaglia, i Coralli golosi (2017-2019) del Muro di gioia (Coralli protesi per abbracci tentacolari), la meravigliosa installazione ¡Átame! (2022) che richiama alla memoria l’omonimo film di diretto da Pedro Almodóvar nel 1990, l’Affetto (2020), dei tranci di solitudini monoporzione con cui l’artista ha organizzato una spiazzante azione in un supermercato di via Tuscolana a Roma, gli ironici Anus (2018) che trasformano l’orifizio anale e parte dell’intestino crasso in preziose sculture trombiformi, gli stupefacenti Organi da asporto (2019-2021), croccanti Esperimenti per una carne libera dal corpo che prende vita propria o il più recente ciclo dedicato agli Ossimori sentimentali (Complici, 2020-2022) dove si intrecciano materiale organico e inorganico (Cavalcando l’onda del 2020 ha come base uno zoccolo di cavallo, Revenant dello stesso anno, è un incastro di grès, legno e canapa, Falerno del 2021 mostra della gomma colante), sono tutti terreni di sfogo estetico ma anche spazi di congiunzione e di rottura. «La mia poetica contempla la mutazione, la possibilità di una trasformazione costante della materia»- suggerisce l’artista. «Le mie sculture assomigliano a organi interni, Organi da Asporto. Non sono espressione di un’anatomia ortodossa, ma sono organi deformi, liberi da costrizioni corporali e culturali. Si sono staccati dalla carne, dalle terminazioni nervose, da vene e arterie che li legavano e si ribellano alla loro funzione originaria». Dalle frattaglie ironiche e visionarie di de Nichilo, alla pittura grumosa ed energicamente aggettante di Dario Molinaro che supera la soglia della superficie e si spinge oltre i bordi della tela per mostrare le cronache di una civiltà sepolta in una buia chiarezza. La forza e l’immediatezza del segno e del colore trasmettono energia vitale, neutralizzano ogni posizione definita – ogni nome, ogni cosa, ogni soggettività – per assecondare il riccio e il capriccio del pennello, per infilare il dito nella materia del mondo. «In certi momenti lavoro come uno scultore- sottolinea l’artista – mi piace la materia e mi diverte modellarla». Ricco di citazioni che spaziano dalla letteratura al cinema, dalla geografia alla storia dell’arte, dalla filosofia alla medicina alla cultura popolare italiana, «il suo vocabolario espressivo (troviamo accenni a Gauguin, a Bacon, a tutta una schiera di nomi legati all’espressionismo tedesco o al trash) – prosegue il curatore – azzera e risucchia nel vuoto della pausa tutta una serie di elementi che contengono al loro interno i riferimenti e le spurie coordinate di movimento, di rumore vitale tra la circostanza dell’esistenza e la dimensione infinita – quasi un infinito in scatola direi, liofilizzato sotto i colpi del colore – del tempo reale. Con la chiara idea di filtrare la torbida acqua della quotidianità per rigettare e riagitare il fondiglio fino a trasformare la baudelaireiana émotion réelle in image troublante, in via d’uscita. Molinaro afferra il nulla come una preda: suggerisce, accenna a corpi, a volti e a oggetti mediante una pittura che stana e che genera un frammento dilatato del tempo per definire la nostalgia del presente dove esseri e cose vivono appunto la loro eterotopica sovrastoricità». Ne sono un esempio You cannot stay dressed (2022), The lady of flowers (2022), Nude with plant (2022), il pastoso Paint like a cat (2022), Man with hat and pipe (2022) e i Portrait del 2020 (hungry boy, green, nice face, la linusiana little face), e alcune figure che popolano il suo universo, dove sembra quasi vigere la regola di «irrappresentare una rappresentazione» che si placa e flette e spinge «sull’indifferenza crudele e ideale del soggetto».
La mostra sarà inaugurata il 30 aprile alle ore 19 e resterà aperta fino al 30 Giugno 2023.
Gli orari sono i seguenti: per il mese di maggio dalle 11 alle 13 e dalle 16 alle 19,per giugno tutti i giorni tranne il mercoledì dalle 11 alle 13 e dalle 16 alle 19
“Il dentro e il fuori”, testo critico di Antonello Tolve
Il processo di formalizzazione che accomuna il lavoro – così lontano, così vicino e complesso – di Sabino de Nichilo e Dario Molinaro sembra afferrare da differenti latitudini l’esperienza della materia intesa come terreno dal quale partire per investigare al meglio la chōra («ricettacolo invisibile e senza forma […] dell’intero divenire» a detta di Platone)[1], il luogo interspaziale che si frappone tra il non percepito nella sua fisicità (l’idea, anaistheton) e l’oggetto percepibile (il corpo sensibile, aistheton). Entrambi, infatti, problematizzano su una certa qual organicità del lavoro al cui interno è chiaro un pensiero in potenza riconoscibile nell’evento esperienziale della materia, trattata da entrambi come conduttore di gesto mentale, di impronta, di Stimmung (tonalità emotiva), di primäre Entdeckung der Welt (rivelazione primaria del mondo).
IL DENTRO | Facendo proprio un orizzonte di pensiero sul corpo, metaforicamente aperto e ispezionato in tutta la sua vitale organicità, Sabino de Nichilo (Molfetta, 1972) sviluppa un discorso plastico che trasforma la materia carnosa in teorema visivo, in spazio di riflessione dove aperto e chiuso si bilanciano per disancorare (disarcionare) l’anatomico dalla sua spietata topia e riarticolarlo, deformarlo, rinnovarlo fino a convertire la carne in argilla refrattaria o grès industriale, materie dure – culturalmente crude – su cui una serie di pigmenti vitrei si fanno squillante e argentina pulsazione cromatica, denso e apparentemente molle impasto, fluida e brillante messa in scena della paralisi. de Nichilo sottrae il corpo a ogni vagolante precarietà del tempo (riduce il tempo a tempo fermo) e lo incanala in un processo linguistico che converte l’organo con funzioni vitali in oggetto scultoreo la cui forza formale non soggiace al racconto o alla rappresentazione, non descrive, stimola piuttosto a rivolgere lo sguardo verso un interno fantastico (ironicamente viscerale) dove gli organi, appunto, sono trattati come accenti o accenni, come incidenti (l’artista «porta alla luce una visceralità sentimentale che addomestica l’alienità di un’anatomia mutante»)[2], come strutture da cui partire per leggere l’intreccio e la trama di una potente autopsia immaginifica.
Coratella (2017) dove Il cuore dissacrato si fa frattaglia, i Coralli golosi (2017-2019) del Muro di gioia (Coralli protesi per abbracci tentacolari), la meravigliosa installazione ¡Átame! (2022) che richiama alla memoria l’omonimo film di diretto da Pedro Almodóvar nel 1990, l’Affetto (2020), dei tranci di solitudini monoporzione con cui l’artista ha organizzato una brillante e spiazzante azione in un supermercato di via Tuscolana a Roma, gli ironici Anus (2018) che trasformano l’orifizio anale e parte dell’intestino crasso (ciò che è vile diventa oro, suggerisce De Nichilo: le cavità si aprono come fiori) in preziose sculture trombiformi, gli stupefacenti Organi da asporto (2019-2021), croccanti Esperimenti per una carne libera dal corpo che prende vita propria o il più recente ciclo dedicato agli Ossimori sentimentali (Complici, 2020-2022) dove si intrecciano materiale organico e inorganico (Cavalcando l’onda del 2020 ha come base uno zoccolo di cavallo, Revenant dello stesso anno è un incastro di grès, legno e canapa, Falerno del 2021 mostra della gomma colante), sono tutti terreni di sfogo estetico, locus di astrazione mentale, di meditazione, di congiunzione, di rottura. «La mia poetica contempla la mutazione, la possibilità di una trasformazione costante della materia», suggerisce l’artista. «Le mie sculture assomigliano a organi interni, Organi da Asporto. Non sono espressione di un’anatomia ortodossa, ma sono organi deformi, liberi da costrizioni corporali e culturali. Si sono staccati dalla carne, dalle terminazioni nervose, da vene e arterie che li legavano e si ribellano alla loro funzione originaria»[3].
IL FUORI | Grumosa, cremosa e energicamente aggettante, la pittura di Dario Molinaro (Foggia, 1985) supera la soglia della superficie per spingersi oltre i bordi della tela e toccare con mano il nervo scoperto della realtà, fino a falsare (sfaldare) la profezia del vero con un tiepido lampo di amarezza. Muovendosi sull’asse gesto-materia, Molinaro delinea atmosfere disarmanti o volti travolti da valanghe cromatiche che neutralizzano ogni posizione definita – ogni nome, ogni cosa, ogni soggettività – per assecondare il riccio e il capriccio del pennello, per infilare il dito nella materia del mondo («Mi piace la materia e mi diverte modellarla. In certi momenti lavoro come uno scultore»)[4] e per mostrare le cronache di una civiltà sepolta in una buia (bruna) chiarezza.
Ricco di citazioni che spaziano dalla letteratura al cinema, dalla geografia alla storia dell’arte, dalla filosofia alla medicina alla cultura popolare italiana, il suo vocabolario espressivo (troviamo accenni a Gauguin, a Bacon, a tutta una schiera di nomi legati all’espressionismo tedesco o al trash) azzera e risucchia nel vuoto della pausa tutta una serie di elementi che contengono al loro interno i riferimenti e le spurie coordinate di movimento, di rumore vitale tra la circostanza dell’esistenza e la dimensione infinita – quasi un infinito in scatola direi, liofilizzato sotto i colpi del colore – del tempo reale.
Con la chiara idea di filtrare la torbida acqua della quotidianità per rigettare e riagitare il fondiglio fino a trasformare la baudelaireiana émotion réelle in image troublante, in via d’uscita che è anche cult de sac, spazio chiuso e allo stesso tempo controspazio di delucidazione, di chiarimento, di Aufklärung, Molinaro afferra il nulla come una preda: suggerisce, accenna a corpi, a volti e a oggetti mediante una pittura che stana e che genera un frammento dilatato del tempo per definire la nostalgia del presente dove esseri e cose vivono appunto la loro eterotopica sovrastoricità. You cannot stay dressed (2022), The lady of flowers (2022), Nude with plant (2022), il pastoso Paint like a cat (2022) sono, accanto a Man with hat and pipe (2022) e ai vari Portrait del 2020 (hungry boy, green, nice face, la linusiana little face), alcune delle figure – nei nudi femminili il giallo di Napoli rossastro e il bruno trasparente si increspano sull’occhio dello spettatore – che popolano il suo universo, dove sembra quasi vigere la regola di irrappresentare una rappresentazione (come non ricordare anche Why is it always this way, Affanno goloso e He saw horses del 2016) che si placa e flette e spinge sull’indifferenza crudele e ideale del soggetto.
[1] Platone, Timeo, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, 49a, 52b.
[2] S. de Nichilo, Portfolio, inviato a chi scrive il 28 gennaio 2023 (ore 19:46), in una email con in oggetto Portfolio di Sabino de Nichilo, s.p.
[3] S. de Nichilo, Portfolio, s.p.
[4] F. De Filippi, intervista con Dario Molinaro a Vienna. Ironico, disperato, riflessivo…, in «espoarte.com», 25 giugno 2016, linkato il 28/03/2023, ore 11:48.