Presentato sabato scorso nel salone del Palazzo ducale di Tricarico libro di “Il fanciullo dell’estate. Le vacanze estive alla masseria”, prefazione di Carmela Biscaglia (Matera, Edizioni Giannatelli, 2021). L’iniziativa stata è promossa dal Ministero della Cultura, Direzione generale musei, Direzione regionale musei della Basilicata, Museo di Palazzo ducale di Tricarico, con il patrocinio del Comune di Tricarico, del FAI – Delegazione di Tricarico e della Lucania interna, e della locale Pro Loco. La serata è stata introdotta e coordinata da Maria Antonietta Carbone, direttrice del Museo di Palazzo ducale mentre la presentazione del volume è affidata a Carmela Biscaglia, deputato della Deputazione di storia patria per la Lucania – Istituto per gli studi storici dall’antichità all’età contemporanea e allo storico e al critico letterario materano Giovanni Caserta, che ha prodotto una recensione sul volume. Di seguito il testo integrale della recensione e la copertina del volume.
Gli tagliarono i capelli “alla Umberto”. Era il 1952 e la famiglia Monaco, una famiglia nobile di Tricarico, era in procinto di spostarsi dal paese verso la masseria, che aveva il curioso nome di Canaldente. Don Cesarino Monaco, oggi medico ospedaliero in pensione, aveva allora dodici anni e aveva compiuto il ciclo delle scuole elementari.Doveva, come negli anni precedenti, prepararsi a passare l’estate in campagna, arespirare l’aria salutare dei campi. Almeno così si diceva e si credeva. Erano le vacanze di quegli anni, riservate alle famiglie di buon rango sociale. Se non era la masseria, era il “casino”, di cui, anche a Matera, ogni famiglia di nobil rango disponeva alla periferia della città. Le vacanze cominciavano alla fine di giugno, quando i ragazzi lasciavano la scuola; si chiudevano ad ottobre, quando le scuole riaprivano.
La masseria, il cui nome deriva da “massa”, cioè la verghiana “roba” o proprietà, era come un piccolo borgo o villaggio di campagna, con una sua capillare organizzazione. A modo suo era una fabbrica. C’era il massaro delle pecore e quello delle vacche, quello della vigna e la massara delle femmine… Alcune famiglie di foresi vi risiedevano stabilmente.Firmavano il contratto al Ferragosto di ogni anno. I loro ragazzi generalmente non andavano a scuola. A loro si penserà, scolasticamente, solo alla fine della guerra, utilizzando maestri o maestre non di ruolo, che vi si recavano ad organizzare scuole rurali o sussidiate, per cui venivano miseramente pagati, nientemeno che sulla base degli alunni promossi al momento degli esami!In verità, queste scuole le si organizzava solo per godere, a fine anno, di un punteggio utile per salire in graduatoria e, un domani, vincere il concorso.Si era negli anni 1948…1955/56.
La masseria spesso era fortificata; a sera si chiudeva il massiccio portone. C’era, spesso, anche a una chiesetta, per la quale, la domenica mattina, passava il mitico curato di campagna,a dir messa e far la predica di circostanza. Se ne andava, come fra Galdino, portandosi qualche derrata nella bisaccia. Con prodotti naturali era anche ripagato il barbiere che, quel giorno, aveva tosato la testa di don Cesarino. L’aveva tosato alla Umberto, in omaggio a re Umberto, che, a cranio ben rasato, portava solo un ciuffettino corto al centro della fronte. Per radere don Cesarino in quel modo, si usava la macchinetta buona per tosare le pecore. Era una rasatura consigliata.In campagna, l’acqua bisognava prenderla dal pozzo.E non esisteva lo shampoo. Adibito a prendere l’acqua dal pozzo,o ad altri servi umili, era lo “scemo della masseria”, spesso presente in ogni masseria.Era un ragazzo, e poi giovane,con qualche deficit mentale, che i genitori affidavano alle masserie. Era un modo di sistemare ragazzi in difficoltà, in tempi di assoluta noncuranza della società nei loro confronti. Per i genitori, rassegnati, erano solo una disgrazia.Il taglio “alla Umberto”, peraltro, preveniva o curava o alleggeriva la diffusa presenza dipidocchi.
La famiglia del padrone aveva un posto nelle stanze del piano rialzato, erette sopra le stalle e le casupole dei foresi. La famiglia Monaco disponeva di una abitazione con terrazza. La masseria Canaldente aveva anche il privilegio di essere immersa in una chiazza di verde,insolita nelle campagne lucane e pugliesi. Con intelligente canalizzazione di una sorgente, si riusciva ad avere anche l’acqua corrente, da usare, comunque, con parsimonia.
Quel 1952 era un anno cruciale per don Cesarino. Compiuto il ciclo della scuole elementari, bisognava prepararsi alla frequenza degli studi medi e superiori. Con assenza di scuola media in Tricarico, come tutti i ragazzi del suo ceto (raramente quelli del ceto inferiore), doveva prepararsi a lasciare il paese, la famiglia, l’infanzia, dando una svolta decisa e recisa alla sua vita. Fu così che don Cesarino partì e diventò il dott. Cesare Monaco, medico ospedaliero.
Erano passati quasi cinquant’anni quando, un giorno,quasi per caso, il dott. Cesare si trovò alla ricerca del tempo perduto, che si dice perduto e tale non è. Esso è con noi sempre, parte integrante, e anzi fondamentale del nostro essere. Con linguaggio poetico, il dott. Cesare dice che quel giorno gli capitò di mettersi alla ricerca del fanciullino pascoliano. Era solo, nella masseria, tra molti oggetti di un tempo, abbandonati. Lontano girava la mietitrebbia, che mieteva e trebbiava nello stesso tempo, riducendo a pochi giorni i lavori che una volta duravano almeno due mesi, tra mietitura, “carradura” e trebbiatura con muli o buoi.
Ma l’anno 1952 fu anche l’anno di una grande svolta nelle campagne meridionali. Stava per arrivarela mietitrebbia. C’era già la macchina della mietitura, trainata da due buoi, lenti ma pazienti e costanti come il bove di Carducci. Bisognava sollecitarli col pungitore, un bastone con la punta aguzza di ferro. E c’era già la trebbia, che,agli occhi di don Cesarino. apparve come un “Mostro Rosso”. Ingoiava e tritava centinaia e centinaia di covoni nel giro di pochi giorni, quando, col sistema di una volta, ci volevano più settimane. L’arrivo della trebbia era un evento grandioso per don Cesarino; ma lo era anche per tutti, compresi la famiglia Monacoe i foresi tutti. Era il momento in cui si raccoglieva il frutto di un intero anno.
Il dottor Cesare carezzò il sedile della mietitrice, ormai inservibile, nonché gli attrezzi di lavoro di una volta, adoperati dal padre. Lentamente nel torpore del momento, i pensieri si aggiunsero ai pensieri, come adun paziente sul letto di Freud o di Jung. Nell’afrore del caldo, che annebbiava la vista,prese a configurarsi il don Cesarino di dodici anni, cinquant’anni prima. Cominciò il flusso del pensiero libero, che, come sullo schermo di un cinematografo, si andava configurando in mille immagini. Era un clima di festa quell’anno, grazie alMostro Rosso sferragliante. Intorno si muoveva una folla di addetti, ognuno con un compito preciso. C’era chi “imboccava” i covoni, attento a non finire con le mani nel congegno delle ruote dentate. Era successo tante volte. C’era chi buttava giù i covoni dalla meta o bica; altri raccoglieva e ammonticchiava la paglia,da servire nell’inverno alle greggi e alle mandrie. C’era anche chi passava la cuccuma fresca di Grottole, a dissetare, l’uno dopo l’altro, gliassetati lavoratori. Si beveva pulendo col gomito la bocca della cuccuma. Su tutti, però, superbo e autoritario, si muoveva il meccanico, figura nuova e di gran rispetto in quelle prime apparizioni, arrivato come un dio dall’alto. Lui conosceva tutti i segreti del Mostro. Intanto le donne, cosa eccezionale, al posto della solita cialledda, preparavano il sugo con pasta, questa volta non fatta in casa, ma comperata. Gran lusso, segno di omaggio ai tempi nuovi che stavano assediando la masseria e tutta la campagna dell’epoca, preparando, senza immaginarlo,un tragico sfollamento e, purtroppo, la desertificazione dei paesi.
A mezzogiorno, seduti su sgabelli a tre piedi o chiancodde, quasi accovacciati intorno ad un largo tavolato grezzo, ci si nutriva finalmente di pasta al sugo, con un pezzi di agnello al vertice.Di tanto in tanto subentrava il rito del passaggio del fiasco di vino, bevuto, dai più bravi e anziani,“a garganella”. Era, insomma, una grande festa, cui non mancava la trepidazione per un eventuale incendio o pioggia improvvisa, che, bagnando i covoni, ne avrebbe ritardato la trebbiatura. Tutto si concludeva con un gran ballo sulla terrazza. Il mattino dopo, il Mostro Rosso era partito per altre aie in attesa.
Il deserto calò sulla masseria; le giornate si fecero più corte; don Cesarino partì colpianto in gola per Napoli, ad abbeverarsi ancora di umanità nel collegio dei Barnabiti. Il fanciullino era con lui, dentro di lui, silente. Quando, cinquant’anni dopo, si svegliò, nacque un libro.Si intitolò Il ragazzo dell’estate. Le vacanze estive alla masseria, Matera, Giannatelli, 2021. Quel fanciullino sembrava perduto e invece era stato sempre vivo con i suoi valori di fiducia nel lavoro, nello studio, nella famiglia dalle larghe maglie, patriarcale, in cui si leggeva che esisteva un’altra famiglia più grande, quella dell’umanità, soprattutto sofferente. Don Cesarino aveva generato il dott. Cesare, medico operante nelle strutture pubbliche, con nella mente versi di poeti, da Carducci a Pascoli, da Leopardi a Scotellaro, a Sinisgalli. Il Mostro Rosso, come il trattore nel bel romanzo di Domenico Riccardi (L’ultima estate a Mazzapede. La malannata, 2004),aveva cancellato il modo di lavorare e di operare del vecchio mondo contadino, ma non i suoi valori. Essi sono lì, vivi ed eterni. Si dicono “contadini”, ma sono di tutti gli uomini e, in primis, del fanciullino. Hanno bisogno di nonni che, ricordando i propri padri, li tramandino ai nipoti e li scrivano. Come ha fatto lui, dott. Cesare Monaco, a futura memoria e non semplice ricordo, dedicando il romanzo “ai suoi genitori Giulia e Mario / e alle zie Gaetana e Manuela / per avergli donato un’infanzia felice. //Ai figli Giulia e Mario (come i nonni), acché siano linfa vitale per le loro radici” E ammonisce: “Mi raccomando. Sappiate ascoltare il fanciullino”.