L’autrice lucana Maddalena Bonelli presenta in anteprima su SassiLive il libro “Ciro nella grotta dei pipistrelli”, di prossima uscita. Il libro, una biografia dei sentimenti, parla di su figlio Francesco, che il 18 giugno di 21 anni fa, perse la vita a seguito di un incidente in via Collodi.
Di seguito la nota integrale.
Tre mesi di paura o terrore, tre mesi di dolore e solitudine, una Pasqua di amarezza in cui la speranza, fiore tenace, è stata deposta ai piedi del Cristo sofferente nei sepolcri di grano pallido inondato di lacrime, e infine un germoglio di rinascita come folgore ha inondato il paese.
I bar riaprono, i negozi espongono mercanzie; musei, teatri e librerie, invitano alla bellezza e alla cultura e i ragazzi, con l’incoscienza della giovinezza, sciamano per le strade riabitando città e paesi, riconquistando spiagge e montagne.
Ma prima prendiamoci un po’ di tempo per piangere i morti.
Dopo settimane di dolore senza spazio per esprimersi, è tempo di piangere:per i nonni che ci hanno abbandonati, stolto chi ripete “tanto erano vecchi”, non sa che la loro voce cresce nelle viscere e produce frutti insostituibili; peri nipotini privati di carezze nodose come gli ulivi, e della saggezza antica; per i genitori che avevano ancora così tanto da dare e lasciano un vuoto incolmabile;è tempo di piangere per la vita dei più giovani, pochi per fortuna, che il coronavirus ha aggredito con ferocia; ed è tempo di piangere ancheper chi si allea con il coronavirus per distruggere la civiltà, e per chi, paralizzato dal terrore, ancora teme di uscire nel sole.
E’ tempo di piangere perché le lacrime aiutano a ritrovare la nostra essenza e a elaborare il lutto.
E voglio farlo in giugno, mese di lutto per me e la mia famiglia che il 23 giugno di 21 anni fa ha detto addio a Francesco, il mio dolce e straordinario primogenito, vittima di un incidente di moto il 18 giugno 1999.
Lo piango doppiamente perché la sua morte non ha avuto giustizia sulla terra.
Voglio unire il mio pianto a quello dei parenti delle vittime del Covid19 e voglio farlo con un canto della tradizione orale lucana, un canto di contadine.
L’ho ascoltato due anni fa, a Palazzo Lanfranchi di Matera, dalla voce di Caterina Pontrandolfo, straordinaria cantante e attrice Lucana, da qualcuno definita la Callas della canzone popolare.
La straordinaria interpretazione iniziò con una ninna nanna dolce e vellutata per trasformarsi gradualmente in un lamento tragico e crudo: un canto d’amore che diventa strazio ancestrale come la vita e come la morte.
Un’interpretazione sconvolgente per me: è stato come assistere ad un miracolo, un miracolo di vibranti emozioni che conducono, sull’onda del suono e della voce, in caverne ancestrali, in un crogiolo di riso e pianto, di dolore e rabbia, rassegnazione e speranza,lungo i fili di memoria dell’antica e magica terra di Lucania.
Ciò che più colpisce è il ritmo incalzante dei suoni e della calda voce che evoca il silenzio e la consapevolezza di esserci, di essere lì in quel tempo e nei sassi, nell’attimo presente e nei secoli trascorsi fino al momento culminante in cui passato e presente scompaiono per divenire frazione di un unicum inafferrabile ma atrocemente presente e universale, dove sentimenti primordiali si contendono l’anima e la ragione.
Un canto per tutti ma concepito essenzialmente per le donne, per le mamme che hanno varcato la soglia del dolore senza limiti. Al culmine dello spettacolo, la tragedia è palpabile e reale, è come se si aprisse un baratro sotto i piedi per precipitarci nell’abisso da cui ogni giorno si tenta di scappare con ogni mezzo: la ninna nanna, cuore dello spettacolo, conduce quasi inaspettatamente dalla dolcezza della culla al lamento per il compimento di un destino crudele; il ritmo dolce e avvolgenteinsensibilmente si fa ritmo incalzante, sempre più incalzante, finché precipita nel cuore della tragedia. Le parole si ripetono come un mantra infinito, mentre il senso e il ritmo del canto mutano dal dolce sonno della vita all’orrore inimmaginabile, in un coinvolgimento che trascina in una trance oscura e profonda. Quando si inizia a intuire ciò che sta per accadere, e si palesa la meta finale, si è già nel cuore profondo dell’abisso, è impossibilescappare, inesorabilmente si prosegue verso il termine senza scampo, il punto d’arrivo in cui ondate di emozioni travolgono. A quel punto non èpiù possibile sottrarsi al pianto.
E il nibbio vola alto mentre il cuore sprofonda e si dibatte nel nero precipizio in cerca di salvezza. Ma è tardi, troppo tardi. Incapace di guardare quella donna sul palco che è te, che è tutte le donne, e si distrugge e dà al dolore un corpo che tutti possono vedere, che tutti possono sentire, cedi al pianto, e in questa condivisione, in questa parvenza di comprensione in cui anche agli altri, ai sani, ai fortunati, è data la possibilità di capire, di percepire appena un’ombra di ciò che grava sull’anima dei condannati, appare uno spiraglio per accedere alla rassegnazione, all’accettazione del dolore.
Caterina che canta, in quel momento è me, è tutte le donne che hanno subito una perdita, ed evoca il dolore mai interrotto, scioglie i nodi della rabbia, apre la via al pianto trattenuto, porta entro i confini dell’eterno e dell’universale il senso della perdita e del lutto più atroce.
Dormi figlio mio, dormi. Ninna nanna, ninna oooo, ninna nanna, ninna ooo … Dormi figlio mio, dormi. L’angelo al capezzale, la Madonna ai tuoi piedi, dormi figlio mio, dormi… mai l’avrei immaginato, mai lo avrei pensato… Dormi figlio, dormi, la Madonna ai tuoi piedi, l’angelo al capezzale… Ninna nanna, ninna oooo, ninna nanna, ninna ooo … Dormi figlio mio, dormi… Perché proprio tu?
Sono passati tanti anni, tanti mesi e tanti giorni, e mi manchi come fosse il primo giorno.
Perché proprio tu?
Con il lamento e il pianto di Caterina Pontrandolfo, il cuore va in pezzi e non è possibile sottrarsi dal viluppo della malia e del dolore fattosi corpo e anima, carne lacerata e sangue.
Eppure, la sublime bellezza del canto, non offende la sensibilità di chi ha varcato il fiume nero della morte del figlio per approdare sulle sponde di un limbo affollato, dove invano si tenta di capire il senso della perdita.
Riconoscersi in quel pianto, specchiarsi nel lamento del cosmo intero, aiuta a ricondurre il dolore nei limiti del tollerabile, porta per mano dalle terre della follia, allo spazio della rassegnazione.
Nel breve spazio di una ninna nanna e di un lamento funebre, tempo breve ma dilatato all’infinito dalla voce di Caterina, si consumano tutte le fasi di elaborazione del lutto: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione.
Anni di psicoterapia.
Il pianto condiviso rende più tollerabile il dolore e concepibile la rassegnazione.
Il pianto come catarsi, il pianto come via per accettare l’inaccettabile.
Precipitare nel proprio abisso personale spezza il cuore, ma dopo le ondate e ondate di dolore,riemergendo piano piano da uno stato quasi di trance, non si può fare a meno di apprezzare la sublime, terribile bellezza dei suoni e della performance di Caterina, del suo essere tutte le donne, del suo essere tutte le madri. Il suo canto dà corpo alle nostre emozioni: lei è me, è tutte noi, ètutte quelle madri che si sforzano ogni giorno di mantenere dignità e compostezza e di sorridere ancora.
Un’interpretazione dello strazio che non è paragonabile alla lamentazione delle prefiche perché tocca il cuore con la compostezza e la violenza di una tragedia greca in cui la sofferenza, libera da ogni artificiosa sovrastruttura, è cruda e autentica.
Con questo spirito e con questo canto, in cui ho ricomposto parte del mio personale dolore, invito a piangere le vittime del coronavirus, tornati alla cenere, con cortei impalpabili al seguito.
E dopo il pianto, aperti finalmente gli usci delle nostre case, si possano deporre i sepolcri di grano e fiori nei campi aperti, affinché fioriscano nuove speranze oltre la gramigna e le locuste.
I bar riaprono, i negozi espongono mercanzie; musei, teatri e librerie, invitano alla bellezza e alla cultura e i ragazzi, con l’incoscienza della giovinezza, sciamano per le strade riabitando città e paesi, riconquistando spiagge e montagne.
Ma prima prendiamoci un po’ di tempo per piangere i morti.
Dopo settimane di dolore senza spazio per esprimersi, è tempo di piangere:per i nonni che ci hanno abbandonati, stolto chi ripete “tanto erano vecchi”, non sa che la loro voce cresce nelle viscere e produce frutti insostituibili; peri nipotini privati di carezze nodose come gli ulivi, e della saggezza antica; per i genitori che avevano ancora così tanto da dare e lasciano un vuoto incolmabile;è tempo di piangere per la vita dei più giovani, pochi per fortuna, che il coronavirus ha aggredito con ferocia; ed è tempo di piangere ancheper chi si allea con il coronavirus per distruggere la civiltà, e per chi, paralizzato dal terrore, ancora teme di uscire nel sole.
E’ tempo di piangere perché le lacrime aiutano a ritrovare la nostra essenza e a elaborare il lutto.
E voglio farlo in giugno, mese di lutto per me e la mia famiglia che il 23 giugno di 21 anni fa ha detto addio a Francesco, il mio dolce e straordinario primogenito, vittima di un incidente di moto il 18 giugno 1999.
Lo piango doppiamente perché la sua morte non ha avuto giustizia sulla terra.
Voglio unire il mio pianto a quello dei parenti delle vittime del Covid19 e voglio farlo con un canto della tradizione orale lucana, un canto di contadine.
L’ho ascoltato due anni fa, a Palazzo Lanfranchi di Matera, dalla voce di Caterina Pontrandolfo, straordinaria cantante e attrice Lucana, da qualcuno definita la Callas della canzone popolare.
La straordinaria interpretazione iniziò con una ninna nanna dolce e vellutata per trasformarsi gradualmente in un lamento tragico e crudo: un canto d’amore che diventa strazio ancestrale come la vita e come la morte.
Un’interpretazione sconvolgente per me: è stato come assistere ad un miracolo, un miracolo di vibranti emozioni che conducono, sull’onda del suono e della voce, in caverne ancestrali, in un crogiolo di riso e pianto, di dolore e rabbia, rassegnazione e speranza,lungo i fili di memoria dell’antica e magica terra di Lucania.
Ciò che più colpisce è il ritmo incalzante dei suoni e della calda voce che evoca il silenzio e la consapevolezza di esserci, di essere lì in quel tempo e nei sassi, nell’attimo presente e nei secoli trascorsi fino al momento culminante in cui passato e presente scompaiono per divenire frazione di un unicum inafferrabile ma atrocemente presente e universale, dove sentimenti primordiali si contendono l’anima e la ragione.
Un canto per tutti ma concepito essenzialmente per le donne, per le mamme che hanno varcato la soglia del dolore senza limiti. Al culmine dello spettacolo, la tragedia è palpabile e reale, è come se si aprisse un baratro sotto i piedi per precipitarci nell’abisso da cui ogni giorno si tenta di scappare con ogni mezzo: la ninna nanna, cuore dello spettacolo, conduce quasi inaspettatamente dalla dolcezza della culla al lamento per il compimento di un destino crudele; il ritmo dolce e avvolgenteinsensibilmente si fa ritmo incalzante, sempre più incalzante, finché precipita nel cuore della tragedia. Le parole si ripetono come un mantra infinito, mentre il senso e il ritmo del canto mutano dal dolce sonno della vita all’orrore inimmaginabile, in un coinvolgimento che trascina in una trance oscura e profonda. Quando si inizia a intuire ciò che sta per accadere, e si palesa la meta finale, si è già nel cuore profondo dell’abisso, è impossibilescappare, inesorabilmente si prosegue verso il termine senza scampo, il punto d’arrivo in cui ondate di emozioni travolgono. A quel punto non èpiù possibile sottrarsi al pianto.
E il nibbio vola alto mentre il cuore sprofonda e si dibatte nel nero precipizio in cerca di salvezza. Ma è tardi, troppo tardi. Incapace di guardare quella donna sul palco che è te, che è tutte le donne, e si distrugge e dà al dolore un corpo che tutti possono vedere, che tutti possono sentire, cedi al pianto, e in questa condivisione, in questa parvenza di comprensione in cui anche agli altri, ai sani, ai fortunati, è data la possibilità di capire, di percepire appena un’ombra di ciò che grava sull’anima dei condannati, appare uno spiraglio per accedere alla rassegnazione, all’accettazione del dolore.
Caterina che canta, in quel momento è me, è tutte le donne che hanno subito una perdita, ed evoca il dolore mai interrotto, scioglie i nodi della rabbia, apre la via al pianto trattenuto, porta entro i confini dell’eterno e dell’universale il senso della perdita e del lutto più atroce.
Dormi figlio mio, dormi. Ninna nanna, ninna oooo, ninna nanna, ninna ooo … Dormi figlio mio, dormi. L’angelo al capezzale, la Madonna ai tuoi piedi, dormi figlio mio, dormi… mai l’avrei immaginato, mai lo avrei pensato… Dormi figlio, dormi, la Madonna ai tuoi piedi, l’angelo al capezzale… Ninna nanna, ninna oooo, ninna nanna, ninna ooo … Dormi figlio mio, dormi… Perché proprio tu?
Sono passati tanti anni, tanti mesi e tanti giorni, e mi manchi come fosse il primo giorno.
Perché proprio tu?
Con il lamento e il pianto di Caterina Pontrandolfo, il cuore va in pezzi e non è possibile sottrarsi dal viluppo della malia e del dolore fattosi corpo e anima, carne lacerata e sangue.
Eppure, la sublime bellezza del canto, non offende la sensibilità di chi ha varcato il fiume nero della morte del figlio per approdare sulle sponde di un limbo affollato, dove invano si tenta di capire il senso della perdita.
Riconoscersi in quel pianto, specchiarsi nel lamento del cosmo intero, aiuta a ricondurre il dolore nei limiti del tollerabile, porta per mano dalle terre della follia, allo spazio della rassegnazione.
Nel breve spazio di una ninna nanna e di un lamento funebre, tempo breve ma dilatato all’infinito dalla voce di Caterina, si consumano tutte le fasi di elaborazione del lutto: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione.
Anni di psicoterapia.
Il pianto condiviso rende più tollerabile il dolore e concepibile la rassegnazione.
Il pianto come catarsi, il pianto come via per accettare l’inaccettabile.
Precipitare nel proprio abisso personale spezza il cuore, ma dopo le ondate e ondate di dolore,riemergendo piano piano da uno stato quasi di trance, non si può fare a meno di apprezzare la sublime, terribile bellezza dei suoni e della performance di Caterina, del suo essere tutte le donne, del suo essere tutte le madri. Il suo canto dà corpo alle nostre emozioni: lei è me, è tutte noi, ètutte quelle madri che si sforzano ogni giorno di mantenere dignità e compostezza e di sorridere ancora.
Un’interpretazione dello strazio che non è paragonabile alla lamentazione delle prefiche perché tocca il cuore con la compostezza e la violenza di una tragedia greca in cui la sofferenza, libera da ogni artificiosa sovrastruttura, è cruda e autentica.
Con questo spirito e con questo canto, in cui ho ricomposto parte del mio personale dolore, invito a piangere le vittime del coronavirus, tornati alla cenere, con cortei impalpabili al seguito.
E dopo il pianto, aperti finalmente gli usci delle nostre case, si possano deporre i sepolcri di grano e fiori nei campi aperti, affinché fioriscano nuove speranze oltre la gramigna e le locuste.
Parole tratte da “Lamento di una madre” cantato da Caterina Pontrandolfo.