Cos’era Avigliano nei secoli scorsi? Cos’è Avigliano oggi? Esiste – come dicono alcuni – una “nazione aviglianese”? A queste domande tenta una risposta Giovanni Caserta con la recensione al volume di Franco Sabia, già direttore della Biblioteca Nazionale di Potenza dal titolo “I racconti della sera: la fontana, la luna e altre storie” Caliceditori, 2020.
“In terra aviglianese, dalla masseria, una fontana racconta” di Giovanni Caserta
Avigliano, per tutto il Settecento e la prima metà dell’Ottocento, oscurò la città di Potenza. Con Melfi e Matera fu la città più popolosa della Lucania Basilicata. Quando Giuseppe Bonaparte stabilì, nel 1809, di istituire un Real Collegio in regione, fu scelta la “terra” di Avigliano, anche se, nel 1816, l’istituto veniva già trasferito a Potenza, diventata, nel frattempo, capoluogo di regione.
Scuola laica, il Real Collegio corrispondeva al Liceo dei nostri tempi. Di là si partiva per Napoli, per frequentare l’Università. Se ne può capire l’importanza. Né mancava una cultura aviglianese autoctona, anzi della cosiddetta “nazione aviglianese”, la cui esistenza è un particolare modo di parlare, di scrivere, di lavorare, di atteggiarsi… Recentemente scomparso, lo scrittore aviglianese Vito Fiorellini, emigrato a Milano e lì sepolto, ha lasciato un libro di interessante valore. Ha titolo L’ultimo dei Cusci. Non sono mancati artisti aviglianesi, che fanno degna di interesse, per esempio, la pittura lucana. Si pensi a Vincenzo e Remigio Claps. Di Avigliano fu Silvio Spaventa Filippi, il fondatore del “Corriere dei piccoli”; illustre giurista e politico fu Emanuele Gianturco.
Alla storia di Avigliano ha dedicato molta attenzione Gennaro Claps, maestro elementare, anche lui scomparso da poco; ad Avigliano, ancora in anni recenti, un grosso volume ha dedicato anche Franco Sabia, intelligente ricercatore, solerte quanto umile di carattere, per molti anni direttore della Biblioteca Nazionale di Potenza, da lui portata a gran prestigio. Si intende dire del vasto saggio Come nasce una nazione. Gli Aviglianesi. Storia di una colonizzazione interna, uscito nel 2016.
Nato nella campagna di Avigliano, a Paoladoce, uno dei tanti borghi agricoli isolati nel difficile paesaggio aviglianese – in cui le strade, la luce elettrica, l’acqua corrente, la rete fognaria sono arrivate con notevole ritardo, e solo a partire dall’inizio degli 1950 – l’esperienza di vita di Franco è stata quella di una ragazzo di campagna, anzi di masseria, che ha dovuto guadagnarsi la vita – e la lingua italiana – con i denti. E’ uno dei tanti maestri elementari strappati ai campi, anzi alla zappa, grazie all’Istituto Magistrale, “Liceo dei poveri”. Insegnante elementare per alcuni anni anche da laureato, ha fatto poi la scelta della direzione della Biblioteca Nazionale di Potenza, di fresca istituzione. Ma il mondo della masseria gli si è radicato dentro, con dolore e con pietà per uomini e donne che vi vivono, vi lavorano, arrancano tra pioggia, neve e boschi, definiti “un pugno di umanità”, che, tra mille disagi, ha cercato “dignità e diritto alla felicità”. Soprattutto ha voluto rivolgere attenzione ai tanti bambini persisi dietro i lavori di campagna e il pascolo delle pecore, che non hanno avuto la possibilità di riscatto che lui, Franco, ha avuto.
L’attività di Franco scrittore è stata, per una vita, quella di saggista, tra storia e cultura e mondo sociale lucano, soprattutto aviglianese. L’ultimo suo impegnativo lavoro, che aveva tutto l’aria di essere una “summa”, è il citato Come nasce una nazione. Gli Aviglianesi. Storia di una colonizzazione interna, uscito nel 2016. Ora, per rappresentare il mondo della masseria, ha voluto usare un’altra via, più facile per il lettore, più difficile per lo scrittore. Ha dichiarato di aver voluto tentare una “prova letteraria”, trasformare, cioè, la forma del saggio in quella del racconto, che è un guardare il mondo dal di dentro. La voce narrante, infatti, è individuata nella fontana che, costruita nel colmo degli anni Trenta, precisamente nel 1934, raccoglie l’acqua di una naturale sorgente, verso di essa artigianalmente convogliata. Stando in piazza, la fontana vede, ascolta, registra, e ora riferisce. Sono così natiI racconti della sera: la fontana, la luna e altre storie, Caliceditori, 2020
Il volume consta di dieci racconti. Il numero dieci, che riteniamo fortemente voluto da Franco Sabia, è cifra tonda, completa. Piaceva a Pitagora. Dà il senso del concluso, del ciclo, della vita che, nelle aspirazioni degli uomini e nella realtà esistenziale, si ripete. Accade però che, nelle vicende reali della vita, c’è chi realizza i suoi sogni e chi li vede fuggire via, se non cadere per strada. Gli abitanti della masseria sono povere creature che, in prevalenza, vedono chiudersi la vita così come è cominciata: nella povertà e nel disagio.
Il tempo dei racconti è collocabile alla fine degli anni 1950. Viene voglia, anzi, di azzardare un anno, il 1958, ricavabile da uno dei racconti, l’ultimo, dedicato ad una maestra della masseria, cioè di campagna. Si è nel momento in cui è cominciata la ricostruzione postbellica che, nella campagna e nel Sud, ha appena il tempo di avviarsi. Si è ai primi anni della Repubblica, quando la democrazia e la civiltà, lentamente, si affacciano anche nelle plaghe meridionali, tra vaste speranze. E’ un momento del passato che, nel caso della scuola di Paoladoce – questo è il luogo della masseria di Franco Sabia – è simbolicamente rappresentato dall’abbandono dell’aula scolastica, l’unica esistente per raccogliere tutti gli alunni delle cinque classi, proprio mentre si vanno collocando le prime pietre su cui sorgerà una scuola vera, in forma di edificio. La storia, purtroppo, dirà che l’edificio scolastico nuovo, come anche le prime case nuove, risulteranno presto vuoti, a causa della grande emigrazione.
Nei racconti della fontana c’è, ovviamente, anche un periodo precedente il 1958. La fontana è curiosa; le è vicino una fontanella, a lei anteriore, che fu la prima risorsa d’acqua per le prime famiglie che si insediarono a Paoladoce, occupando le terre del principe Doria, feudatario genovese, detentore del territorio aviglianese. Connotazione di tutti i racconti, dal primo all’ultimo, qualunque ne sia il tema, è la condizione di grande selvatichezza e durezza in cui, nonostante i primi segni di modernità, vissero e continuavano a vivere gli abitanti della masseria: condizioni in tutto uguali a quelle dell’intera campagna aviglianese che, all’inizio del Novecento, era stata già oggetto dei crudi racconti o “novelle” di uno scrittore aviglianese, il quale, accanto a Giustino Fortunato (1848-1932), ci piace ritenere il maggior narratore della letteratura lucana.E’ vicino al Verga e al primo D’Annunzio di San Pantaleone, Terra vergine e Novelle della Pescara. Intendiamo dire di Tommaso Claps (1871-1945), che, notevole giurista, si era “abbassato” al racconto di vita dei paesi ruotanti intorno al monte Carmine. Aveva pubblicato i suoi racconti su una rivista di provincia, “Il Lucano”. Per umiltà, e forse per ingiustificato pudore, si era celato sotto lo pseudonimo di Maria Andreina Sordetti, significativamente immaginata maestra elementare. Era stato Giustino Fortunato a scoprire che, dietro quei racconti così crudi e netti, dietro quella penna graffiante, c’era la tempra di un uomo di cultura che, come Verga e D’Annunzio, sapeva mimetizzarsi, assumendo le vesti del narratore tolto al popolo. La raccolta dei racconti aveva il titolo di A piè del Carmine. Franco Sabia, dal cognome tutto aviglianese, sulla scia di Tommaso Claps, dal cognome anch’esso tutto aviglianese, avrebbe potuto intitolare i suoi racconti col nome della località in cui essi si svolgono, cioè Paoladoce, così come al nome del luogo si era riferito Claps, citando il monte Carmine. Poteva anche dargli il titolo di La masseria (1960), sulle orme di Giuseppe Bufalari, che, maestro fiorentino nella Lucania Basilicata del secondo dopoguerra, fece del luogo l’oggetto del suo romanzo.
Si diceva che scrivere saggi è più facile che fare narrativa, la quale richiede altre doti, che vanno dalla musicalità, alla fluidità, dal carattere dei personaggi alle situazioni in cui essi operano… Il narratore, in altre parole, deve saper toccare più corde e deve avere una grande carica umana. Al saggista basta la facoltà logica; qualcuno direbbe che gli basta la sintassi. E’ come dire che al saggista, invece, basta una corda sola. Forse è per un senso di incompletezza e di insoddisfazione se in un saggista, rimasto tale per una intera vita, spunta, alfine, il desiderio di tentare uno strumento più complesso. Metamorfosi travagliata. Serve, infatti, un linguaggio che non è solo quello della sintassi. C’è bisogno di simboli, sinestesie, metafore, analogie, persino anacoluti… Sabia letterato, a dire il vero, non sempre riesce a liberarsi del saggista, perché, pur narrando, troppo urge in lui il desiderio di illustrare, precisare, analizzare. Forte, insomma, è il desiderio di dare informazioni. Troppo lunga, per esempio, con non pochi elementi di improbabilità, è la storia dell’emigrato che, avendo commesso un involontario omicidio, per sottrarsi alla legge italiana fugge in America. Minuziose sono le note su Napoli; diluita è, da clandestino, la traversatadell’intero Oceano. Poi, appena il viaggio si è compiuto, e del viaggio sono state date tutte le informazioni che servono a far capire che cosa succedeva agli emigrati su “carrette del mare”, il racconto precipita verso la conclusione, date appena poche righe sulla permanenza americana.
C’è, tuttavia, un racconto che regge bene in tutto il suo insieme, e che fa da conclusione alla intera raccolta. Si tratta del racconto Il testimone, che altro non dovrebbe essere se non il quaderno con copertina nera e bordo rosso di quegli anni, che ha funzionato da diario della maestra Flora, arrivata dal mondo della città eposta, tutta sola, a confronto con una realtà mille miglia lontana dalla sua. L’attenzione di Franco Sabia si concentra sulla persona della giovane maestra, sul disagio femminile in una masseria senza servizi igienici, senza strade, in mezzo a uomini rudi, per fortuna con una piccola lampada che serve per scrivere almeno note di diario. L’effetto è quello che produsse, nell’ immediato dopoguerra, l’apparizione, assai suggestiva, di libri di maestri e maestrine finiti in lontani e isolati paesi del Sud, o in periferie della città, che tanto interessava a Pasolini. Furono esperienze raccontate da Maria Giacobbe, Leonardo Sciascia, Gavino Ledda, il già citato Giuseppe Bufalari, Mario Lodi, Bruno Ciari, Albino Bernardini, lo stesso Lorenzo Milani… Franco Sabia dimostra, fra l’altro, la sua lodevole competenza in materia pedagogica, facendo riferimenti al movimento di cooperazione educativa di Freinet, accennando al metodo del mutuo insegnamento, alle idee innovative di Maria Montessori, alla organizzazione di una pluriclasse… La sua partecipazione fa anche pensare a sue esperienze dirette. E’ un racconto che si legge con gusto e con qualche nota di emozione e commozione, che è un dato in più, ed è proprio dell’opera letteraria. Per il resto, se Franco voleva farci conoscere il mondo degli umili e la campagna di Avigliano dall’interno, cioè il mondo della masseria, ci è riuscito. Perciò, metterlo a fianco a Tommaso Claps è un segno del merito che, dopo tanti anni di studio, si è onorevolmente conquistato.