L’autrice lucana Francesca Iacovino in una nota esprime alcune considerazioni personali sull’emergenza Coronavirus. Di seguito la nota integrale.
“Costruisci Italia, perché morire è anche rinascere”
È mattina. Il tepore del mio letto, la luce filtra dalla finestra, timidamente. Mi tiro giù. Il pavimento è freddo. Non ho voglia di far nulla. Il silenzio sovrasta pesante, assoluto, padrone.
Metto su la moka, un primo lievecalore si spande nella mia cucina, un aroma quotidiano e familiare, con il suo tepore allenta le membra irrigidite e corre giù. Fuori piove, incessante cade la pioggia, poso la mia mano sul vetro, freddo, scendono gocce trasparenti e singhiozzanti, per strada nessuno.
Spettrale. Gli alberi ondeggiano solitari, eppure chissà quante volte questi stessi alberi sono stati testimoni di momenti infausti. Quanti pensieri, si sono incollati alle loro foglie svolazzanti, quante timide lacrime avranno custodito.
Solo uccelli e qualche gatto che gironzola lungo i vialetti, i rifiuti rotolano sotto il vento e la pioggia, si spostano e corrono lungo le strade deserte. Il mondo aveva bisogno di ripensarsi forse. Fermo. Immobile, come la pausa di un pianoforte, anch’essa è musica.
Lascio cadere tutto sul pavimento, mi prendo il tempo di una doccia. Il tempo. Il tempo, un concetto più che mai astratto, ora. Nel tempo abbiamo dimostrato di saper raccontare, plasmare e razionalizzare, le tempeste passate. Questa è una tempesta interiore, sottile, lacerante, nemico immateriale che disintegra la materia, il corpo.
Giorni in cui la sofferenza ha prevalso sulla gioia. Per tanti. Troppi.
Cosi arenati nel nostro tempo, sentiamo l’acqua salata lacerarci il viso, percossi,agitati, perdiamo l’equilibrio, il riferimento, la certezza. E cosi la notte, sembra ancora più buia.Pesta, disarmante come un orizzonte che si perde, al largo, sconfinato, senza distinzione tra cielo e mare, indefinito,di coltre soffocante. Non una stella, un bagliore, un fulgore lontano.
Chiudo gli occhi, manca l’aria. Sarà cosi il preludio alla morte. L’acqua scorre, scivola, inarrestabile, quasi fosse tempo, sulla mia pelle. Si perde, roteando nello scarico. Scompare.
Tutto ci ridimensiona. Ci umanizza. Ci riporta alla corporalità, alla limitatezza. Umanizzare se stessi, roteare attorno alla propria dimensione corporale e spirituale, porre al centro l’uomo e i suoi limiti. Sentirsi eredi di un passato, il nostro. Un passato che ereditiamo, siamo eredi di umanisti e letterati, poeti e navigatori.. e di tante vite che hanno attraversato i nostri cieli, disseminati di stelle. La tempesta non appar cosi buia, l’immenso non più opprimente.
Ridimensioniamo il nostro spirito, sentiamoci parte del tutto, necessari, non indispensabili. Siamo atomi connessi, ma senza la solitudine non c’è pensiero, costruzione. Come l’acqua che scava lenta, inesorabile, costante, solchiamo le nostre vite, miglioriamoci. Arriverà un primo timido riflesso, un bagliore, un dolce vento che ammansirà l’indomabile tempesta.
Scivolo fuori, un accappatoio, caffelatte, un caldo sottile corre lungo la schiena. Esisto nelle mie carni, nella mia mente, nelle sensazioni che mi dà ciò che mi circonda, e chissà forse credo anche in un Dio, ma magari non in uno soltanto. Nella mia indiscutibile limitatezza e forza.
Costruisci Italia, perché morire è anche rinascere.