Giovanni Caserta ha recensito di “Miscellanea leviana. Il “Cristo”, Aliano e la Lucania, Napoli”, Giannini editore, ultimo libro di Angelo Colangelo, attento lettore e studioso di Carlo Levi. Di seguito la nota integrale.
Carlo Levi è autore d grande successo, tanto da essere considerato il più grande scrittore del secondo Novecento italiano. Però, come sempre succede per i grandi autori, soprattutto se portatori di una ideologia e di un messaggio, a lui ci si accosta o per ripetere cose già dette da molti altri, soprattutto se celebri,o per trovare conforto aduna propria idea. Pochi rileggono Cristo si è fermato a Eboli più e più volte, per cimentarsi in personali valutazioni e interpretazioni, partendo dall’interno del testo. Una scelta di questo genere richiede coraggio e umiltà. Sono pochi quelli che lo fanno; ma si deve a questo genere di lettori se si riesce a scoprire ogni giorno qualcosa di più e di nuovo. E’discorso che si può tranquillamente estendere allo Scotellaro, celebrato quest’anno nel centesimo anniversario dalla nascita. Si sentono tanti discorsi intorno a Scotellaro, ma non su Scotellaro.
Diverso è l’atteggiamento di Angelo Colangelo, che continua a rileggere il Cristo si è fermato a Eboli di Levi,avendo un doppio intento. Il primo è quello di vedere perché un libro, che nasce come saggio, diventa un libro di poesia; il secondo intento è quello di vedere come sia avvenuto il passaggio dal saggio alla poesia. Per raggiunger i due obiettivi, Colangelo, quasi di passaggio, come devono fare i professori, ha bisogno di attingere al nucleo centrale del pensiero di Levi e al suo concetto di arte, o poetica. Gli basta ricordare, nell’ultimo capitolo, dedicato a Paura della libertà, che, per Levi, nessun uomo ha il diritto di tacere e assentarsi; quanto all’arte, in coerenza con tale pensiero, Levi ritiene che compito dell’arte è la “invenzione” della verità, cioè lo scavo, la ricerca e l’individuazione del senso ultimo e profondo delle cose. Che, in verità, non è concetto nuovo, a partire dal lontano Aristotele, fino ad arrivare a Vico, Schelling, De Sanctis, Croce, Bergson, cui, in particolare, si ispira Levi. E’ inutile dire che, se una teoriaper così lungo tempo resiste, vuol dire che coglie il giusto.
Forte di queste due assunzioni, Colangelo, legge e rilegge Levi, trasferendosi in lui e indossando i suoi occhiali; quindi si dà a “svelare” (nel senso etimologico) le pieghe diffuse e sottili per cui passa l’osservazione attentadi un uomoquale Levi, che non si accontenta della superfice delle cose, ma le “attraversa” anche quando si tratta delle più umili o apparentemente insignificanti.
Il volume è giustamente definito Miscellanea leviana, perché raccoglie diciannove interventi, anche brevi, persino brevissimi, scritti in momenti diversi. Formano come tante tessere di un mosaico. Può anche definirsi un “volume prismatico”, secondo una definizione che Colangelo dà del Cristo si è fermato a Eboli. Senza negare qualche limite o forzatura da parte di Levi che, pittore, spesso si lascia andare a colori forti e passaggi di gusto barocco, Colangelo esamina diligentemente, come visti da Levi, il paesaggio, le donne, gli uomini, i ragazzi, le feste, le tradizioni, la storia, i costumi di Aliano e dei suoi abitanti. Nel racconto, Aliano diventa Gagliano, con un ”travestimento” che tocca tutti gli aspetti della vita del paese. In realtà si tratta di quel processo di “trasfigurazione”che è condizione per passaredalla cronaca al mito, dalla realtà alla poesia. Nel cogliere il senso profondo delle cose, infatti, è la forza di un libro, anche se la trasfigurazione diventa, agli occhi di qualche rozzo lettore,“deformazione”.
I medici di Aliano non erano “medicaciucci” per destino o per natura, anchese così qualcuno li chiamava. Levi non è crudele. Finisce anche col fornire una spiegazione, dando per scontato che essi, a suo tempo, magari avevano fatto buoni studi e avevano acquisito un buona cultura medica. Nel tempo, però, calati in un paese povero di stimoli e di contatti col mondo della scienza, chiusi tra le meschinità di una piccola comunità, la loro mente si è oscurata, lasciando, della cultura medica, solo qualche frammento o relitto. A lui, scrittore, pittore, ideologo, tocca il compito di esasperare tale condizione, allo scopo di raggiungere il suo obiettivo di denunzia di una condizione subumana. Luigi Garambone, per fare un altro esempio, era un povero maestro elementare, arrivato all’insegnamento di ruolo attraverso le traversie delle supplenze in posti diversi. A distanza di molti anni, alcuni ne parlano ancora bene. Finalmente di ruolo, figura di nuovo intellettuale di paese, egli si ebbe l’incarico di Podestà, accompagnato dal “don”. Finì col caricare il suo ruolo di molto orgoglio, autorità, presunzione di sé stesso. Diventava il megalomane Magalone, prodotto di un ridicolo fascismo, che il confinato scrittore voleva mettere in evidenza..
E’ per questa via che Colangelo risponde ai nemici di Levi, alcuni dei quali si vantano di non averlo nemmeno letto, perché offensivo nei confronti dei lucani e della Lucania.Levi racconterebbe il falso, fino alla spietatezza. Storia vecchia. Non hanno capito, costoro, che, se Manzoni, cattolico, fu “cattivo” con don Abbondio e col Padre provinciale,fu perché aveva bisogno di simboli. A saper leggere, come fa Colangelo, ci si accorgerebbe che, se contadini e luigini, contadini e galantuomini, sono presentati in modo deformante e deformato, è anche vero che su di loro l’autore stende un velo di pietosa comprensione, perché,sia gli uni che gli altri, egli vede come il frutto di una civiltà che non è arrivata, o, per usareun linguaggio figurato, solo perché Cristo si è fermato a Eboli.
Una volta ci fu chi accusò Levi di aver avuto il torto di presentare il mondo di Aliano, e quindi dei Lucani, come immobile. E lì voleva lasciarlo. La risposta di Levi fu che, se aveva presentato quel mondo come immobile, era perché voleva che si muovesse. Le deformazioni, insomma, fino, talvolta, alla caricatura, è il mezzo per suscitare nel lettore il desiderio di “vendicare” quel mondo di”umiliati e offesi”. Qui è la forza del libro. Si spiega perché, nel dibattito sulla questione meridionale, tranne gli studiosi, nessuno più si rivolge ai meridionalisti classici; il Cristo si è fermato a Eboli, invece, non lo leggono in tanti solo in Italia, ma è il libro italiano forse più tradotto all’estero, compreso il giapponese. La ragione è nel fatto che, come in tutti i libri d’arte,si finisce sempre col trovare qualcosa sotto la scorza. Si legge ancora l’Iliade e si legge l’Eneide. Colangelo lo dimostra, perché, sulle orme di Levi e del suo modo di rappresentare la realtà, egli stesso scava, si aggira, avvolgendo il lettore in un appassionato e appassionante labirinto.Mettendosi a tu per tu con lui, collocandosi cordialmente sul suo stesso piano, si lascia andare ad linguaggio conversevole, garbato, libero. Se qualcuno dovesse dire che il suo libro è esso stesso un racconto, non direbbe cosa errata. Seguendo i meandri della scrittura leviana, Colangelo finisce col creare quello che, oggi,si direbbe un “percorso”.