Presentata a Matera nella prestigiosa Sala degli Stemmi dell’Arcivescovado di Piazza Duomo la XXIII edizione delle Giornate di Primavera promosse dal Fondo Ambiente
Italiano (FAI) e in programma sabato 21 e domenica 22 marzo.
In Basilicata le località coinvolte sono sei: Matera, Brienza, Grottole, Pomarico, Venosa, Tricarico.
Tra i siti aperti a Matera dalla Delegazione FAI ci sono: la Cattedrale, il Castello, il Palazzo Lanfranchi (per il
ruolo svolto nel secolo scorso come Liceo Ginnasio), la chiesa di Cristo Flagellato. Di grande interesse anche
le proposte relative al territorio regionale.
Di seguito le schede dei siti che si potranno visitare in provincia di Matera e nella città dei Sassi.
Castello Tramontano
Dal 1497 Matera fu sottoposta al controllo politico del conte Giovan Carlo Tramontano. D’origine borghese il conte, oltre che essersi messo in luce dal punto di vista militare, ricoprì l’incarico di maestro di Zecca al servizio degli Aragonesi, prima a L’Aquila, poi nel 1494 a Napoli. Tre anni dopo le sue ambizioni di potere, che già si erano manifestate nell’ambito della grande imprenditoria commerciale, trovarono compimento politico con l’investitura comitale su Matera, dove presto entrò in conflitto con la classe dirigente detentrice del potere economico sul piano locale.
La presenza a Matera del conte fu assai breve, interrotta da un fatto di sangue di cui si rese responsabile l’intera comunità cittadina che, non potendo tollerare oltre misura le vessazioni fiscali e tributarie imposte dal Tramontano, ne programmò l’assassinio, compiutosi il 29 dicembre del 1514 nel luogo che a ricordo dell’evento fu denominato via Riscatto. L’Università (il Comune cittadino) non rese noti i nomi degli esecutori materiali del delitto, assumendosene la responsabilità sul piano istituzionale e conferendo così all’episodio un carattere eminentemente politico.
Segno materiale e memoria storica della presenza del Tramontano a Matera è il castello esterno alla pianta urbana cinquecentesca. La costruzione del maniero, avviata agli inizi del XVI secolo sul colle del Lapillo (poi di Montigny), rimase incompiuta proprio a seguito della tragica morte del conte.
Sorto “a brevissima distanza e quasi a cavaliere della città di Matera”, avrebbe scritto il medico e archeologo materano Domenico Ridola, e “sebbene non intieramente completato si presenta come una salda e severa costruzione tecnica. […] Vi si ammira un colossale maschio a quattro piani, torri laterali, un ingresso a ponte levatoio, corridoio, fossato e muro che lo circondano”.
Il castello fu realizzato riflettendo i parametri costruttivi che l’ingegneria militare dell’epoca proponeva, in particolare attraverso gli scritti e i progetti del senese Francesco di Giorgio Martini: una torre circolare, muri di controscarpa e due torri minori ai lati. Vi consentiva l’accesso una strada in forte pendenza, difficilmente transitabile per i carriaggi pesanti e, in genere, per le artiglierie campali.
La costruzione del castello non fu dunque portata a termine e, poiché non svolgeva né una funzione offensiva, né difensiva, fu abbandonato e restò incustodito. Rimosso dalla coscienza collettiva cittadina, in quel clima di abolitio memoriae (rimozione della memoria) che fece seguito all’assassinio del Tramontano, l’Università di Matera chiese al re Ferdinando il Cattolico di consentirne la demolizione e poterne utilizzare il materiale lapideo per restaurare le mura della città. Il conte, infatti, oltre che privare la città di alcuni benefici, aveva fatto erigere il castello e la cinta muraria quasi interamente a spese dell’Università di Matera. La richiesta ottenne il placet sovrano, condizionato però all’approvazione del viceré, che in quegli anni era Raimondo di Cardona (1509-1522). L’autorizzazione auspicata non fu evidentemente concessa.
Interessato da un lungo iter di consolidamento e restauro, a cinquecento anni dalla morte del conte Tramontano la Delegazione FAI di Matera riapre il castello al pubblico, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Basilicata.
Rosalba Demetrio
Bibliografia
Rosalba Demetrio, La riqualificazione urbana cinquecentesca, in C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera-Le città nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 38-40.
Rosalba Demetrio, Retrospettiva di un delitto, in Retrospettiva di un delitto-Giovan Carlo Tramontano e il castello di Matera, (a cura di), Giuseppe Barile Editore, Matera-Irsina 2014, pp. 19-27.
Cattedrale
Il XIII secolo, con l’elevazione di Matera ad arcidiocesi metropolitana in unione con Acerenza (1203) e la conseguente costruzione della chiesa Cattedrale, è il momento in cui venne conferito un nuovo assetto allo spazio urbano della Civita in età medievale. E se c’è un edificio che può essere considerato la struttura chiave della città in questa fase esso è proprio la Cattedrale, significativa testimonianza di architettura in stile romanico.
Di grande interesse è l’orientamento della chiesa, che domina la Civita, il cui prospetto frontale è rivolto verso il Sasso Barisano e la porta de suso, di accesso alla piazza, a sottolineare un progetto di espansione dello spazio urbano oltre le mura della Civita e un raccordo almeno visivo con la periferia (Sassi) nella prima metà del Duecento non ancora del tutto abitata. Perché la chiesa svettasse con maggiore imponenza rispetto al contesto urbano, la base rocciosa su cui sorge venne elevata di oltre sei metri.
Risulta che nel 1627, quando la Cattedrale fu riconsacrata, essa esistesse già da 397 anni, pertanto l’inizio della costruzione risalirebbe al 1230, indicazione cronologica accettabile, se si considerano le affinità stilistiche con la coeva chiesa di S. Maria de Nova, i cui lavori erano in corso nel 1233. E’ noto invece l’anno in cui la struttura della Cattedrale fu completata, il 1270, testimoniato da un’epigrafe posta sull’architrave della porta che immette al campanile. In realtà si trattò del rifacimento di un impianto più antico, ampliato e impreziosito nelle strutture architettoniche e negli elementi di decoro, com’era nelle attese della popolazione a seguito dell’elevazione dell’episcopio materano a sede arcivescovile.
Controversa è la dedicazione della chiesa, che per alcuni secoli riporta l’intitolazione a S. Eustachio, già appartenente al monastero benedettino sulle cui preesistenze insiste la struttura della Cattedrale, in alternativa a quella di S. Maria de Episcopio, come risulta da alcuni documenti di questo periodo. Un atto notarile del 4 gennaio 1276 registra che Manfredi e la moglie Costanza vendono alcune case palaziate (la casa palaziata è una tipologia edilizia, cioè si tratta di case non solo scavate, ma anche costruite) ubicate presso la chiesa di S. Maria dell’Episcopio. O ancora un altro atto notarile informa che il giudice Andrea veniva vicinia considerevolmente indennizzato del valore di alcuni oggetti con l’assegnazione di una casa sita nella Civita di Matera, presso S. Maria dell’Episcopio. Dal 1389 fu intitolata a S. Maria della Bruna, protettice della città. L’alternanza nell’attribuzione del titolo permane anche nei secoli successivi, come risulta dal testo della Santa Visita compiuta nel 1544 da monsignor Giovanni Michele Saraceno. Infine una lapide commemorativa posta a destra della porta maggiore della Cattedrale, informa che nel 1627 monsignor Fabrizio Antinori avrebbe nuovamente consacrato la chiesa a “Mariae de Bruna Metropolitanae Ecclesiae Titulari” e a S. Eustachio, patrono di Matera.
Se consideriamo che la costruzione della Cattedrale dedicata a Maria fu voluta dall’Università materana, dal Comune cittadino, ovvero dal popolo che si affacciava alla ribalta della storia in età federiciana nella prima metà del Duecento, la consacrazione di Matera come “Civitas Mariae” nel 1954, da parte del Comune di Matera, chiude un cerchio restituendo la città a una dimensione fortemente identitaria.
L’edificazione della Cattedrale avvenne in un contesto attraversato da un certo dinamismo economico, politico e culturale, il cui asse portante era il rapporto con i centri commerciali della Puglia, a cui Matera apparteneva perché interna alla Terra d’Otranto, i cui riflessi sul piano culturale, dovuti alla circolazione di uomini che esportano e importano tecniche e idee, non tardarono a manifestarsi. L’esterno della chiesa ha mantenuto nel tempo l’originaria connotazione. Sul prospetto frontale si evidenzia un rosone a sedici raggi, sormontato dall’arcangelo Michele. L’interno a croce latina, trasformato nei secoli successivi al Medioevo, presenta tre navate scandite da colonne impreziosite con capitelli. Tra le testimonianze medievali di grande interesse è il frammento di una composizione pittorica attribuita a Rinaldo da Taranto, che propone scene del Purgatorio; poi l’affresco della Madonna della Bruna e il sarcofago con le spoglie di S. Giovanni da Matera, nato intorno al 1070. Notevole è anche il presepe di Altobello Persio (1534). La struttura interna ha subito notevoli trasformazioni a partire dal 1627. Stucchi e decorazioni, dipinti e sculture ne hanno impreziosito il contesto tra Sei e Settecento.
Dal 1990 ad oggi la Cattedrale è stata interessata da lavori di consolidamento e restauro coordinati e diretti dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Basilicata. Oggi, grazie alla Arcidiocesi di Matera-Irsina, eccezionalmente riapre le porte ai visitatori per il FAI.
Rosalba Demetrio
Bibliografia
Rosalba Demetrio, Matera-Forma et imago urbis, Giuseppe Barile Editore, Matera 2009, pp. 102-104.
Edicole votive dedicate a Maria
L’intitolazione di Matera Civitas Mariae, siglata dal Consiglio Comunale cittadino il 27 novembre 1954, è l’esito di un secolare percorso di storia civile e di spiritualità religiosa, testimoniato dagli affreschi rupestri, dalle chiese e dai monasteri, dalla toponomastica, da cappelle ed edicole presenti nel territorio della Civita e dei Sassi, nello spazio urbano della città e in quello un tempo extraurbano.
I monaci bizantini e poi quelli benedettini, il popolo tutto, educato alla vita civile proprio dalla Chiesa, a partire dall’Alto Medioevo guardarono a Maria, madre, come ad un tramite più percepibile nel rapporto con Dio, come emblema della divina maternità, ma anche figura viva e reale, suggellata sul piano figurativo nelle tante immagini che la propongono, indice di una radicata pietà mariana nella fede popolare.
La civiltà agraria delle origini si affidò alla Madre di Dio e la volle protettrice, così come alle origini di ogni cultura mediterranea le comunità primordiali si affidarono a una grande madre, simbolicamente identificata con la terra che porta i frutti. Chiese rupestri ed edicole attestano visibilmente la forte presenza di Maria nella dimensione spirituale e civile di una comunità insediata per molti secoli nella Civita e nei due Sassi, che erano borghi esterni alle mura della città.
Le edicole votive dedicate a Maria, presenti a Matera nei Sassi e nel Piano, sono un esempio di arte sacra cosiddetta minore, ma in realtà una straordinaria espressione di religiosità privata e popolare. Il termine deriva dal latino aedicula e ha la stessa radice di aedes, tempio, dunque ha il significato di tempietto. Si presentano con dimensioni piccole e una struttura molto essenziale in cui l’architettura appare semplificata fino a diventare una semplice cornice che racchiude oggetti di particolare significato religioso, immagini o reliquie. I secoli di massima diffusione di questa forma devozionale sono stati in Italia il Seicento e il Settecento. Le testimonianze rilevate a Matera si riferiscono tuttavia a tempi più recenti, tra seconda metà dell’Ottocento e primo Novecento. Poiché realizzate in materiali facilmente deteriorabili e poiché spesso la manutenzione non era costante, le più antiche, relative ai secoli precedenti, certamente sono andate distrutte, tanto più dopo il trasferimento degli abitanti dei Sassi nei rioni costruiti dopo il 1952.
Includendo anche quelle dedicate ai Santi, a Matera si registravano fino a trenta anni fa circa 90 edicole, di cui 65 dedicate alla Madonna. Si tratta di strutture semplici, realizzate con materiali poveri, che si presentano come una nicchia ricavata sul prospetto di un’abitazione o sotto un arco, protetta da un vetro o da una rete metallica, o più elaborate, che riproducono il prospetto frontale di un tempietto. Tipica espressione della civiltà contadina, erano realizzate da artigiani locali, muratori, scultori, pittori che operavano autonomamente o su commissione da parte di singoli cittadini o persone legate da rapporti familiari, di lavoro, o anche di vicinato.
Le edicole dedicate alla Madonna della Bruna, pur abbastanza diffuse, erano 11. Le altre Madonne con il Bambino 21, a cui bisogna aggiungere 6 Madonne del Rosario, 5 Annunciazioni, 5 Addolorate, 2 Madonne di Picciano, 2 Madonne del Carmine, 2 Madonne Immacolate, 5 Madonne di Fatima. Le Madonne erano particolarmente onorate nel mese di maggio, cioè nel cosiddetto mese mariano, un periodo dell’anno dedicato ai riti dell’amore e della fertilità, della fecondità, anche nelle forme religiose precristiane.
Le edicole si individuano lungo le strade, agli incroci, in cortili privati, oppure in luoghi esterni alla città. Già in epoca romana le zone di confine erano prive della protezione dei Lari, le divinità protettrici della familia, e pertanto vulnerabili ed esposte alle forze del male e agli spiriti di quanti erano morti in circostanze poco chiare (omicidi o altro tipo di incidenti). Nella religione romana e nella società agraria delle origini i punti di confine erano investiti di un significato particolare, poiché rappresentavano il punto di passaggio tra mondo terreno e ultraterreno. Pertanto nella mentalità comune perdurò l’idea del confine come luogo in cui il mondo dei vivi e dei morti si incontrano, esposto al rischio della stregoneria e della magia. Nel Medioevo e in età Moderna queste credenze tradizionali precristiane sopravvissero risemantizzate dalla Chiesa ufficiale.
La richiesta di protezione alla Madonna e ai Santi fu massima nel Seicento, in un’epoca successiva al Concilio di Trento, anche a causa delle calamità e pestilenze che colpirono le popolazioni. Conseguente alla venerazione popolare delle immagini fu allora il fiorire di chiese dedicate a Maria e di edicole realizzate per invocarne il potere taumaturgico e salvifico. Questa finalità protettiva è quanto permane del mondo antico nei secoli successivi.
Il FAI, dopo aver rilevato fotograficamente le edicole dedicate a Maria, ubicate nei Sassi e nel Piano, in collaborazione con l’Associazione Maria SS. della Bruna, le presenterà al pubblico inquadrandole dal punto di vista storico-artistico.
Rosalba Demetrio
Bibliografia
Rosalba Demetrio, Relazione sul tema: “Matera Civitas Mariae” (2 novembre 2014), in corso di pubblicazione.
Rosalba Demetrio, Matera. Forma et imago urbis, Giuseppe Barile Editore, Matera, 2009, pp. 102-103.
Rosalba Demetrio, Mille anni di mito: la festa della Bruna a Matera, in R. Demetrio, A. Del Parigi, Antropologia di un labirinto urbano-I Sassi di Matera, Osanna, Venosa, 1994, pp. 205-213.
Festa della Bruna
Le origini del culto della Madonna della Bruna, protettrice della città di Matera, sono antichissime e con ogni probabilità risalgono al X-XI secolo. Anche la festa, celebrata dal popolo materano ogni anno, certamente precede il XIV secolo. Già esisteva, sembra, nel 1389 quando Papa Urbano VI – al secolo Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Matera e di Acerenza dal 1365 al 1377 – l’8 aprile deliberò l’istituzione della festa liturgica della Visitazione della Beata Vergine Maria, indicando come giorno il 2 luglio, data peraltro carica di significati nel mondo ecclesiastico occidentale e orientale votato al culto mariano. Dunque il tema della Visitazione si coniuga al culto preesistente della Madonna, a Matera, e certamente la festa nelle sue più profonde radici mostra analogie con altri riti stagionali della mitologia folklorica europea. E’ forse questa la ragione per cui ancora oggi l’intera città si riconosce in una festa che rivela un profondo significato, non solo storico, ma anche antropologico e culturale.
La festa della Bruna è espressione di un progetto popolare. In una società essenzialmente bipartita, come è stata in passato quella materana, la classe contadina coniugava eccezionalmente in questa occasione i propri interessi con quelli della Chiesa e dei grandi proprietari terrieri in una epifania di gioia collettiva. Per la società materana, fondamentalmente agraria, la festa della Bruna era alle origini, e fino a quando è stata una società agraria, il momento di arrivo di un’attesa rigeneratrice, una pausa nella continuità di un’esistenza votata al sacrificio della sopravvivenza, un rito che scandiva l’anno della comunità come le altre occasioni, religiose soprattutto, che interrompevano il corso del tempo vissuto secondo i cicli stagionali che scandivano i lavori nei campi.
La festa ripropone come memoria i valori più importanti della civiltà contadina che l’ha espressa. Cade nel periodo della mietitura, a luglio, e dunque la dimensione religiosa evidenzia un substrato antropologico di grande interesse: il ringraziamento per la buona annata con la richiesta della protezione e benedizione del raccolto, ma soprattutto l’augurio propiziatorio per l’anno a venire. Di fronte alla labilità del quotidiano la Madonna, entità divina ma insieme umana e percettibile, perché madre, si fa tramite della volontà del Cielo, di Dio, nel rapporto con gli uomini.
Storicamente potrebbe ricondursi al conte Giovan Carlo Tramontano l’origine della cavalcata militare che accompagna il carro della Madonna della Bruna, che il conte istituì come scorta d’onore – con i 33 canonici e l’arcivescovo in cappa magna, a cavallo – al carro divenuto trionfale nell’assetto esteriore sempre per sua volontà (sembrerebbe in memoria di una celebrazione della Vergine della Bruna cui aveva assistito a Napoli) o comunque a partire da allora, impreziosito fino alla fine del Seicento con elementi decorativi che gli conferirono sempre maggiore evidenza. La Madonna, infatti, di ritorno dal giubileo romano indetto nel 1500 da Papa Alessandro VI, fu accolta il 17 aprile dello stesso anno dal popolo di Napoli e dal vescovo, che la accompagnarono in trionfo nella cappella maggiore del Carmelo.
Secondo alcune ipotesi non del tutto verificabili, proprio in questo periodo la celebrazione della Bruna a Matera da momento religioso, vissuto in tono pacato di assoluta semplicità, avrebbe acquisito i tratti appariscenti ed esteriori che conserva ancora oggi, a partire dal carro che, semplice struttura lignea all’inizio, si arricchì di elementi decorativi ispàno-arabi, filtrati attraverso i motivi iconografici del Tardo-barocco e, in genere, dell’arte napoletana. Il carro, con la rappresentazione di temi del Vecchio e del Nuovo Testamento, diventava così l’oggetto simbolico centrale della festa della Bruna a Matera.
Il carro – strumento che quotidianamente alleviava il lavoro del contadino – enfatizzato nelle misure e in tutto l’assetto formale, si configura come momento emblematico della rappresentazione rituale, ospitando la ‘Donna sublime’ che, vegliando sul contadino, sulla terra e sul raccolto, media il rapporto con Dio.
Testimonianza di una cultura materiale e di una sapienza costruttiva artigianale oggi rivalutate, esso nasce da secoli in uno spazio laboratoriale dove artisti (falegnami, pittori, decoratori dal 1615 presero a riunirsi presso la Congregazione di Gesù Flagellato (Congregazione degli Artieri) lavorano per molti mesi, conservando e tramandando l’arte antica della cartapesta, per sfilare il 2 luglio. Viene allora esposto, dopo la processione religiosa, alla distruzione da parte di una folla di giovani che cercano di appropriarsi di elementi decorativi e figure da conservare nelle case. Non sempre, nei secoli, il carro è stato distrutto, ma le origini di questa manifestazione ormai si confondono tra mito e realtà.
Rosalba Demetrio
Bibliografia
Rosalba Demetrio, Mille anni di mito: la festa della Bruna a Matera, in R. Demetrio, A. Del Parigi, Antropologia di un labirinto urbano-I Sassi di Matera, Osanna, Venosa, 1994, pp. 205-213.
Palazzo Lanfranchi
La costruzione del Seminario (1668-1672) intitolato a Vincenzo Lanfranchi, Arcivescovo di Matera e Acerenza, si colloca in una fase significativa dell’evoluzione urbana di Matera. La progettazione dell’edificio fu affidata al frate cappuccino Francesco da Copertino coerentemente con i decreti determinati nel Concilio di Trento, in cui si stabiliva che in ogni diocesi dovesse essere istituito un seminario destinato alla formazione del clero.
L’originario disegno del Lanfranchi, che aveva deciso di porre la sede del seminario presso la Cattedrale, non ebbe seguito a causa della limitata disponibilità di superfici libere nell’area contigua. Perciò egli spostò l’attenzione sul pianoro tufaceo, già sede dell’acquisito convento del Carmine e sui terreni e case ad esso pertinenti (inclusivi di giardini, grotte, cisterne, fossi), che acquistò da privati. La fondazione delle strutture fu fonte di non pochi problemi, viste le caratteristiche geotecniche del sito, tanto che una lapide apposta sulla facciata recava in epigrafe che l’edificio era sorto su cavernose e inestricabili fondamenta. Il seminario, infatti, aveva inglobato anche una preesistente area sepolcrale afferente a quattro chiese rupestri, cessato il vincolo di non costruire sui luoghi cimiteriali.
L’impianto comprendeva il chiostro con il porticato e gli ambienti che lo circondano. I successivi ampliamenti del 1776 e del 1822 avrebbero conferito all’edificio l’attuale volumetria. La facciata principale venne emblematicamente rivolta verso il Piano della città – a creare quasi un fondale scenografico – così come avvenne per l’ingresso, originariamente orientato verso i Sassi che, insieme con le altre strutture preesistenti (il convento e la chiesa del Carmine), annesse e incorporate nel seminario, subì una rotazione di circa novanta gradi.
La temperie post-tridentina, che aveva posto le premesse per l’erezione di questo complesso architettonico tra i più interessanti nel panorama urbano di Matera, sollecitò anche la valorizzazione plastica e topografica dell’asse urbano che, tra Sei e Settecento, prese a irradiarsi. Da questo primo coagulo di giustapposizione Piano-Sassi, infatti, presero l’avvio altri episodi di architettura religiosa e di architettura civile borghese, che tracciarono la fisionomia del crinale a margine dei Sassi e quella del versante opposto.
Palazzo Lanfranchi prima come Seminario, poi come Regio Liceo e Liceo-Ginnasio Statale sarebbe stato anche nei secoli successivi sede di formazione oltre che del clero della classe dirigente locale. Infatti, il progressivo processo di laicizzazione della società civile nel periodo post-unitario affidò alla borghesia le istituzioni educative che fino a quel momento erano state prerogativa esclusiva del clero. Nel 1867 il seminario venne chiuso e, privata l’autorità ecclesiastica del ruolo da sempre conferitole nell’educazione, formazione e istruzione, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento divenne Liceo-Ginnasio, dedicato all’insigne giurista materano Emanuele Duni (Matera 1714 – Napoli 1781). Il Liceo tra il 1882 e il 1884 si avvalse del prestigioso insegnamento di Giovanni Pascoli.
Palazzo Lanfranchi è stato sede del Liceo “E. Duni” fino al 1967. Dal 2003 è sede del Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata, strutturato nelle sezioni: Arte sacra, Collezione d’Errico, Arte contemporanea. In occasione dei 150 del Liceo “E. Duni” la Delegazione FAI di Matera, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Basilicata e il Liceo Classico “E. Duni”, propone una visita guidata all’interno del monumento per raccontarne la storia e l’allestimento di una mostra espositiva di parte del prezioso patrimonio storico (volumi e strumenti scientifici) dell’antico Liceo.
Rosalba Demetrio
Bibliografia
Rosalba Demetrio, La crisi del Seicento, in C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera-Le città nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 49-55.
A Brienza #giornateFAI di Primavera e giornata mondiale #aqua2015
Le Giornate Fai di Primavera, storico evento nazionale del Fondo Ambiente Italiano, fondazione no profit che dal 1975 opera per tutelare il patrimonio d’arte, natura e paesaggio, sono un invito ad uscire di casa per scoprire le bellezze che il territorio ha visto sbocciare nei secoli. Sorprendenti tesori, nascosti tra i luoghi della vita quotidiana, vengono raccontati da specialissimi apprendisti Ciceroni, studenti delle scuole medie e superiori, che preparati da insegnati e volontari, approfondiscono la storia dei nostri territori ed offrono visite stimolanti e allegre.
Il gruppo di volontari del FAI di Potenza quest’anno ha organizzato le Giornate Fai a Brienza, in sinergia con l’amministrazione comunale ed altre associazioni locali. Gli apprendisti ciceroni della scuola media “C.Iannelli” ci accompagneranno alla scoperta del borgo e delle sue bellezze, coordinati dai volontari FAI.
Sabato 21 e domenica 22, dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 18, ogni ora partiranno visite guidate dall’ ex Convento dei Francescani, in Piazza del Municipio, per raggiungere il Borgo Medievale ed il Castello Caracciolo (dove sarà visitabile anche il museo della tortura a cura dell’ Associazione Musica Vita mia). In ultimo gli apprendisti Ciceroni ci mostreranno l’orto didattico che hanno realizzato nella loro scuola e di cui si prendono cura da due anni.
Sarà aperta straordinariamente la cappella affrescata di Santa Maria degli Angeli, sulla strada per Brienza, sempre chiusa e in procinto di essere restaurata. Le visite saranno a cura degli studenti del Liceo Linguistico “L.Da Vinci” di Potenza.
Inoltre domenica 22, per celebrare la GIORNATA MONDIALE DELL’ACQUA, a Brienza ci sarà anche la presentazione del concorso “Porta all’EXPO il tuo mulino” per fotografi e videomakers, ed è prevista una escursione ad un mulino ad acqua nell’ambito del progetto interregionale #Aqua2015. Il concorso bandito dal CNR IBAM, Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali verte sul tema dei mulini ad acqua e del paesaggio storico rurale in Basilicata, e prevede dei premi in denaro, così come sarà descritto dal bando di prossima pubblicazione (per maggiori informazioni scrivete a mc.grano@ibam.cnr.it e m.lazzari@ibam.cnr.it)
Al termine delle due giornate, domenica alle 19 l’amministrazione comunale offrirà un aperitivo per tutti i partecipanti alle visite del FAI!
: Palazzo Marchesale “Donnaperna” di Pomarico (Matera)
Il Palazzo Marchesale “Donnaperna”, il più imponente dell’intero abitato di Pomarico, si erge, maestoso, nei pressi dell’ex Convento dei frati Riformati (nato ai primi del 1600 e poi soppresso subito dopo l’unità d’Italia) e all’annessa Chiesa di Sant’Antonio, proprio all’inizio del centro storico del paese. Fu costruito per volere del barone Filippo Maria Donnaperna tra il 1773 e il 1778. Costruito intorno ad un cortile, sulla cui pavimentazione, di recente restauro, è presente uno stemma del casato dei “Donnaperna”, il palazzo conta numerosi saloni, alcuni recentemente restaurati.
Messo in sicurezza nel 1980 dal punto di vista statico, si sono succedute varie fasi di restauro, mai completate. La proprietà è pubblica al 70%, la parte privata ha bisogno di essere riacquisita al pubblico, messa in sicurezza e restaurata. Tra le parti di pregio da riacquisire anche l’antico teatro, ormai sventrato nella sua struttura originaria, che dovrà trovare armonia e nuova linfa attraverso un progetto organico di restauro e ridefinizione architettonica.
Al piano terra è la Casa della Cultura (nata con intervento del GAL-Bradanica), sede della Pro Loco, mentre al primo piano vi sono gli spazi più importanti dedicati alle attività culturali tra cui il Salone Rosa e la Sala degli Specchi. E’ sede di un Museo della Civiltà contadina. Molti gli spazi dell’antico palazzo storico in attesa di un degno restauro. Prossimamente un settore del palazzo sarà sede dell’Archivio Storico Comunale attualmente con dimora provvisoria in Palazzo Sisto situato nella parte più alta del centro storico, aggrappato alla collina dove nacque l’attuale centro di Pomarico nel IX secolo.
Gianni Palumbo
giornata Fai a Tricarico
Tra arte, fede e tradizione: il fascino del passato
Le giornate FAI di Primavera a Tricarico vedono protagonisti due luoghi particolarmente significativi per la storia della cittadina. Il tema scelto è Arte, fede e tradizione: il fascino del passato un argomento che offre numerosi spunti di approfondimento. I due siti sono la chiesa e il convento di S. Antonio Da Padova e la chiesa di S. Antonio Abate anticamente Santa Maria dell’Ulivo.
Il primo, testimonianza della presenza dei frati minori dell’Osservanza, con le sue opere d’arte, il prezioso ciclo pittorico di Cesare Scerra e Ilario da Montalbano nel chiostro e i segni di una profonda religiosità. Luogo simbolo per il legame con la figura di Mons. Raffaello Delle Nocche (per il quale è in atto la Causa di Santità) fondatore della Congregazione delle Suore Discepole di Gesù Eucaristico e quella del sacerdote Don Pancrazio Toscano, il prete dei poveri e l’ urbanista, che tanto si è adoperato per la Pia Opera di S. Antonio. Si potrà visitare anche il ”Museo “ Delle Nocche ospitato nel convento.
Il secondo sito, una chiesa risalente al XII secolo, la sua storia si intreccia con il culto del Santo e la tradizione delle “maschere” di Tricarico. Una sorta di affascinante commistione tra sacro e profano ricordata anche nelle descrizioni di Rocco Scotellaro e di Carlo Levi. Ad accogliere i visitatori ci saranno un gruppo di maschere tradizionali.
Nel pomeriggio del sabato la serata si concluderà con l’esibizione di alcuni gruppi ballerini di tarantella provenienti dalle regioni limitrofe Puglia e Calabria.
Per la realizzazione e la preparazione dell’evento sono stati coinvolti come “Ciceroni” circa 60 ragazzi volontari, frequentanti le scuole presenti a Tricarico, l’Istituto comprensivo “Rocco Scotellaro”, il Liceo pedagogico “Gesù Eucaristico” e il Liceo scientifico “Carlo Levi” e l’Istituto Professionale per l’Agricoltura e l’Ambiente di Garaguso Scalo. Ogni scuola, previa autorizzazione dei Dirigenti, ha offerto la propria collaborazione, attraverso alcuni docenti referenti, si è occupata della formazione dei ragazzi con sopralluoghi e lezioni in ognuno dei siti scelti per le visite. Il materiale fornito ai ragazzi è stato rielaborato secondo le indicazioni fornite dagli architetti Sabrina Lauria, Domenico Langerano e da Carmela Biscaglia studiosa di storia e già docente di lettere nella scuola secondaria di primo grado. I docenti coinvolti hanno seguito la preparazione dei ragazzi, per la Scuola Media le prof.sse Carmela Santangelo, Amalia Lazetera, Antonietta Vizzuso, Nicoletta Giampietro, per il Liceo pedagogico i prof. Antonella Manzi, Domenico Venezia, per il Liceo Scientifico il prof. Antonio Chessa, per l’Istituto agrario, la prof.ssa Elisabetta Santangelo.
La collaborazione con alcuni volontari appartenenti ad altre associazioni locali ha permesso di definire gli aspetti organizzativi e di arrivare a definire le modalità di attuazione della giornata.
Il gruppo FAI con questa iniziativa e con l’ adesione alle successive, che il FAI nazionale ha in programma, intende far crescere nella gente ma soprattutto nei giovani l’amore e il rispetto non solo per la propria città ma per tutto , il patrimonio di storia, di arte, di tradizioni di cui è ricco il territorio italiano. Questa esperienza, superando i confini territoriali, ci permette di condividere l’ evento con altre numerose città italiane e di divulgare, utilizzando il sito del FAI e i loro canali informativi, la stampa, internet e altri sistemi multimediali, la ricchezza del nostro patrimonio cittadino.
Referente GRUPPO FAI TRICARICO
Sabrina Lauria
Grottole (Mt) Chiesa dei Santi Luca e Giuliano detta “Chiesa Diruta”
Nel centro storico, tra Viale della Resistenza e Via Garibaldi, si trovano i resti della Chiesa dei SS. Luca e Giuliano, detta comunemente Chiesa Diruta, il luogo di culto dedicato ai titolari della parrocchia. È doveroso evidenziare che il titolo della parrocchia, o meglio della Collegiata, è sempre stato quello dei Santi Luca e Giuliano, nonostante ancora oggi, dopo le numerose ricerche sul tema, non si sa per quale motivo il clero abbia scelto questo titolo: la devozione per San Luca è infatti documentata e testimoniata con altre espressioni religiose, mentre la devozione per San Giuliano non è per niente documentata.
Quest’opera alta 39 metri e larga 20, era la chiesa parrocchiale di Grottole, costruita a partire dai primi anni del ‘500, iniziata a governarsi ed ufficiarsi già dal 1508 dopo che il clero ricettizio aveva perso la propria sede della Chiesa di Santa Maria Maggiore data al Duca Onorato III Gaetano che a
sua volta, nel luglio del 1509, la donò ai Frati Domenicani.
La chiesa Collegiata di Grottole fu sempre sotto la giurisdizione Ecclesiastica di Acerenza e non fu mai incorporata in spiritualibus alla cattedra di Matera.
Il tempio fu costruito sui resti di due piccole chiesette che per questo motivo furono rase al suolo.
Nella fase più antica, durata almeno una quindicina d’anni e documentata dal rivestimento a scarpa della torre che costeggia la fiancata, furono costruite le fondamenta, la struttura a croce latina, i muri perimetrali e le fogge di sepoltura. Una successiva fase è documentata dalla data 1595 riportata sull’architrave del portale principale realizzato da Giulio Carrara della Padula che mostra lo stemma del Comune di Grottole e le sculture in pietra dell’Eterno Padre e di 4 evangelisti.
Attualmente una statuetta è depositata presso la Sovrintendenza ai Beni Artistici e Storici di Matera.
Alla prima, è seguita, agli inizi del ‘600, la fase con cui vennero completate le opere precedentemente in fase di costruzione.
Il suo aspetto è suggestivo e imponente. Il complesso mostra i segni di un bel tempio, con pianta a croce latina con cupola ellissoidale ed abside poligonale. È visibile la torre campanaria con lo stemma dei Del Balzo (gli Orsini), rappresentato da una stella cometa di 16 raggi.
La struttura subì i primi danneggiamenti in occasione dei terremoti del XVII secolo e in particolare di quello del 1694. Il tetto molto probabilmente crollò intorno alla seconda metà del ‘700.
Nel 1767 fu costruito un corpo laterale per contenere l’azione della struttura centrale. L’evento sismico del 1980 ha ulteriormente aggravato le condizioni della chiesa.
La chiesa è costituita da una navata centrale, delimitata sui due
lati da tre nicchioni con arco a tutto sesto, che si innesta nel transetto attraverso un ampio arco trionfale.
Nel 1726 la facciata principale era già completa, con due porte (una principale ed una secondaria).
Il campanile era dotato di due grosse campane e di una più piccola facente parte dell’orologio e raggiungeva un’altezza di circa 50 metri. Vi erano 9 altari tutti ornati di statue e quadri, parte dei quali sono conservati nelle altre chiese cittadine.
L’interno del tempio presentava, sul lato sinistro, l’altare del SS. Sacramento, l’altare di Santa Maria del Popolo, l’altare di Santa Maria La Grazia e l’altare di Sant’Antonio da Padova.
Vicino l’altare maggiore era il pergamo in legno lavorato, mentre dietro l’altare era sistemato il Coro. Vi era anche un decoroso organo a canne a nove registri.
Sotto il Coro e sotto il pavimento, vi erano delle fosse sepolcrali tra le quali anche fosse gentilizie per la sepoltura dei membri appartenenti alle famiglie più nobili del paese.
Nel lato destro, a partire dall’ingresso secondario, vi era l’altare della SS. Trinità, l’altare con cappella della SS. Annunciazione di Maria Vergine quindi l’altare dello Spirito Santo e, ultimo, l’altare della SS. Concezione.
Nel tempio vi erano inoltre, candelieri in argento sull’altare maggiore, suppellettili sacre, statuette e qualche dipinto nelle cappelle. In sacrestia vi erano un paio di grandi armadi per le suppellettili e vestiario per i sacerdoti.
L’edificio è stato officiato fino al 1750-60 e dopo fu abbandonato del tutto.
Del fasto che questa chiesa ha rappresentato per circa trecento anni, oggi non resta che un rudere muto e silenzioso, del quale possiamo solo in parte immaginare il passato splendore.
Bibliografia (in fondo)
COMUNE DI GROTTOLE- GAL BRADANICA : Ricerca storica della Pro-loco a cura di Tania Marino, Enza Lacetera, Mariagrazia Timpone – Revisionata da Silvio Donadio e Giovanni Quaranta. TITOLO : “Grottole gioiello sconosciuto che aspetta di essere scoperto – stampata presso Tipografia Abatangelo – Miglionico e revisionata nel Settembre del 2014
Silvio Donadio
Venosa (Pz). Centro storico: Chiesa di S. Martino dei Greci
Chiesa di S. Martino dei Greci (Largo S. Martino). Ubicata nel centro storico della città, a cerniera di un grande isolato, la chiesa è caratterizzata dalla facciata principale con un portale in pietra con timpano spezzato a volute di epoca settecentesca; mentre la parte superiore, “al cui centro si apre una finestra in asse con il portale, termina con un profilo a vento ad andamento curvilineo” (Masiello 1994, p. 260). Piccola chiesa parrocchiale attorno alla quale si sviluppa un quartiere abitativo di epoca medievale, definita “la più antica chiesa che sia” (Cappellano 1985, p. 54). Le prime notizie relative alla chiesa risalgono al 1232 anche se è probabile che fosse stata costruita prima, nel X secolo in relazione all’arrivo dei Basiliani a Venosa, come attesta la sua appartenenza dal punto di vista giuridico al monastero basiliano di S. Nicola di Morbano. Oggi l’edificio è sconsacrato e non accessibile.
Bibliografia
A. Cappellano, Venosa 28 febbraio 1584, R. Nigro (a cura di), Venosa 1985
E. Masiello,Venosa. Storia città architettura, Lavello 1994
P. Romaniello-A. Groia, Piano particolareggiato di Venosa, Venosa 1981, p. 7
(Tonia Giammatteo)
Venosa (Pz). Centro storico: le fontane con i leoni
Fontana Angioina (o “dei Pilieri”). Una delle fontane pubbliche costruite in seguito a privilegi sovrani concessi alla città tra XIII e XIV secolo, ubicata all’inizio del centro storico, nei pressi del castello. Costruita nel 1298 nei pressi di una delle porte urbiche, quella occidentale, all’ingresso della città. La fontana è caratterizzata dalla presenza di due sculture leonine poste all’estremità e da un’ara nell’area centrale dello spazio antistante, elementi di spoglio provenienti da Venusia romana. Da sottolineare il valore simbolico delle figure leonine, protezione delle acque, e in particolare il leone di sinistra, caratterizzato da una testa di ariete sotto la zampa, emblema della supremazia venosina sulle città della Puglia, alle quali conduceva la strada che partiva dalla porta venosina posta nei pressi della fontana
Fontana di Messer Oto. Seconda fontana pubblica costruita nel 1313-1314 per licenza di re Roberto, posta in un piccolo slargo del centro storico, lungo uno dei percorsi principali che guarda il vallone del Reale. La fontana è decorata con un leone in pietra di epoca romana, in posizione accovacciata che campeggia sulla fontana, in questo contesto da leggere come simbolo della protezione delle acque.
Bibliografia
A. Cappellano, Venosa 28 febbraio 1584, R. Nigro (a cura di), Venosa 1985
T. Giammatteo. Spolia. Il riuso dell’antico a Venosa, Lavello 2002
E. Masiello,Venosa. Storia città architettura, Lavello 1994
Tonia Giammatteo