Anche quest’anno la Compagnia Teatrale amatoriale “Sipario”, allo scopo di contribuire alla conservazione dell’identità culturale e storico – tradizionale della nostra città, ha allestito, per la stagione teatrale 2009-2010, la commedia in vernacolo materano “ … I la zìt còm si iacch…” (E la sposa come si trova) scritta e diretta da Bruno Nicola Frangione, in programma il 16 ed il 28 dicembre 2009 presso il Teatro Duni di Matera.
Un’affermazione dello scrittore e pittore piemontese Carlo Levi può fornirci alcune parole dalle quali lo sceneggiatore ha preso spunto per ambientare questa commedia che, tratta di un aspetto sociale importante per la comunità contadina dell’epoca: “Il matrimonio”.
“Dentro quei buchi neri dalle pareti di terra vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi, Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini, bestie … “
La commedia è stata scritta grazie al ricorso a quell’importante patrimonio dei beni immateriali, “le testimonianze”. Si tratta di uno straordinario, patrimonio culturale che conserva le ultime testimonianze di molti materani e di una cultura millenaria che ha subìto una progressiva mortificazione, ma che ora sta prepotentemente riacquistando la dignità che le compete.
E prima che ogni cosa si perda noi vogliamo onorare un passato impregnato di fatica, di miseria e di fame, senza con ciò mistificare in una vuota sublimazione in chiave folklorica, una dura realtà, che spesso, troppo spesso, fu di volgare sfruttamento e di brucianti umiliazioni.
Il matrimonio nel difficile mondo contadino, fatto spesso di disuguaglianze e contesti sociali difficili era un ideale, un obiettivo molto sentito. Sposarsi significava raggiungere l’autonomia dell’adulto, uomo o donna che fosse, e sottrarsi alla volontà spesso dispotica, ma non cattiva, del genitore.
La scelta matrimoniale era però sempre fatta dalla madre: non erano tanto i motivi economici a determinarla, quanto piuttosto quelli sociali e psicologici. I maschi, ingenui ed abbruttiti dal lavoro, tenuti lontano dalle ragazze, non avevano molte occasioni per incontrarle.
Le ragazze, d’altra parte, erano guardate a vista e non potevano in alcun modo suscitare l’attenzione dei giovani. Nel segreto delle case esse preparavano i corredi ed immaginavano il loro futuro.
Ma la scelta vera e propria era fatta dalla madre del ragazzo o da donne adulte della sua famiglia. Queste raccoglievano le voci dei vicinati su ragazze che potevano costituire un partito conveniente ed una volta fatta la scelta comunicavano al giovane la necessità che si sposasse: Ta spsè, ti devi sposare.
La diversità di classe sociale poi, era fortemente radicata e sentita.
Tentori racconta un episodio avvenuto nel 1951: “ad una festa da ballo in una grotta dei Sassi, un giovane artigiano, ballando, pestò il piede ad una ragazza di famiglia contadina. Nella simbologia amorosa di allora pestare il piede ad un giovane di sesso diverso significava comunicare il desiderio di matrimonio.
L’artigiano, scherzando, disse alla giovane : “Bè, vuol dire che ti sposerò …”, ma l’altra senza esitazione: “Non posso: tu sei un artiere! (artigiano)”.
Il giorno prima delle nozze, carta alla mano, i parenti controllavano la consistenza ed il valore della dote. Frequenti erano le liti o addirittura le rotture dei matrimoni. La sposa, oltre alla biancheria personale ed ai vestiti, portava le lenzuola, le coperte, i materassi ed una cassapanca: lo sposo, la biancheria e qualche mobilio, gli attrezzi da lavoro, le sementi o l’affitto di un campo di grano per un anno.
Sino all’inizio del novecento le famiglie dei due promessi sposi, prima di farli giungere al matrimonio, stipulavano per iscritto i “capitoli matrimoniali”, chiamata “Cart Scrutt” che sostanzialmente forniva, sicurezza della dote, del dotante, degli sposi, e dei figli che da quello dovevano generarsi.
Con questo antico rito, risalente al diritto longobardo, le famiglie degli sposi promettevano e quantificavano la dote, che era costituita da terreni, mobili animali e vestiti o da denaro contante.
Ovviamente il tutto sarà condito e portato in scena con le immancabili discussioni sulla “dote”, i pettegolezzi, le maldicenze, le insinuazioni, la scelta del “compare e della comare”, un lungo ed accidentato percorso fino alle nozze con l’immancabile festino.
Nella commedia molto ricercati sono altresì i riferimenti a credenze, superstizioni e riti che facevano parte anch’essi della cultura della civiltà contadina: troveranno spazio sul palco “le prefiche”, “u munacidd” e i riti contro le “fascinazioni”.
Le “prefiche”, come vengono definite in italiano, erano delle donne che, vestite con abiti scuri e coperte in viso con un velo nero, si recavano presso la dimora in cui giaceva il defunto e, stringendosi intorno al feretro, avevano il triste compito di compiangerlo e di decantarne le virtù. Ciò avveniva attraverso il pianto “cantato” spesso con l’innalzamento dei toni all’arrivo di un amico.
“U munacidd” secondo la tradizione orale, apparterrebbero a questa categoria tutti i bambini morti non battezzati che non vanno, perciò in Paradiso. “U munacidd” si presenta durante la notte, quando una persona dorme in posizione supina od è molto spossata. La persona interessata avverte un forte peso sullo stomaco ed è in preda agli incubi, sino al mattino seguente. Se la persona riesce ad acchiappare “u cuppulin” del “munacidd” il giorno successivo troverà una manciata di soldi sotto il cuscino.
Nei riti delle “fascinazioni” una donna, immersa in una sorta di trance, pronunciava una formula unendo per tre volte la mano sulla fronte del paziente, quasi sempre una donna, e per tre volte sul cuore. L’atto consisteva nel trasferire la fascinazione su di sé, svolgendo la funzione terapeutica di assorbimento della malìa e di liberazione del paziente. La fattucchiera o rimediante sbadigliava e lacrimava, tentando di percepire chi fosse il responsabile della magia.
Protagonista di una vita “rassicurata” dalle tradizioni ma anche monocorde e ripetitiva, il cafone materano crede nel “malocchio”, che diventa una sorta di difesa elementare. Provocato dalla cattiveria e dall’invidia degli altri il malocchio è in realtà la proiezione della propria chiusura d’animo, della propria personale diffidenza.
Due famiglie di contadini sono i protagonisti di questo scoppiettante allestimento teatrale. L’ambientazione è quella di una Matera, dove in questo tipo di festa erano tutti coinvolti: c’era chi si occupava del banchetto, mentre altri cucivano l’abito della sposa oppure organizzavano il ballo sull’aia. Un appuntamento particolare che ha anche il pregio di mantenere vivo il legame con il passato, particolarmente curato dal punto di vista storico.
E per rendere omaggio al famoso medico, scrittore e pittore che fu confinato ad Aliano, tra il 1935 e il 1936, e che prese infatti ai primi gruppi di resistenza contro il fascismo, Carlo Levi farà una breve apparizione sul palco del teatro Duni.