Mercoledì 24 novembre 2021 al teatro Guerrieri di Matera per la rassegna “Il Cineclub” è in programma il film “France” di Bruno Dumont (Francia/Germania/Italia/Belgio 2021)
Orari: 17:15 – 19:30 – 21:45
Posto Unico: 5 euro.
Si chiama come il suo paese, France, giornalista stella tv, un talk show alla Otto e mezzo in cui costruire teatrini per elettori-spettatori, scenette per giochi di ruolo tra politici che recitano l’odio ma dietro le quinte si amano («starebbero bene, insieme»), in cui sorridere triste tra un reportage in prima persona in un luogo di guerra e il successivo, tra Tuareg in lotta contro gli jihadisti e profughi in attesa di salvataggio, tutti visti come attori, tutto un teatrino in cui quel che conta non è l’empatia con il reale, ma la resa dell’immagine, l’efficacia dello spettacolo, l’emotività del re-enactment (attento, cinema del reale). Fa De Meurs, di cognome: si legge come de mœurs, e dunque dei costumi, perché è la protagonista dell’ultimo film d’un moralista come Bruno Dumont. Che la sceglie come martire del contemporaneo, come la Giovanna d’Arco che ci meritiamo, piena del dio del riconoscimento, della reputazione, della celebrità. Piena della messa in scena globale, della politica come gioco delle parti simulato, della mancanza d’alternativa alla società dello spettacolo, della conversazione non necessaria, dell’attenzione di continuo interrotta, dell’empatia come narcisistico impegno usa e getta. Piena del lavoro 24/7 (oggi, ci dice il quotidiano di sinistra “la Repubblica”, è il non permettersi il tempo libero il vero e ambitissimo status sociale). Piena dell’anestesia del reale. Così, quando il reale interrompe la sua cieca e gaudente routine neoliberista, tramite un piccolissimo incidente con un rider povero, brutto, strabico, meticcio (perché Dumont non smette di ricordarci che il cinema commerciale è una ferocissima arte lombrosiana, d’aura divistica ed exploitation fascista) France si risveglia. Ci prova. Prova a uscire dalla bolla cinica e anaffettiva dello spettacolo. Prova ad andarsene dalla famiglia svuotata di senso. Prova a sentire, a innamorarsi. Prova la luce del vero. Il tocco del male. Ma la messa in scena la insegue, la umilia. E lei cede, ritorna. Si riaccomoda in salotto. Così, per raccontare questo paradossale sentimento contemporaneo, questo dolore dell’ovatta, questo soffrire il non sentire, questo tempo che s’arrende all’eterno presente aggiornabile e consumabile, Dumont cerca un cinema piano, un placido falso realismo (con auto che non si muovono tra fondali parigini, con giochi di montaggio spartani che fan parlare France con Macron), e lo aliena con un fastidio silente, con quel tanto che basta per non soddisfare lo spettatore (con dolci eccessi di durata delle inquadrature, con ridicoli quid di pathos su scene tragiche), per non appagarlo, dargli agio e catarsi. France (una Léa Seydoux la cui aura è messa in abisso) continua a cercare una camera in cui perdere lo sguardo. Un vuoto che le eviti l’insostenibilità del vero. Il guscio dello spettacolo. Così, in un lieto fine che è una condanna, una resa teorica struggente, France ci guarda, e sorride: il cinema è uno schermo che la protegge. Non c’è nulla, ora, che possa farle del male. No, di certo non il reale.