La Rete culturale meridionalista “Carta di Venosa” festeggia l’altra “metà del Cielo”, ricordando le “donne del/nel brigantaggio” che, all’alba della Nuova Italia, pagarono dazio inenarrabile di sofferenze nella speranza, consapevole o meno che fosse, di un’esistenza più a misura d’uomo.
“Ricordando”, non “celebrando” e nemmeno “deprecando”, perché lo sforzo vuole solo essere quello di comprendere e di contestualizzare nel contesto storico e nella cultura contadina di quel periodo la massiccia presenza, talvolta spontanea ma più spesso forzata, di genere.
Non “celebrando”, perché siamo intimamente convinti di non essere in presenza di una sbandierata “eroicità” propalata da alcuni in uno sforzo pseudo identitario che mira a caricare di inesistenti progettualità politiche l’espressione femminile del disagio del vivere delle classi subalterne meridionali.
All’opposto, nemmeno “deprecando”, perché non si può giudicare comportamenti e azioni del passato con le categorie dell’oggi come, con superficialità, certa lettura “ufficiale” della ribellione contadina meridionale indulge.
Non a caso, perciò, abbiamo voluto parlare di “donne del brigantaggio”, piuttosto che ricorrere all’abusato lemma di “brigantesse”, per indicare anche lessicalmente le prospettive di riflessione che ci proponiamo, distaccandoci dalle opposte letture ideologiche che, a nostro avviso, inficiano la comprensione del fenomeno della presenza di genere nella sua interezza.
E nemmeno a caso intendiamo parlare di “donne nel brigantaggio”, volendo rivolgere uno sguardo complessivo anche alla stragrande maggioranza di esse, a quelle cioè che non scorsero la macchia (con o senza armi in pugno) ma continuarono a vivere nei paesi e nelle famiglie, subendo comunque l’oltraggio degli affetti e delle carni, lo sconvolgimento di una, seppur misera, quotidianità esistenziale.
Per questo non parleremo solo di Filomena Pennacchio, peraltro questa sera splendidamente interpretata dall’attrice Jole Franco, e delle altre, cioè delle “brigantesse famose”, di quelle che infiammano ancora le contrapposte letture del brigantaggio.
Rifletteremo sulle vicende umane delle tante, pallide e più anonime figure che attraversarono il brigantaggio, di Giocondina, di Anna, di Rosa, di Filomena, di Arcangela, di Elisabetta, delle tante, anonime donne, mogli, sorelle, madri, amanti, che vissero lo strazio di una guerra sporca; ci soffermeremo sulle molteplici cause e concause che portarono alcune di esse nel bosco e altre nelle prigioni di uno Stato ostile al mondo contadino.
Donne semplici, spesso vestite di stracci, donne diverse di quelle che un’iconografia bugiarda ha rappresentato in abiti volutamente posticci per suscitare le morbosità popolari e per evidenziare la “diversità”, l’anormalità.
Ecco, proprio questo sarà lo sforzo che faremo: ricondurle a quella normalità esistenziale che fu (ed è) a loro negata; lo sforzo di contestualizzarle nella condizione e nella cultura di quell’antico e immobile mondo contadino che affrontò l’urto del “nuovo” che avanzava, preceduto dalle baionette di un esercito impietoso.
Lo faremo senza anacronistici rancori, senza condannare e senza santificare, cercando solo di capire.
E lo faremo insieme, uomini e donne insieme, nel cuore della Basilicata un tempo ribelle, in tutta serenità, chiacchierando tra amici e, perché no, accompagnando le nostre riflessioni con un calice di Aglianico.
Perché, ricordando le loro sofferenze, festa sia anche per queste donne che – per come e per quanto hanno potuto – hanno contribuito a costruire il nostro presente.
E, infine, ci metteremo per un attimo dalla loro parte, ponendoci e ponendo lo stesso interrogativo che Ninco Nanco, nel tentativo di giustificare la sua crudeltà, pose al prefetto dopo l’efferata strage di coloro che con lui trattavano una resa impossibile: “Voi, al posto mio cosa avreste fatto?”
Ecco, ricorderemo l’altra “metà del purgatorio”, provando a vestirci, per una sera, con i loro stessi scomodi panni.