Basilio Gavazzeni: “Manzoni il male la provvidenza”. Di seguito la nota integrale.
Luoghi dell’infinito, il prezioso mensile di itinerari arte e cultura che da ventisette anni accompagna Avvenire, dedica a Manzoni il numero di maggio. Per me l’opera del grande lombardo è vangelo, soprattutto i versi posti sulle labbra di Carlo Imbonati, l’inno sacro La Pentecoste, l’ode Il cinque maggio, la tragedia Adelchi, I Promessi sposi, Il Natale del 1833, Storia della Colonna infame. Serbo riconoscenza al professore che ai miei coetanei del ginnasio e a me, in particolare, ne inculcò la devozione. Come ne ricordo la faccia illividita quando ci comunicò un’inaccettabile esternazione di Alberto Moravia sui Promessi sposi! Fra i saggi che compaiono nel mensile spicca quello di Carlo Ossola, filologo e critico letterario, professore emerito presso il Collège de France , «una lettura organica dell’opera manzoniana e della sua evoluzione nel tempo». Si tratta di una meditazione stilata in una scrittura di rara finezza sottesa da citazioni ora lievi, ora medie, ora prolungate. L’indomito citazionismo di Ossola non è pratica volta alla decorazione, ma nervatura di un ragionare performativo. Il saggio si apre con il riconoscimento da parte di Francesco De Sanctis che, con I Promessi sposi, all’arcadia vana e oziosa era subentrato con potenza «il senso del reale e della vita». Ossola risale i tornanti creativi inanellati da Manzoni per giungere al suo vertice, trapassando dal rigorismo d’impronta giansenista ( cfr l’incipit « O tementi dell’ira ventura» della Passione) al consolante «monologo interiore» «Addio monti…» di Lucia: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e grande» ( cfr I Promessi sposi, VIII). Concezione sapienziale dell’esistenza, accordata a un cuore semplice quando il meglio progetto gli è interrotto. «Compendio e suggello», annota Carlo Ossola, di una Pensée di Blaise Pascal, emerso anche lui dalla distretta giansenista: «Il Dio dei cristiani non consiste in un Dio semplice autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi […]. Non consiste solamente in un Dio che esercita la sua provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini per regalare un felice susseguirsi di anni a quelli che lo adorano […]. Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei cristiani, è un Dio d’amore e di consolazione, è un Dio che colma l’anima e il cuore di coloro che possiede, è un Dio che fa loro sentire la loro miseria e la sua infinita misericordia, che si unisce al profondo della loro anima, che la colma di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore, che ci rende incapaci di un altro fine che non sia lui stesso». Manzoni, non dimentichiamolo, alla scuola di Pascal, fra orrore e compassione aveva considerato «i fatti atroci dell’uomo contro l’uomo», constatando fino alla disperazione che il pensiero, alla ricerca di un colpevole, si trovava «con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla». Vedasi lo sviluppo, la maturazione e l’approdo delle riflessioni dall’Appendice storica su la Colonna infame alla Storia de la Colonna infame, la prima tutt’uno con l’edizione del romanzo detta ventisettana, la seconda egualmente tutt’uno con quella detta quarantana. Manzoni era comunque convinto che la storia porta tutti, grandi e piccoli, al «disonor del Golgota» (cfr Il Cinque maggio). «Là c’è la Provvidenza» (cfr I Promessi sposi), ma se fosse assente possiamo essere degni di lei corrispondendo ai nostri doveri. «Gran segreto è la vita: e nol comprende / che l’ora estrema» (cfr Adelchi). Non sosteneva anche Giacomo Leopardi: «Ma la vita mortal […] / Vedova è insino al fine» (cfr Il tramonto della luna)? Manzoni non mancò di denunciare l’ignoranza di chi si inorgoglisce di conoscere, «quella ignoranza nella quale può cadere, e cade pur troppo, l’uomo delle età più scienziate, e dalla quale può liberarsi l’uomo delle più rozze». Il Manzoni ultimo, quello del saggio scritto fra il 1861 e il 1869, la Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, non nascondeva la disillusione davanti all’esaurimento e all’improduttività di quelle storiche accensioni. Carlo Ossola l’accosta al giudizio di Émile Zola, nato cinquantacinque anni dopo di lui, che nel manifesto L’encre e le sang del 1880, scriveva: «Ditemi, vi prego, quale impero mai il sangue ha fecondato? Dove sono le conquiste fatte dalla spada? Dove l’impero di Alessandro? Dove l’impero di Napoleone? Tutto questo diluvio di sangue ha imbibito la terra senza tuttavia favorire lo sboccio di una sola idea? A ogni guerra il suolo si contamina per secoli. Nulla cresce dove si è versato il sangue, e i campi di battaglia restano maledetti e avvelenati […]». Secondo Ossola, anche nella relazione Unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, sostenendo che l’ “albero della libertà” ha bisogno di scuole e vocabolario, Manzoni anticipava di dodici anni quel che Zola avrebbe scritto: «Irrorare d’inchiostro la giovane generazione nelle scuole, prima di coprirla di sangue nei campi di battaglia». Carlo Ossola, com’è solito, addensa profumi, sfumature, associazioni, sguardi attualizzanti cui è impossibile tener degnamente testa. Ne ho dato solo un’idea, in onore di Manzoni.