Mercoledì 12 marzo 2025 alle ore 18.00 – 19.50 – 21.40 al Cinema Guerrieri di Matera è in programma il film “Una viaggiatrice a Seoul” per Il C ineclub di Cinergia. Posto unico: 5 euro.
Se proprio volessimo ridurlo all’osso, il gesto cinematografico (ma anche fotografico) di base è quello, di fronte al flusso indistinto di sensazioni e di elementi che popolano il campo visivo, di selezionarne uno e di stagliarlo dallo sfondo. Letteralmente di inquadrarlo: nel senso di perimetrarlo in un quadro che lo isoli dal resto della realtà. Qual è dunque l’elemento su cui dobbiamo posare il nostro sguardo? Che cos’è che nel flusso indistinto della realtà può “fare macchia”? Hong Sang-soo ha deciso da anni di basare il suo cinema su questa differenza minima (la matrice teorica è Right Now, Wrong Then), eppure, anche a dispetto dei detrattori che lo accusano di girare sempre lo stesso film, a partire da In Water qualcosa è cambiato. L’elemento che “fa macchia” – o che potremmo dire “fa la differenza” – è sempre più difficile da trovare, perso in un mare di colore dai contorni sempre più indistinti, e sommerso in un’immagine digitale che è sempre più fuori fuoco. Lui stesso, vittima di una malattia degenerativa, ha parlato apertamente del declinare della sua vista e di come quest’immagine digitale sfocata sia ormai la sostanza della sua visione sul mondo. In Una viaggiatrice a Seoul, dove a sette anni da La caméra de Claire torna Isabelle Huppert, i colori del personaggio di lei (il vestito a fiori, il cappello di paglia, il maglioncino verde) si perdono nello sfondo, come se tra il mondo e il personaggio non ci fosse più alcuna differenza. Eppure questa volta la differenza si palesa non in quell’epifania visiva dai contorni sfuggenti e ineffabili attorno a cui ruotava la vicenda di In Water, ma nel linguaggio. Iris (talmente indistinta dal mondo da avere addirittura il nome di un fiore) è infatti un’improvvisata maestra di francese a Seoul, e nella gran parte dei dialoghi del film si sovrappongono tre lingue diverse: il coreano, il francese e l’inglese. Creando continue incomprensioni e fraintendimenti. Ma è proprio in queste fratture che qualcosa può accadere: «Impareremo ad amare le nostre emozioni espresse in una lingua straniera» dice Iris. Infatti, nelle consuete scenette che si susseguono nel film quello che fa differenza è sempre un fraintendimento linguistico, un sovrapporsi di idiomi diversi che vengono moltiplicati tecnologicamente da registratori, cellulari, cartoncini. E paradossalmente è proprio dalla confusione data dal sovrapporsi di traduzioni imperfette (e traduzioni di traduzioni) che i personaggi sembrano sempre dire esattamente quello che volevano dire e sembrano in grado di esprimere le emozioni che provano. In questa variazione sul tema di Teorema di Pasolini – appunto, l’arrivo di un personaggio estraneo che “fa macchia” – Hong riesce ancora una volta a mettere a tema il palesarsi di una differenza minima. Che in questo caso sembra provenire dal nulla, o meglio dalla magia di una specie di strega («mi sento stregato da lei» dice a un certo punto un personaggio riferendosi a Iris; «cerca l’illuminazione in un mondo disincantato» dice un altro). Come se, anche in un mondo ormai completamente fuori fuoco, qualcosa, in modo inspiegabile, potesse ancora accadere.