La tradizione della musica popolare ed etnica lucana nelle festività natalizie ha un punto di riferimento che rischia di andare perduto e che invece è un patrimonio prima di tutto culturale oltre che un forte richiamo di attrazione turistica scarsamente utilizzato. E’ il “Gospel lucano” perché, mentre il Gospel ha una matrice storico-culturale che appartiene all’ “America nera”, le nenie lucane della Natività hanno radici antichissime e solide nelle nostre comunità. C’è chi ha dedicato una vita a raccogliere, rielaborare e divulgare le testimonianze orali del ricco patrimonio culturale della nostra comunità. Francesco Varvarito, “anima storica” degli Accipiter di Accettura – gruppo che riesce ad interpretare grazie alla fusione di sensibilità musicali di due-tre generazioni una musica popolare fortemente originale – nel libro “La Nostra Primavera” appena finito, ha dedicato uno specifico saggio ai canti religiosi, canti d’amore, serenate, filastrocche, ninne – nanne e lamenti funebri.
I Canti alla Zampogna e all’Organetto, strumenti particolari per i canti della Natività – dice Varvarito che ha lavorato dagli anni settanta al recupero della tradizione orale dei canti popolari – sono componimenti a tema amoroso (tenero, dispettoso, ironico, licenzioso) e sono patrimonio comune di tutti i paesi. Costituiti da versi a rima alternata e rima baciata, i primi preparano l’argomento e gli ultimi manifestano le considerazioni ed esprimono le conclusioni. I componimenti d’amore sono solitamente molto concisi, estremamente intensi tendono a dichiarare i sentimenti di chi li recita. Il repertorio dei motivi musicali che li accompagna non è molto vario e spesso, la stessa melodia viene adattata a diversi testi. Sono le circostanze in cui il canto viene eseguito e lo stato d’animo del cantore o del destinatario del canto che suggeriscono la scelta della melodia. I canti di argomento religioso hanno sia origine dotta che origine popolare. I primi, sono espressi con versi raffinati che presentano una grande ricchezza lessicale. Le parole utilizzate non sono di uso comune ma proprie della poesia colta. Tali componimenti sono attribuiti a uomini di chiesa conoscitori dei testi sacri e quasi certamente, risalgono al tempo in cui esisteva il rito greco.
I canti religiosi di origine popolare, invece, affiancavano quelli canonici e il più delle volte li sostituivano per il maggior radicamento tra la gente.
Spesso coniugano cristianesimo ed elementi pagani. In essi permangono tracce della cultura popolare contaminata da preesistenti riti pagani, che la chiesa aveva tentato di eliminare, ed esprimono i caratteri di una certa ritualità, quasi sempre ben augurante.
Trasmessi oralmente, sono anonimi. Come anonima è la musica che li accompagna.
Nei giorni prima delle feste, venivano portati in giro – nel paese e nelle masserie – da gruppi di due o tre cantori, che si alternavano usando una gestualità drammatica e spettacolare. I canti erano accompagnati dal suono lamentoso di Cupa-cupa. Fisarmonica e tamburello. Alla fine, i cantori chiedevano una ricompensa che il più delle volte era in natura.
La musica popolare – sottolinea ancora Varvarito – ha avuto un ruolo straordinario, specie quella guardata con sospetto da una certa cultura non solo di sinistra. È servita a toglierci di dosso quella mortificazione, quella velata depressione che arrivava direttamente dalla guerra. Ha contribuito a soffiare via dal tessuto sociale l’immagine grigia di un futuro fatto di cupi doveri e sacrifici. Ha rappresentato un elemento di forte discontinuità nei comportamenti sociali ingessati, finiti come un bel vaso cinese che cade su un pavimento di marmo. Ora di quel potenziale destabilizzante e provocatorio sono rimaste solo le forme di superficie: la musica popolare non graffia più, non ci entra dentro. Benché il volume sia sempre più alto, arriva solo nelle orecchie senza sfiorarci l’anima. Io penso che questa crisi non sia solo figlia della discografia, che pure se l’è voluta e cercata, ma anche dei musicisti e delle istituzioni.
I musicisti fanno la musica, e a loro la musica dovrebbe tornare. Le istituzioni dovrebbero metterci lo zampino, offrire ai ragazzi occasioni per sperimentare. Si dovrebbero incentivare i locali a riconvertirli in luoghi per ascoltare e ascoltarsi. Mi riferisco ai salotti della Pro Loco, dei Comuni, dei Comitati e agli assessorati che continuano a considerare la musica popolare come sottocultura. È giusto continuare a puntare sui mega concerti dei cantanti di nome? Non sarebbe più sensato ripensare alla costruzione di un rapporto più ravvicinato, ripartendo proprio dai piccoli paesi, dai nostri rioni?
Se si affievolisce il valore della musica popolare – che poi è quella più ascoltata, cantata, partecipata, rappresentata – si affievolisce il nostro sentire comune, diventiamo tutti un po’ più deboli. Un po’ più soli.
Da Varvarito dunque una chiara sollecitazione in sintonia con l’impegno promosso dall’Apt per il recupero e la valorizzazione della musica popolare lucana: meno spettacoli di Gospel nei nostri comuni e più eventi di canti natalizi-religiosi delle tradizioni locali.