Sabato 20 Giugno 2015 alle ore 19 presso il complesso rupestre “Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci” si apre l’edizione 2015 delle Grandi Mostre nei Sassi. La rassegna annuale di scultura contemporanea, organizzata dal Circolo “La Scaletta”, quest’anno è dedicata al Maestro mosaicista ravennate Marco De Luca, artista di prestigio internazionale, impegnato da quasi 40 anni nello studio dell’arte del mosaico. Una ricerca che lo ha condotto a utilizzare la tecnica musiva con un approccio personale e innovativo, nel quale scultura e pittura risultano pienamente coinvolte.
“Materia & Luce” è il titolo scelto per la 28^edizione delle Grandi Mostre, un evento visivo unico, in cui i colori dell’antica arte musiva si fondono con l’unicità del percorso rupestre,con esiti poetici di grande suggestione.
Le 35 opere esposte sono realizzate con la tecnica del mosaico inteso quale oggetto plastico che si converte in scultura, capace di dialogare con la profondità enigmatica degli spazi espositivi che il complesso rupestre è in grado di offrire.
Dal 1987 si rinnova l’appuntamento con la scultura contemporanea nei Sassi, grazie alla passione e dedizione dei soci del circolo “La Scaletta”, che nonostante le difficoltà, in questi anni hanno dato visibilità e prestigio nazionale e internazionale alla città di Matera, con le opere di grandi artisti italiani e stranieri. Alcuni esempi sono: Pietro Consagra, Fausto Melotti, Andrea Cascella, David Hare, Ibram Lassaw e Kengiro Azuma. La scorsa edizione dal titolo “Scultura Lucana Contemporanea”ha valorizzato la produzione degli scultori lucani.
Le Grandi Mostre nei Sassi rappresentano un tassello importante nel percorso di valorizzazione del patrimonio storico- artistico della città, promosso dal Circolo. L’edizione 2015 “Materia & Luce” costituisce un evento artistico di rilievo nella prospettiva di Matera Capitale Europea della Cultura 2019.
I curatori della mostra e del catalogo sono Beatrice Buscaroli, storica dell’arte e componente del Consiglio superiore del Ministero dei Beni, delle Attività culturali e del Turismo e Bruno Bandini, storico dell’arte e dal 1989 membro dell’IKT( Associazione internazionale dei curatori d’arte contemporanea).
Il catalogo con le foto delle opere esposte è realizzato dalle prestigiose Edizioni Giuseppe Barile.
La gestione della mostra è garantita dai soci del circolo “La Scaletta” confluiti nell’impresa culturale Coop.Cave Heritage.
La mostra potrà essere visitata fino al 17 ottobre con i seguenti orari:
10.00-20.00 fino al 30 settembre
Dal 1°ottobre10-13.30; 15.00-18.00
Biglietto intero 5,00 euro, ridotto 3,50 euro.
La rassegna “Le Grandi Mostre” è promossa da Total E&P, Italcementi Group, Bawer, UnipolSai assicurazioni, con la partecipazione di Frascella forniture elettriche, Grieco collezioni Uomo Donna e Stella trasporti.
L’evento è patrocinato dal Ministero dei Beni, delle Attività culturali e del Turismo, dalla Regione Basilicata, dalla Provincia di Matera, dal Comitato Matera 2019, dalla Fondazione Zètema, dall’APT Basilicata e dalla Camera di Commercio di Matera.
Grandi mostre nei Sassi di Matera, il saluto del sindaco Raffaello De Ruggieri
“Per un nuovo rinascimento della nostra terra”
L’appuntamento annuale del circolo ‘la Scaletta’ cade questa volta in una diversa
e particolare circostanza: la designazione di Matera a Capitale Europea della
Cultura per il 2019. Questa autorevolezza del ruolo raggiunto dalla città si collega con
la recente, personale elezione quale rappresentante istituzionale di tutti gli abitanti di
Matera.
Le due novità non possono essere ignorate e diventano fattori distintivi di un particolare momento storico della città con le relative implicazioni e prospettive.
Vorrei comunque confermare la validità culturale delle iniziative del prestigioso Circolo che, dopo l’esperienza mirabile della mostra di Pietro Consagra del 1978, dal 1987 con
continuità ha programmato e allestito le grandi mostre di scultura nei Sassi.
La ubicazione di tali eventi nel complesso rupestre di Madonna delle Virtù e di San
Nicola dei Greci rappresenta l’altro elemento distintivo per la qualità storica e per la
suggestione emotiva di una articolata struttura sotterranea che diviene luogo sacrale,
frutto di una esperienza millenaria di scavo. Si tratta invero di basiliche costruite non
sopra la terra ma dentro la terra, portatrici di strepitosi valori spirituali e culturali.
In questo contesto si sono rincorse per decine di anni le mostre annuali organizzate
dalla associazione materana, ricevendo in un primo tempo attenzioni e riconoscimenti e, successivamente, divenendo la testimonianza nobile dei messaggi culturali affidati alla creatività plastica del nostro tempo.
Non una standardizzata e comune area espositiva ma un luogo che sublima, per il suo
abbraccio coinvolgente, le produzioni artistiche che di volta in volta sono state proposte al pubblico e alla comunità scientifica.
Oggi tale abbraccio ospita le opere musive di Marco De Luca, declinate nei valori della materia e della luce.
Una mostra in linea con la consolidata qualità delle precedenti iniziative.
Un plauso, quindi, agli organizzatori dell’evento e a quanti hanno contribuito alla sua
realizzazione, così come l’apprezzamento va all’artista che ha saputo rendere coerenti
con l’ambiente rupestre i suoi prodotti creativi.
Ma questa presentazione, che avvìa la mia comunicazione istituzionale, non può fermarsi al commento puntuale di un’apprezzabile manifestazione.
È infatti il momento di riaffermare i princìpi di politica culturale che dovranno essere
perseguiti dal Comune di Matera.
Innanzitutto dovrà trovare conferma il principio che il capitale di storia acquisito nella perennità del tempo dovrà trasformarsi nel ruolo della città per il suo sviluppo.
Il patrimonio culturale, quindi, non come ostentazione storica bensì come bene da
capitalizzare fino al punto da renderlo una imprescindibile opportunità di progresso
sociale e di crescita economica per la nostra comunità.
E Matera, su tale linea, può esprimere unicità non riproducibili, quale luogo dell’abitare perenne e dell’abitare creativo.
Una città che testimonia l’eternità della vicenda dell’Uomo, dai buchi neri della preistoria (Grotta dei Pipistrelli) ai buchi neri dello Spazio (il Centro di Geodesia Spaziale); una
città che stimoli emozioni e reazioni dei visitatori, non solo visioni, portandoli per mano lungo un sentiero straordinario che va dalla selce al silicio.
Un patrimonio culturale da non ridurre a semplice godimento passivo o visivo, bensì
lievito di fermentazioni e di emozioni creative. Un patrimonio culturale capace di
tradurre in redditività la sua valorizzazione e la sua fruizione, come appena affermato.
Altro principio da evidenziare è quello legato al valore della cultura, quale insostituibile percorso di conoscenza e quale determinante modo di vivere.
Una cultura che deve essere produzione, diffusione e scambio e non già consumo e
acquisto.
Con tale parametro andrà dosata e filtrata la programmata attività culturale di Matera
2019. Non possiamo infatti permetterci divagazioni culturali astratte e virtuali, bensì dobbiamo stabilizzare nel territorio materano e regionale i luoghi della produzione culturale. Parlo delle proposte contenute nel progetto “Officine della cultura” relative al suono (musica), alla parola (teatro), al movimento (danza), al segno (arti figurative e plastiche) e alle immagini (cinema e video).
Aree essenziali che, fissate in modo stabile, saranno le fucine costanti del ruolo culturale della città.
Su questo binario dovrà correre la programmazione di una politica culturale che,
sfuggendo al fascino dell’effimero, rafforza il ruolo distintivo della città e si traduce in
opportunità di produzione e di occupazione.
Era opportuno, in questo mio primo messaggio istituzionale, indicare gli argini di un
tracciato operativo che individua nell’armatura culturale del territorio una matrice di
memoria e uno strumento di sviluppo.
Una cultura che non si compra e non si consuma ma che appunto si produca, si diffonda e si scambi.
Note biografiche Marco De Luca
“così recuperai l’uso del mosaico perché con esso ho ritrovato il tempo”. Marco De Luca
Marco De Luca nasce nel 1949 a Medicina, in provincia di Bologna. Dopo il diploma presso l’ Istituto Statale d’Arte per il Mosaico a Ravenna, nel 1969 ottiene a Milano il primo Premio internazionale studentesco INA-Touring per la pittura. Nel 1973 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna e a Ravenna collabora con il laboratorio “Il Mosaico” di Carlo Signorini, dove ha la possibilità di lavorare con grandi artisti come Music, Dorazio e Turcato.
Le prime esposizioni personali risalgono agli anni Settanta, principalmente dedicate alla pittura. Nel 1977 la mostra alla Galleria comunale d’Arte Voltone della Molinella, a Faenza, con l’esposizione di vecchi intonaci strappati da case coloniche abbandonate, sancisce il distacco dalla pittura e il riavvicinamento al mosaico. Una scelta dettata da una personale e innovativa concezione del linguaggio musivo, nel quale scultura e pittura risultano pienamente coinvolte.
Dalla fine degli anni Settanta al 2002, si dedica all’insegnamento come docente di discipline pittoriche dell’ Istituto statale d’Arte per il Mosaico “Gino Severini” di Ravenna. Nella Capitale dei mosaici si trasferisce definitivamente nel 1982, dove apre un proprio atelier e fonda l’Associazione Mosaicisti di Ravenna, costola operativa dell’Associazione Internazionale Mosaicisti Contemporanei.
Nel 1996 partecipa alle campagne di restauro dei mosaici pavimentali bizantini della Domus dei Tappeti di pietra, a Ravenna. Nel 1998 pubblica il libro “Il mosaico per immagini”, un testo considerato fondamentale per una didattica scientifica del mosaico bizantino.
Nel 2003, su invito del Comune di Ravenna, realizza l’opera monumentale “Mediterraneo” per la Biblioteca di Alessandria d’Egitto.
Nel 2011 partecipa alla IV Biennale di Mosca e nel 2012 gli viene dedicata la personale “Silicio con forme” presso la Musivum Gallery moscovita. Ne 2012 espone al MAR- Museo d’Arte della città di Ravenna.
Attualmente vive e lavora a Ravenna e i suoi lavori sono esposti in vari musei, istituzioni e collezioni private, in Italia e all’estero.
Materia & Luce, recensione di Beatrice Buscaroli
L’idea del tempo, l’epifania di un pensiero.
Se l’ “arte delle Muse” – come Carlo Bertelli ha voluto nominare il mosaico in un volume di vent’anni fa – è a tutti gli effetti un linguaggio , occorre liberarsi dal pregiudizio storicistico che spesso ha accompagnato la letteratura artistica dal purovisibilismo del tardo Ottocento agli anni Sessanta e che individua nel “primato dello stile” lo strumento attraverso il quale riconoscere la qualità, o le qualità, dell’arte visiva.
Anche per il mosaico, e in modo forse più complesso, valgono le tensioni che si dispongono tra tecnica e funzione, abilità ed espressione, regola ed emozione. E, per mettere a fuoco il problema, l’oggetto sul quale il nostro sguardo si pone, da un emblema ellenistico a una cupola paleocristiana, da una parete bizantina a un ritratto funerario secentesco, non ha alcun senso appiattire in un indistinto “tutte queste cose sono dei mosaici”.
Lo “stile”, inteso come evoluzione di una volontà artistica che cresce su se stessa e che in se stessa trova le motivazioni per modificarsi, rischia di apparire uno strumento del tutto inadeguato per comprendere le ragioni della diffusione e della persistenza – certo difficile e spesso considerata inattuale – di un linguaggio come quello musivo. Linguaggio che ha investito l’intero Mediterraneo e il Medio Oriente fin dai tempi della mitiche città sumere di Ur e di Uruk, nel terzo millennio prima di Cristo.
Insomma, il mosaico non si lascia facilmente ricondurre alle idee vulgate che lo vogliono “tesoro della latinità”, “splendore bizantino”, “lingua della cristianità”: alle età del trionfo delle risonanze mistiche negli antichi mosaici paleocristiani, poi nelle chiese greche e russe o nelle moschee islamiche, milioni di tessere si dispongono profane a decorare castelli romanici o luoghi delle delizie mediorientali. Non è un caso che il prete-monaco germanico Teofilo indicasse il mosaico, attorno all’anno 1100, come la decorazione tipica dell’edificio pagano.
Detto ancora in un altro modo: quando si parla del mosaico conviene rinunciare ad alcuni punti fermi che la storia dell’arte ci ha consegnato, prima fra tutti quello novecentesco che lo vuole incardinato su una dimensione monumentale. Il vantaggio di quella rinuncia permette di individuare una sintonia tra l’icona portatile paleologa e il litostrato romanico, tra l’ideale vasariano della “bellezza dei colori unita” e le nette campiture timbriche di Severini, tra la prosa sommessa del piano di tavolo ottocentesco e la tribunizia retorica del murale, tra il mosaico minuto del Settecento e le originali sensibilità che negli ultimi decenni si sono venute manifestando.
È bene tuttavia non dimenticare come quella lingua abbia vissuto tempi bui, specie nel momento in cui le “arti del disegno” sistematizzate da Giorgio Vasari nel 1550 sembrano riporre il mosaico in una dimensione servile rispetto alle discipline nobili della pittura, dell’architettura e della scultura. “ È certo che il musaico è la più durabile pittura che sia; imperocché l’altra col tempo si spegne e questa nello stare fatta di continuo s’accende; ed inoltre, la pittura manca e si consuma per se medesima, ove il musaico per la sua lunghissima vita si può chiamare eterno”.
Ed è sempre Vasari a ricordarci come Domenico Ghirlandaio sottolineasse nel mosaico la vera “pittura per l’eternità”. Il che potrebbe apparire un complimento disinteressato, se non fosse evidente il tentativo di stabilire una gerarchia tra le arti grazie alla quale il mosaico viene riconosciuto come abile tentativo di imitazione della pratica della pittura. Una simulazione “artigianale” volta a glorificare – e magari a rendere eterna – la nobiltà del gesto pittorico.
Comunque sia, quel gioco di materia frammentata e ricomposta, quel progetto dalla sintassi scabra e arcana e dalla costruzione estenuante che chiamiamo “mosaico”, ha saputo vivere altre vite, ha saputo modulare la composizione spaziale ed espressiva in forme rinnovate, ritrascrivendo le relazioni tra creatività artistica e abilità operativa, tra mente e mano, tra emozione e regola.
Marco De Luca è probabilmente il frutto più maturo e consapevole di questo percorso accidentato e seducente, dove consapevolezza del materiale e dimensione progettuale convivono e si integrano per generare immagini astratte dove la luce degli smalti ammaestra le zone umbratili e opache dei marmi. Dove le suggestioni di uno spazio ricreato plasticamente instaurano un dialogo con l’architettura. Sculture di luce che si generano su forme plastiche originate da una passione quasi “filologica” nei confronti della ricchezza di una tradizione che ha nei brani ravennati una delle sue culle; una luce che si incarna in virtù della scelta e della selezione dei materiali, del taglio delle tessere e dei loro andamenti.
De Luca mette a soqquadro le ambizioni incerte e ambigue dell’artigiano, le rimostranze lamentose di un’ “arte applicata” che non ha compreso le potenzialità e i pericoli dell’ “età della tecnica”.
De Luca è perfettamente consapevole del fatto che la lingua del mosaico è diventata un mosaico. E il proliferare delle lingue è sintomo di ricchezza e non di debolezza. La capacità di produrre differenze è il miglior antidoto contro l’omologazione. E, in questa proliferazione, De Luca sceglie, opta per una prassi che traduce in materia artistica un pensiero, un’idea del tempo, una condizione espressiva.
Come ha scritto Fulvio Dell’Agnese, l’arte di De Luca “è arte sacra, non nel senso dell’adesione alla pratica religiosa, ma della sua vicinanza al quid che ci anima. Ci si muove, in essa, sulla soglia di una dimensione estetica estrema, rarefatta, esplorata dall’artista con la medesima fluidità di un linguaggio con cui si potrebbe maneggiare un pennello per far vibrare d’impasto la tela, o compenetrare di liquide velature un intonaco. Eppure in lui c’è perfetta consapevolezza di fare altro dal dipingere, senza compromessi né soggezioni. Come suona distante, nei suoi termini lessicali e ideativi, la definizione di “arte applicata””.
Se Gino Severini auspicava la figura unica di un ideatore ed esecutore del linguaggio musivo, De Luca ne costituisce l’esempio più limpido, perché sente il mosaico come suo mezzo d’elezione e pensa, vede, progetta, in termini di mosaico. Ma di un mosaico che è l’incarnazione di un’idea, l’epifania di un pensiero, dove lo spazio si trasmuta; dove la “decorazione” si annulla per diventare strumento che rende lo spazio un problema da risolvere, un sogno che prende forma.
Materia & Luce, recensione di Bruno Bandini
La materia della luce
a. Una premessa
“Taglienti strisce d’ombra si stendevano sull’erba, e la rugiada che danzava sulla cima dei fiori e delle foglie rendeva il giardino un mosaico di singole scintille che ancora non s’erano amalgamate in un tutto”
Virginia Woolf, Le onde
Una sorta di visione impressionista anima i prologhi del romanzo della scrittrice inglese, come se la parola potesse restituire la consistenza delle cose attraverso l’incanto dei frammenti che le animano. Semplificazione della forma e intensificazione del colore rendono possibile questa sorta di pointillisme narrativo che attraversa ampi spazi della cultura occidentale quasi ad affiancare quella “crisi della rappresentazione” che le avanguardie storiche porteranno a compimento.
Semplificazione che non ha nulla a che vedere con l’imprecisione, con la superficialità, ma, al contrario, con la ricerca di un’esattezza, di un fondamento, che pare richiedere una revisione radicale della presunta continuità che investe la storia delle arti. Come sottolineava Ardengo Soffici nel 1920, nei Principi di un’estetica futurista, arte e pubblico avrebbero trovato appagamento “non più nella elaborazione in comune della realtà lirica da rappresentarsi, ma nel segno stesso che la rappresenta”. E il principio che prevede la riduzione estrema delle forme espressive fin quasi a farle coincidere con la grammatica del linguaggio dell’arte ha analogie e corrispondenze in tutta la sfera della creatività: poche linee e pochi colori, per la pittura; poche forme e pochi volumi, per la scultura e l’architettura; poche parole, per la poesia; poche note, per la musica.
Anche il riduzionismo è, con ogni probabilità, uno dei grandi miti dell’avanguardia. Un mito ricorrente per altro e per certi versi necessario. Si tratta di ripulire la sensibilità, di raffinarla, di sottrarla a quelle pratiche “accademiche” tutte giocate sugli apprendimenti delle tecniche artistiche che, pochi anni dopo la riflessione di Soffici, Hermann Broch avrebbe definito kitsch.
Si assiste ad un’immersione nel corpo della creazione artistica, ad una sua vera e propria autopsia in grado di rendere ragione del suo funzionamento più intimo: “la poesia – scrive William Carlos Williams –, come ogni altra forma d’arte, è un oggetto”; il segno prende progressivamente il posto delle immagini che pretendono di rappresentare la realtà che ci circonda; è possibile dissociare la frase dal contenuto, ricondurre il segno grafico, così come quello sonoro, alla sua pura presenza “fisica”.
È questo l’esito estremo della cultura della crisi inaugurata dall’esplosione dell’era della tecnica, dove le composizioni di Piet Mondrian e di Paul Klee, le improvvisazioni di Vassilij Kandinskij, le geometrie di Vladimir Malevic, i ready-made di Marcel Duchamp, convivono con il dispiegarsi della “serialità” musicale di Anton von Webern e di Arnold Schoenberg, con i calligrammi di Guillaume Apollinaire e i Chimismi lirici di Soffici, con i crittogrammi di Ezra Pound, con quelle singolari revisioni del principio alessandrino dell’ ut pictura poiesis presenti nelle liriche di E.E.Cummings.
Detto in modo sintetico: se ogni modalità dell’espressione artistica è un “oggetto”, la forma di questo oggetto è riconducibile a un linguaggio. E ogni linguaggio registra, testimonia o inventa, delle regole sintattiche, una grammatica che gli è propria.
Forse il clima nuovo che la stagione delle avanguardie inaugura, quello che sbrigativamente chiamiamo “astrattismo”, altro non è che lo sforzo di chiarire le relazioni tra visibile e non visibile che si celano all’interno della lingua che pronunciamo.
b. Il mosaico e Marco De Luca
“Ogni rappresentazione, persino quella più astratta, sottintende un appuntamento con l’intellegibilità, o perlomeno con un’attenuazione della stranezza, corretta dall’osservazione e dalla forma voluta. “Apprensione” (l’incontro con l’altro) significa sia paura che percezione. Il continuum tra le due, la modulazione dall’una all’altra, sono la fonte della poesia e delle arti”.
George Steiner, Vere presenze
Questo è quello che in qualche modo prevede il “canone occidentale”, quella sorta di paradigma che l’esercizio della critica rende evidente all’interno delle rotte che le arti via via inaugurano. L’alterità si annida ovunque e le arti ne mostrano l’enigma, l’instabilità non mitigata e perpetuamente esiliata.
Ma, una volta compreso che non tutte le immagini sono riconducibili necessariamente ai processi della rappresentazione, e alle tecniche che la rappresentazione sottende, ci si accorge che nel loro stesso linguaggio si nascondono verità e falsificazione.
Il mosaico è a tutti gli effetti una forma dell’espressione artistica dotata di un proprio linguaggio; linguaggio che può essere interrogato per arricchirne le potenzialità poetiche, per sottrarlo alla fissità sterile della definizione che lo vorrebbe ancorato ai vincoli di una tradizione operativa e funzionale che ha ormai dato i propri frutti maturi secoli or sono.
Marco De Luca, da oltre un trentennio, sviluppa questa operazione analitica: sondare il linguaggio del mosaico. A partire dalle sue componenti elementari, irriducibili: l’ortografia con cui quella materia frammentata si dispone sulle superfici (siano queste superfici piane o strutture plastiche) e colore che quella materia trattiene dentro di sé. Andamento della composizione e modulazione dello spazio in virtù peso che la luce acquisisce, questi gli elementi cardine che non abbandonano mai la sua ricerca solitaria e quasi maniacale.
Potremmo dire che l’andamento nella disposizione delle tessere musive è la capacità di rendere evidente la stessa struttura formale dell’opera. Nell’andamento, e nel rispetto delle sue regole in apparenza immutabili, si nasconde la qualità intrinseca dell’opera. L’abilità nel frammentare la materia, gli smalti o i marmi, non garantisce alcunché: è la ricomposizione che decide tutto. E la ricomposizione è frutto di intuizioni e di applicazioni operative costanti.
De Luca non utilizza disegni preparatori, sinopie: tutto accade sul campo di battaglia di una superficie vuota e su quel campo si decide il successo o meno dello scontro tra l’idea progettuale dell’artista e la persistenza della materia che sta per tradursi in immagine. Si potrebbe addirittura dire che su quel campo agisce un proposito seduttivo rivolto alla conquista di due soggetti tra loro molto distanti: l’immagine, da una parte, e il nostro sguardo, dall’altra.
Nei confronti dell’immagine quello che conta sono le regole che vengono imposte per poter giocare al rito della seduzione: una convenzione linguistica che, una volta accettata, non può essere contraddetta. Una seduzione che vive come estrema metafora dell’impossibile integrazione-composizione del frammento con l’intero, della parte con l’organismo, del discreto con il continuum spaziale e temporale.
La seduzione autentica s’inizia con il trionfo del gioco, di un gioco progettuale che si presenta come geroglifico del nostro desiderare.
Seduzione e desiderio, dunque. E fingiamo che questi elementi possano costituire il tracciato decostruttivo di quello che De Luca intende per “mosaico”.
E questa operazione, tesa a ridurre il “testo” come insieme di segni organizzati e intenzionati, ci costringe – costringe l’esercizio critico – a pensare al mosaico come stratificazione i cui significati scivolano, si disseminano in una molteplicità di direzioni inarrestabili. Una stratificazione senza fine, un palinsesto che risulta leggibile solo a condizione che la sua seduzione sia posta nelle condizioni di agire.
Ecco allora, in via del tutto ipotetica, il “mosaico” di De Luca, il senso del suo agire progettuale: il continuo incontro di una pluralità di testi, il gioco senza fine che la “scrittura” fa di sé.
Un universo di segni “senza colpa, senza verità, senza origine”, come avrebbe potuto dire Friedrich Nietzsche. Un universo fatto di materia che interroga l’incorporeo, sia questo la luce, lo spazio, il senso.
Se tuttavia tutto si riducesse a questo proposito ci si troverebbe di fronte all’esercizio della “bella forma”, all’epifania di una maschera, di una finzione, di un puro artificio. Il mosaico continuerebbe ad essere la pelle decorativa messa in opera per far trionfare altre funzioni, altri linguaggi. Ma De Luca non vuole annullare o nascondere dietro l’ordine e l’armonia le relazioni che le forme intrattengono con il caos, con il disordine, con la materia. Proseguendo nella metafora cara a Nietzsche, anche a De Luca interessa ristabilire un equilibrio tra bellezza apollinea e verità dionisiaca; e per poter procedere in questa direzione è necessario emancipare la forma dalla metafisica decorativa, consumistica, filistea, consolatoria, della “bellezza”.
E qui interviene il secondo soggetto del gioco seduttivo, il nostro sguardo. Che non può più essere sottratto alla comprensione critica del godimento della forma, perché questo godimento consiste nella consapevolezza dei principi costruttivi della forma stessa, nel rendere evidenti le logiche inventive della trattazione e della distribuzione della materia.
E qui, nel linguaggio del mosaico, interviene, accanto alla grammatica dell’andamento, anche la modulazione dello spazio imposto dalla luce. Una luce vibratile, anch’essa frammentata eppure perennemente diffusa, crudele e pervasiva, frutto di un’enigmatica, ambigua, selezione di quella sensazione che chiamiamo “colore”.
La palette dei colori impiegata da De Luca è in apparenza estremamente ridotta: colori “classici”, quelli della tradizione bizantina-ravennate, quelli di un’alchimia in cui Oriente e Occidente paiono incontrarsi. Colori mai piatti, ma frutto di una complessa opera di composizione dove il gioco degli andamenti è ancora una volta decisivo.
Ma, soprattutto, è bene ricordare che la sintesi che il nostro occhio realizza è un processo carico di ambivalenze: i colori non sono mai esattamente come appaiono, soprattutto allorché è il linguaggio musivo a renderli evidenti, a farli apparire. Si tratta piuttosto di una composizione di elementi materiali tra i quali convivono lucentezza e opacità, riflessione e assorbimento della luce.
L’oro, in primo luogo. Omnia qui fungent aurea non sunt. Ed è proprio il caso di quello sleale concorrente del “giallo”, di quel non colore tanto apprezzato nell’età tardo antica e nell’evo di mezzo. Evocazione del sole, della stessa luce divina, della potenza e dell’energia di tutto ciò che ha vita. Ma anche simulacro del silenzio e dell’indefinitezza dello spazio, come sembra evincersi tanto da quelle porte dorate che, da una superficie piana, paiono sfondare la durezza di uno spazio per inaugurare luoghi silenziosi; quanto, e soprattutto, dalle concrezioni dorate che affiorano dalle scabre, porose, impervie strutture plastiche che contraddistinguono la ricerca più recente di De Luca.
Il bianco, che più che essere la dimensione del vuoto, si traduce in una riflessione radicale sull’ombra; un colore fidato ma complesso, poiché in esso si annidano i contrasti tra albus, opaco, albuminoso, alabastrino, e candidus, brillante, liscio, saturo. Ombra dell’assenza, della lacuna, ma anche indicazione della stabilità, della durevolezza.
Il nero, come il bianco un non colore ambivalente: niger e ater ad un tempo. Brillante e opaco è capace di una densità di sfumature inimmaginabile. Solo in apparenza si tratta di assenza di luce: la sua è una luce differente, inquieta, densa, obliqua. Pretende uno sforzo supplementare dal nostro occhio, un’attenzione mobile, alla ricerca delle variabili che lo rendono visibile, che ce lo fanno percepire “nero”.
Il verde, con le sue dissimulazioni, con la sua capacità di nascondere. Un colore di mezzo, come il blu colore “monoteista” – secondo la distinzione cara a Nietzsche –,tranquillo, ma infido. È questo il verde? il titolo di una delle opere di De Luca, a sottolineare la ricchezza di storia che questo colore trattiene in sé, forse per la sua instabilità: caso, gioco, variazione, movimento, fortuna. D’altra parte, associare il verde alla natura è un processo antropologico che si compie in età romantica.
Il blu, infine, aristocratico e depositario di innumerevoli segreti, laici e religiosi a un tempo. Stabile, austero eppure capace di variazioni improvvise, adorato nella civiltà egizia e poco amato da greci e romani, il blu nel linguaggio di De Luca abbandona le classiche dimensioni simboliche, per farsi natura, soffio, vento che flette le immagini, che contorce la forma fino lasciarci intendere che le tessere fuggano via, si disperdano nell’ignoto.
Il rosso, invece, non appare. O meglio occorre ricercarlo: c’è sempre, ma si nasconde. È elemento imprescindibile della forma, della modulazione, dell’incanto, ma occorre saperlo individuare: sotto le forme “monoteiste” si agita pur sempre il caos tragico, un movimento incontenibile che potrebbe travolgerci.
Colori prediletti, che diventano strumenti privilegiati per trattenere illuminazioni fugaci dello spirito; uno spettro visionario dove brillano effetti musicali ottenuti attraverso consonanze, allitterazioni, analogie, oppure per contrappunto o dissonanza.
È questo il mosaico di De Luca: un perpetuum mobile che scandisce la complessità e la ricchezza di articolazione di un linguaggio oggi più che mai vivo. Quasi si trattasse di mettere in scena, in opera, l’aforisma che Ludwig Wittgenstein riserva ai colori: “Se ci chiedessero: – che cosa significano le parole ‘rosso’, ‘nero’ e ‘bianco’? – potremmo di certo indicare immediatamente le cose che hanno quei colori. Ma la nostra capacità di spiegare il significato di queste parole non è in grado di chiarire alcunché”.
E questo intrico di senso è proprio il mosaico. Quello di Marco De Luca.
Materia & Luce, presentazione di Ivan Franco Focaccia, Presidente Circolo “La Scaletta” Matera
La 27^ edizione della rassegna materana “Le Grandi Mostre” nei Sassi, che ha riscosso grande successo di pubblico e di critica nella passata stagione, ha messo in evidenza la vitalità e la produzione degli scultori lucani che, dentro e fuori dalla loro terra, hanno saputo mantenere un profondo rapporto con l’arte contemporanea.
Per la 28^ edizione, anche per uscire fuori dagli schemi che hanno caratterizzato le passate edizioni, ci siamo affidati all’estro creativo di un noto mosaicista ravennate, Marco De Luca che, nel corso della sua ricerca ormai quarantennale, ha saputo condurre il linguaggio del mosaico verso esiti poetici di rara efficacia e riconosciuta maestria.
Mosaico non più inteso come abilità consapevole che si applica alla decorazione pavimentale o parietale, ma che diventa una struttura plastica capace di dialogare con lo spazio.
Un linguaggio arcaico ed arcano allo stesso tempo che genera la forma, che è in grado di darle sostanza e luce, che sembra riscrivere le dinamiche della nostra percezione.
All’interno del prestigioso complesso rupestre “Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci” situato nel cuore dei Sassi di Matera, De Luca ha progettato un evento visivo unico, una sorta di installazione complessa in cui i colori della materia musiva e le forme plastiche da essa generate convivono con la grazia primitiva, commovente, stupita, dei lacerti figurativi che rendono uniche le testimonianze dei Sassi.
L’antica tradizione del linguaggio musivo, nelle opere di De Luca, diventa espressione plastica che investe lo spazio non già come pura ipotesi decorativa o come composizione di materia infranta che viene ospitata dalle pareti architettoniche, ma come esperienza e gesto autonomo che si converte in “scultura”.
Una scultura di luce, indubbiamente, ma anche oggetto plastico che riordina visivamente lo spazio circostante ridefinendone la nostra percezione, gesto capace di dialogare con la profondità degli spazi espositivi che la Chiese Rupestri di Matera sono in grado di offrire.
Ancora una volta il glorioso Circolo “La Scaletta” accende i riflettori del prestigioso complesso rupestre e questa volta con un motivo in più: la consapevole certezza e l’orgoglio di aggiungere un’altra perla sul radioso cammino di Matera verso l’anno 2019, quando rappresenterà l’Italia in Europa, potendosi fregiare del meritato titolo di ” Capitale Europea della Cultura”.
Grandi Mostre nei Sassi di Matera, nota di Marcello Pittella, presidente Regione Basilicata
La ventottesima edizione de “Le Grandi Mostre” nei Sassi è la prima che si tiene all’indomani della designazione di Matera a Capitale della Cultura per l’anno 2019. E io la interpreto come il primo, serio segnale di una comunità impegnata a fare la propria parte fino in fondo per riempire di contenuti un ruolo straordinario, di portata europea, che come regione Basilicata abbiamo unitariamente inseguito e, alla fine, conquistato.
Per questa ragione, sono profondamente grato al Circolo “La Scaletta”, al suo presidente Franco Focaccia e ai tanti uomini di cultura che ruotano intorno ad essa, per aver con caparbietà, sin dallo scorso anno, riportato le grandi mostre di scultura nei Sassi, quasi prefigurando quello che sarebbe stato l’esito di una competizione che ha consentito alla città di Matera di conquistare il proscenio internazionale.
Oltremodo felice, oltre che profeticamente beneaugurante, in vista degli impegni futuri, è stata la scelta del titolo della edizione 2015: “La materia della luce”, dedicata alle opere del maestro mosaicista Marco De Luca di Ravenna. I suoi lavori, infatti, sono tra i più apprezzati tanto in Italia, quanto all’estero. In particolare, negli Stati Uniti, Giappone e Russia. Per cui bene hanno fatto gli organizzatori del Circolo “La Scaletta” ad aver puntato su un nome di prestigio internazionale, che certamente farà da richiamo per il grande pubblico degli appassionati che a partire dal prossimo 20 giugno e sino al 17 ottobre di quest’anno avranno modo di visitare la mostra allestita, come di consueto, nel complesso rupestre “Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci”.
Personalmente, sono sempre stato attratto dall’arte del mosaico. Perché, essa, per certi versi, è un po’ la metafora dell’impegno politico nelle Istituzioni democratiche. Così come Marco De Luca riesce, pezzo dopo pezzo, a ricreare effetti di luce, brillantezza e preziosità, anche noi, nel nostro lavoro quotidiano, siamo chiamati a creare un quadro coeso e unitario di relazioni sociali, politiche, culturali, mettendo insieme le diversità di ognuno, in quel complesso mosaico che è la vita di tutti i giorni.
Di nuovo grazie agli amici del Circolo “La Scaletta”, per quella che, ne sono certo, sarà una nuova edizione di successo de “Le Grandi Mostre” nei Sassi di Matera.
La “luce” del volontariato, nota di Giuseppe Mitarotonda (Fondazione Zetema)
Si ripete ogni anno la fantastica avventura delle Grandi Mostre nei Sassi, ed ogni anno, i soci del Circolo La Scaletta sono chiamati a confermare il lavoro di volontariato iniziato molti decenni fa.
Proprio nei momenti di crisi economica e di appannamento o di fuga delle istituzioni assume valore straordinario la ricerca dei modi che consentono la realizzazione di una Grande Mostra.
E’ stata certamente l’azione testarda e decisa degli organizzatori che ha consentito di non interrompere l’annuale appuntamento con l’arte nei Sassi di Matera.
Cercare artisti pronti a condividere le sfide, pronti a mettersi in gioco, pronti a ridurre all’osso i costi dei trasferimenti e degli allestimenti; e ancora, cercare le alleanze sul territorio e fuori per ottenere sia da storici dell’arte che da artigiani, professionisti, operai, le necessarie collaborazioni, ha dato modo di riproporre un evento artistico che da anni si pone all’attenzione del mondo della cultura nazionale e internazionale.
La particolare “luminosità” dei mosaici di Marco De Luca illumina la ventottesima edizione de Le Grandi Mostre nei Sassi che si pone quale evento di prestigio nella prospettiva di Matera Capitale Europea della Cultura 2019.
Spesso non si comprende qual è la forza e il sacrificio del volontariato: dietro una Grande Mostra, quando non si muovano organismi lautamente finanziati, opera una comunità di donne e di uomini che con grande determinazione persegue il fine ultimo di realizzare un evento che dà lustro all’intera città.
Ancora una volta, grazie a questi volontari si celebrerà il matrimonio tra l’antico patrimonio rupestre e la scultura contemporanea.