In occasione del 50° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, il materano Francesco Paolo Francione ha inviato alla nostra redazione un documento in sua memoria. Di seguito la nota integrale.
“Nel piccolo camposanto dove riposa le ortiche non fanno in tempo a crescere”
“Don Milani ha consacrato tutta la sua esistenza all’esercizio delle scelte gravi, cioè delle scelte secondo coscienza cristiana. Optò per lo stato di povertà, rifiutando gli agi della sua condizione borghese “. Così l’avvocato Adolfo Gatti, nell’arringa in difesa del prete imputato per aver preso posizione in favore della “obiezione di coscienza”, contro i cappellani militari che l’avevano considerata un “ insulto alla Patria”.
L’opzione a favore dei poveri era stata ben compresa dai ragazzi di Barbiana che avevano scritto a Mario Lodi, un maestro che operava nel Cremonese: “ ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari”.
Le scelte “secondo coscienza cristiana” vengono fatte in determinati contesti esistenziali, segnati da un particolare “spirito del tempo” che don Milani sapeva cogliere con fine intuito e con largo anticipo: “si sentiva sempre vivo, in don Lorenzo il senso del divenire del costume e del pensiero umano”; e lo stesso priore, scrivendo a Mons. D’Avack e riferendosi alla recensione di Esperienze Pastorali, lamentava che Padre Perego “ non si è fatto scrupolo di togliermi, nel citarmi, questi precisi e inequivocabili aggettivi determinativi dando così maliziosamente alle mie frasi quel tono cattedratico e universale che comodava a lui far assumere “.
In breve, egli “ non parlava né scriveva mai in astratto”, ma prendeva lo spunto da situazioni concrete.
A. Un manifesto per la scuola.
Quelle (situazioni concrete) che provocarono La Lettera ad una professoressa si verificarono nell’estate del 1966: da una parte, don Milani, avvilito, constatava con quanta sistematica pervicacia i suoi ragazzi che si presentavano come privatisti agli esami nell’Istituto Magistrale venissero respinti; dall’altra, leggeva sul quotidiano “Il Giorno” che suo nipote Andrea, figlio del fratello neuropsichiatra, risultava essere uno studente eccellente, poichè aveva superato gli esami di maturità in un prestigioso Liceo classico prendendo tutti dieci e solo due otto ( in greco ed educazione fisica). Al giornalista Paoletti che era andato a intervistarlo a Courmayeur dove stava in vacanza con sua mamma, dottoressa con 110 e Lode, il giovane confessava che in Storia dell’arte aveva preso dieci senza averla mai studiata e che ” se gli esami fossero una cosa seria , quei voti non li avrebbe presi “.
Gianni, bocciato più volte, quando arrivò a Barbiana “ non sapeva nemmeno mettere l’ acca al verbo avere e dalla scuola di Stato era uscito analfabeta e con l’odio dei libri” . L’insegnante aveva detto ai genitori “ Mandatelo nel campo. Non è adatto per studiare”. Ma a Barbiana aveva lavorato parecchio e aveva fatto progressi, aveva bisogno solo di un piccolo incoraggiamento ed invece la professoressa gli disse: “ Lo vedi che non ti sai esprimere”. Pierino e Gianni, due ragazzi in carne e ossa, simboli di classi sociali contrapposte.
Milani era profondamente convinto che quel sistema scolastico disattendeva in maniera grave e plateale il dettato della Costituzione Italiana; che non si poteva restare ancora indifferenti dinanzi alle centinaia di migliaia di figli di contadini e montanari che gridavano muti la loro disperazione di analfabeti; che non si doveva lasciare soli e rassegnati la moltitudine di genitori cui veniva detto che “ i loro figli erano negati per gli studi”, poichè Dio non fa nascere “ i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri”.
E non erano pochi quelli che, come lui, avevano orecchie e intelligenza per rendersi conto che la scuola non poteva essere “un ospedale che rifiutava i malati e curava i sani”, e che “ la suola ha un problema solo. I ragazzi che perde “. Collaboratori assidui a Barbiana erano, infatti, Agostino Ammannati e Adele Corradi , insegnanti nella scuola di Stato.
Anche a Matera che, in quegli anni, era la capitale del mondo contadino, don Giovanni Mele faceva esattamente ciò che il suo confratello faceva a Barbiana, cioè un doposcuola severo, a suon di punizioni; chiamava ” catarina” la striscia di una persiana con la quale bacchettava sulle mani gli errori gravi di grammatica e quando mandava i suoi ragazzi agli esami di ammissione alla scuola media e se li vedeva tornare mortificati e respinti, gli si leggevano in faccia le cose che avrebbe voluto dire alla professoressa di italiano che, guarda caso, ripeteva lo stesso ritornello della collega di Firenze: “ lo vedi che non ti sai esprimere”. Ma don Giovanni, nel Borgo contadino di La Martella, viveva in un altro contesto ambientale, era figlio di proletari, privo non tanto degli strumenti espressivi quanto del sostegno culturale su cui poteva contare il prete fiorentino. . A questi, ancora oggi, dovrebbe essere riconosciuto il merito d’aver dato voce alla massa di diseredati che non avevano la parola e d’averlo fatto in maniera convincente, in forma altamente poetica, come in tutti i suoi scritti, ponendosi nel solco della buona letteratura del Novecento, non solo per quello che dice ma “ per come lo esprime”.
Ma quale era il metodo educativo che don Milani proponeva in alternativa a quello adottato nella scuola pubblica? Nella risposta all’ amica Brambilla, nel 1960, egli sminuisce il ruolo dell’educatore, il suo e quello dei genitori, e afferma che i suoi ragazzi non sono affatto degli eroi: si sarebbero limitati, infatti, a constatare che 12 ore di studio duro a Barbiana erano sempre meglio che 14-16 ore nel bosco a badare pecore. In breve, “ era la vita dura che aveva lavorato per loro”.
E, quasi in continuità con quel tipo di vita, Milani prediligeva la durezza di metodi severi e autoritari che permettevano di raggiungere il risultato desiderato, cioè quello di dare la parola e la penna a ragazzi timidi e paurosi, trasformandoli in sovrani. “ La scuola deve essere monarchica assolutista, se vuole creare gli strumenti della democrazia”. E s’ infuriò senza ritegno quando, nella mattinata in cui aveva accompagnato i suoi ragazzi a vedere il film “Roma città aperta” di Rossellini , vide studenti abbandonati “in risate tragiche e sconce” in un “tranquillo chiacchiericcio”, senza che nessuno degli insegnanti presenti facesse quello che lui fu costretto a fare, cioè interrompere la visione del film. Era necessario studiare e preparare i ragazzi ad apprezzare un’opera d’arte su cui gli riuscì di scrivere, en passant, brevi note di buona critica, come fece poi con Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, rivelando la vasta gamma dei suoi interessi culturali. La stessa tensione pedagogica, potente e ineguagliabile, lo spinse a desiderare che persino i ragazzi di quinta elementare venissero avviati allo studio del latino e del greco, in netta opposizione all’indirizzo del Parlamento Italiano che stava togliendo il latino nella riforma della scuola media.
Ma è felicissimo quando verifica che quella severità permette di raggiungere il risultato sperato e, nella lettera al giovane Michele che s’era permesso di criticare la scuola di Barbiana, scrive: “ Stanotte, non potendo dormire per la tosse, ho pensato tutt’a un tratto che (…) era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già uomo e non ha più bisogno di balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere.”
I buoni risultati conseguiti gli permettono d’inseguire l’utopia di poter coniugare la qualità dell’istruzione con la scuola di massa e, tuttavia, don Milani è ben presto consapevole che l’esperienza di Barbiana non era esportabile: “ ognuno vede che non ci ho merito alcuno e che il segreto di Barbiana non è esportabile né a Milano né a Firenze”, aveva scritto nella succitata lettera alla Brambilla e, poco prima di morire, smantellò la sua scuola.
B. Un Manifesto per la Pace
Ai ragazzi di campagna che badavano pecore e vacche e zappavano la terra non si poteva continuare a proporre solo la lettura della “Piccola fiammiferaia” né lo svolgimento del tema “ Parlano le carrozze ferroviarie “. Era necessario dare uno scossone ai contenuti che la scuola usava trasmettere e, anche questa volta, un fatto increscioso ne propizia l’aspro confronto: una ventina di cappellani militari avevano scritto che consideravano “ un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.
Ora non c’era di mezzo la bocciatura, ma la vita stessa dei ragazzi, anzi, la vita e la pace degli uomini viventi sulla terra. E don Milani costruisce sui suoi ricordi una lezione di storia e di morale, questa sì, dai toni universali, in cui vengono proclamati principi fondamentali della società moderna. “ Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s’erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla . Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti.” Soldati obbedienti a Mussolini, anzi a Hitler. Con 50 milioni di morti. ” Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore”. Argomentazioni che don Lorenzo trova insopportabili.
“ Bisogna uscire da questo macabro gioco di parole” e “Bisogna avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. E’ tempo d’insegnare ai giovani che “ le frontiere sono concetti superati” ; che “ la Patria è una creatura, cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora “; “che la guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una < guerra giusta> né per la Chiesa né per la Costituzione “.
E questi ideali possono essere trasmessi in una scuola che “ siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi”; che sappia condurre i ragazzi “su un filo di rasoio” tra senso della legalità e volontà di leggi migliori; che “ non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei”.
Molti gli scrivono da Paesi che “ non hanno servizio di leva o riconoscono l’obiezione” e qualcuno gli domanda “ quanto dovrà ancora stare in prigione il povero padre Balducci” . Ci sono al suo fianco uomini come Aldo Capitini, oltre all’Ernesto Balducci, ma anche il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira. Ma il priore si sente rincuorato da un sostegno forse inaspettato : “ Ho avuto conforto dalla Chiesa perché i Vescovi stanno dicendo molto più di me”. In fondo, tutta la sua opera è stata in sintonia con quell’ ansia di cambiamento che aveva indotto Papa Giovanni a convocare un Concilio e che in quegli anni andava manifestandosi, in varie maniere, dall’una e dall’altra parte dell’ Oceano.
Quel prete aveva un carattere difficile e ne fece esperienza, tra gli altri, l’on. Pietro Ingrao che, però, dinanzi “ a qualche critica ingiusta”, non si arrabbiò perché aveva “ grande ammirazione per le cose che aveva scritto e detto “. Capita, talvolta, d’essere convinti di poter guadagnare dalla ricchezza culturale di un uomo, tanto da sapere accettare, in amicizia, anche le sue ingiuste sfuriate.
Anche il Cardinale gli voleva bene : gli manda dei soldi per sostenerlo nel processo e lui ne è felice: “Non le nascondo che qui di soldi ce n’è bisogno sempre e che se vengono da lei mi fanno più piacere di tutti gli altri perché i ragazzi mi vedono tangibilmente legato alla Chiesa che servo da ventidue anni come un cane fedele”. Gli fa però notare, piuttosto risentito, d’essere stato citato in maniera incompleta riguardo al tema della possibilità da parte del singolo di poter valutare la moralità degli ordini ricevuti; vorrebbe rimanere equidistante dalle classi sociali in conflitto ma non riesce a districarsi nel guazzabuglio montato ad arte dalla stampa fascista ( >Specchio>, <Secolo>, <Nazione>) che penetra nelle stanze della segreteria di Stato del Vaticano per diffondere notizie false e calunniose; commette l’ errore di scrivere cose spiacevoli ad un malato che pure teneva molto al suo affetto: “ ma la sua amicizia è di più per me parroco della diocesi di Firenze”.
E don Milani si sfoga con una donna, Giuseppina Melli “ perché le femmine capiscono qualcosa nei fatti altrui mentre i maschi capiscono solo nei loro propri” : “ Ho ricevuto dal Cardinale una lettera ingiuriosissima la quale proviene soprattutto dalle informazioni che ha ricevuto”. E’ furibondo con “quel classista del Vescovo che s’è permesso di scrivere a me e quindi al mio popolo che io non potevo avere una parrocchia perché “manco della necessaria disposizione alla carità pastorale”. E’ convinto che si tratti di una “ignobile montatura letteraria salottiera” che ha ingannato il Vescovo stesso per 12 anni.
Con la pubblicazione dell’opera omnia da Mondadori e con l’annunciata visita che Papa Francesco farà a Barbiana il prossimo 20 giugno, nuovi approfondimenti verranno fatti sull’opera di Don Milani che subisce, com‘ è naturale, la variabile interpretativa della sensibilità culturale e religiosa predominante in un determinato momento storico, aprendosi in tal modo anche a inevitabili strumentalizzazioni.
Oggi, per vari motivi, è agevole mettere in evidenza alcune sue indicazioni protese a sottolineare il primato dell’amore del prossimo come strada maestra per avvicinarsi a Dio e costruire una fratellanza universale, anche prescindendo da ogni credo.
Scrive nel Testamento: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”. E all’ansiosa ragazza napoletana: “ Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio. (..) Ti troverai credente senza nemmeno accorgertene”. Ed, infine, al giovane comunista scomunicato che dei preti ne farebbe “volentieri polpette” : “Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò”. Ma verrà mai un giorno in cui Pipetta non avrà più fame né sete?
Francesco Paolo Francione
Le citazioni sono tratte da:
Lettera ad una Professoressa, Libreria Editrice Fiorentina: pp.11, 17, 20, 60, 35,94.
L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina: pp. 23, 36, 43, 45, 46, 51,57,58, 61.
Lettere di Don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Arnoldo Mondadori Editore: pp. 4, 101, 278, 291.
Fallaci Neera, Dalla parte dell’ultimo, Milano Libri Edizioni: pp. 340, 353, 439 , 353, 340, 349, 359, 427, 455, 474, 481, 485, 488, 507.
Affinati,E. Il Venerdì, 14 aprile 2017, p. 108 .