“Finuzza e le sue storie” è il libro di Marinella Battifarano, presentato a San Paolo Albanese, presso il Museo della Cultura Arbëreshe.
È la storia di una donna appartenente alla famiglia Smilari di origine arbëreshe. Di seguito la nota inviata da Annibale Formica.
Mi sono a lungo preparato, questa estate, per partecipare alla presentazione del libro “Finuzza e le sue storie” di Marinella Battifarano a San Paolo Albanese, mio e suo paese di origine.
Mi sono adoperato con grande trasporto di mente e di cuore alla raccolta di pensieri, riflessioni, ricordi, vecchie e nuove emozioni per onorare non un impegno semplicemente formale, ma un doveroso rispetto, una stima, un’amicizia e una comunanza di cultura, di storie, di tradizioni, di radici, di identità, di appartenenze. Mi sono, così, avvicinato con molta timidezza, ma anche con tanto orgoglio ed entusiasmo, al momento di esternare le mie considerazioni davanti a un pubblico di compaesani, coinvolti in una memoria collettiva, che ci rendeva tutti protagonisti, perfettamente riconoscibili con le proprie storie personali, quasi tutte comuni e condivise, quasi tutte riflesse nello specchio della tradizione, di quella tradizione che è “custodia del fuoco”, come dice Gustav Mahler, non “culto del passato”. Ho avvertito una atmosfera serena, calda, luminosa, accogliente che gratificava la coscienza di tutti noi presenti, diffondendo appagamento per qualcosa che ci mancava e che, dopo oltre cinque secoli, il libro e la sua lettura colmavano: le lacune di una storia collettiva mai interamente conosciuta, mai compiutamente e consapevolmente posseduta dai Sampaolesi.
Leggendo il libro, ho fermato, in più tratti, la mia attenzione su circostanze, vicende e fatti, che mi erano noti, perché vissuti anche da me, specie nell’infanzia, negli anni cinquanta, e, poi, durante gli studi universitari, negli anni sessanta. Ho rivisitato, così, con i miei ricordi i molti luoghi della memoria, veri marcatori affettivi delle nostre biografie, anche le più remote, le più ignorate, le più anonime. Una mirabile evocazione emotiva è stata l’elencazione, nelle primissime pagine, dei toponomi, in lingua arbëreshe, delle contrade di San Paolo. Mi ha colpito, perché molto spesso, forse troppo spesso, a me capita di indulgere nella voglia di passato, accesa dalla tradizione, ricorrendo alla forza attrattiva ed emotiva dei luoghi, nei quali immancabilmente si rispecchiano i nostri stati d’animo.
Mi sono sentito, perciò, entusiasta, quasi euforico, soddisfatto di partecipare con le mie considerazioni, o meglio con le mie confidenze, alla presentazione di “Finuzza”, una “nativa” e “cittadina” di San Paolo Albanese, e delle “sue storie”, come raccontate dalla figlia Marinella, essendo, a mia volta, “nativo” e “cittadino” di San Paolo Albanese, oggi più nostalgico e malinconico che mai, avendo assunto, per oltre cinquant’anni, anche io molte responsabilità nella vita pubblica, amministrativa, sociale e culturale del paese.
Nel racconto di Marinella ho trovato molte storie, alcune note e, in qualche caso, anche condivise, altre per me inedite, di una donna “pioniera”, appartenente ad una famiglia “guida” di una comunità, di un paese, San Paolo Albanese, il nostro: storie che aiutano a ritrovare noi stessi. Di questo racconto, pertanto, ho sentito il dovere di dire subito: grazie! È, infatti, uno stimolo, come è scritto anche in premessa dall’Autrice, per le nuove generazioni del paese a “prendere il testimone e continuare la corsa in archivi pubblici e privati”. Aiuta la comunità arbëreshe Shën Paljit a ritrovare il senso del vissuto collettivo, delle storie di ognuno in continuità e in intima connessione con la comunità stessa e le sue vicende, con il territorio e i suoi luoghi, i suoi paesaggi. È una testimonianza, anche, di rispetto del valore del “passato”, di quel tempo di vicende umane, alcune addirittura riservate, sofferte, dette con pudore e con solidarietà verso tutti coloro che hanno contribuito a far crescere e a far avanzare la storia collettiva del paese, quell’insieme di fatti, consuetudini, costumi, valori umani e culturali di una indomita minoranza arbëreshe.
Quelle raccontate, cioè, non sono solo memorie; non sono solo ricordi familiari. Sono anche lo “spaccato” di un contesto territoriale, economico, sociale, politico, storico, culturale. Sono i cinquecento anni e più di San Paolo Albanese, dal primo insediamento dei profughi albanesi ad oggi, attraverso la famiglia di Alessandro Smilari, l’illustre compaesano cui è intitolato il viale del paese, lungo il quale sono passati quasi tutti i destini degli abitanti sampaolesi.
Le storie di Finuzza sono la immagine viva della storia di San Paolo Albanese, di cui c’è stato e c’è sempre un grande bisogno di conoscenza. È un grande merito di Marinella, quindi, aver fatto il lavoro di ricerca, di documentazione, di analisi e di elaborazione e di averlo scritto e reso pubblico con il suo libro.
La scrittura serve, perché, come dice Pessoa, una vita (e una storia) da sola non basta.
Scrivere dei mandorli, dei gelsi, del baco da seta, della ginestra, della “banxhurna” (la peonia selvatica di Monte Carnara), delle passeggiate sulla “strada del piano” – l’attuale Viale Alessandro Smilari – è utile a Marinella Battifarano, alla sua famiglia ed è utile ai Sampaolesi che per oltre cinque secoli, hanno contribuito a mantenere vivi questi luoghi, questi paesaggi, il Monte Carnara, il Pollino, “quel bel paesaggio montano “ che nonno Alessandro “tanto amava”.
La descrizione dei luoghi, dei paesaggi ha esercitato nella mia lettura di “Finuzza e le sue storie” una attrazione e una curiosità particolari perché il paesaggio è “memoria collettiva e identità culturale”. È un luogo che ognuno di noi cerca nell’ambiente in cui è vissuto, in cui vive, per dare – scrive Vittorio Lingiardi nel suo libro “Mindscapes” – forma e immagine a qualcosa che è già in noi. Il paesaggio è deposito di tracce; è eredità e memoria dei luoghi. Non è solo un panorama, una semplice percezione estetica. È un racconto di esperienze, come quello a pagina 38 : < Le acque si raccoglievano in una vasca che fungeva da abbeveratoio, poi defluivano negli orti della villa Smilari. All’imbrunire era una gran festa: tutti tornavano con gli asini e gli animali dalla campagna, portavano a casa la legna per il fuoco, i frutti dell’orto, i formaggi, le uova, abbeveravano le bestie e ripopolavano il paese>. Il paesaggio, insomma, è il sentimento e, al tempo stesso, la consapevolezza che inducono Finuzza, negli ultimi anni, a farsi accompagnare sul Monte Carnara e, poi, a San Paolo con una breve sosta al cimitero <alla ricerca del tempo perduto>.