Celebrazioni leviane a Torino, Giovanni Caserta: “Carlo Levi? Ma fu nemico del Sud?”. Di seguito la “pretestuosa polemica” dello storico materano.
Ricorre quest’anno il 120° anniversario della nascita di Carlo Levi e da poco è trascorso il 60° dello straordinario Telero Lucania 61, custodito presso i locali della Soprintendenza di Via Ridola, a Matera, da Carlo Levi dipinto in occasione del primo centenario dell’unità d’Italia. Grandi celebrazioni,perciò, ci sono ora a Torino, grazie a tre Circoli o Istituzioni che hanno stretti collegamenti con la Lucania Basilicata. Oggi, 14 aprile, è la rappresentazione dello spettacolo Il sindaco Contadino – Rocco Scotellaro di Ulderico Pesce. Avvieneall’interno del Mercato Centrale di Torino, ristrutturato e gestito da Umberto Montano, imprenditore e operatore culturale di origini stiglianesi. Mostre e conferenze hanno organizzato e organizzano il Circolo dei Lettori e l’Associazione “Carlo Levi”dei lucani in Piemonte, presieduto da Prospero Cerabona, editore, originario di Santarcangelo, che, per l’occasione, in bella veste, ha pubblicato il Telero Lucania 61, con patrocinio della Comunità Europea e prefazione di David Sassoli, scritta pochi giorni prima della sua prematura morte. .
Purtroppo queste celebrazioni hanno rimesso in moto, non inaspettatamente, antiche e infondate polemiche, a rivisitazione negativa di Carlo Levi, ritenuto avverso e offensivo verso Aliano, le sue donne sporche e i suoi contadini zotici, e verso la Lucania Basilicata e il Sud intero. Lo fanno scrittori e pittori lucani, o aspiranti scrittori e pittori alla ricerca di una identità. Lo si è fatto da qualcuno durante i preparativi e gli allestimenti di “Matera capitale europea della cultura 2019”. Spesso vi si aggiunge qualche voce di lettore facile ad adombrarsi, magari di tendenza filoborbonica, che ancora gode a contrapporre il Sud al Nord e il Nord al Sud, naturalmente a vantaggio del Sud.
Già altre volte, perciò, ci è capitato di entrare nell’agone, cercando, con testi e fatti, di dare serenamente a Levi quel che è di Levi, nella ovvia considerazione che, a distanza di non pochi anni, molte cose cambiano nel modo di pensare, anche in base a fatti storicisuccedutisi nel tempo.Invece, leggendo alcuni interventi polemici di questi giorni, segnati da pregiudizievole gusto iconoclastico, ci è sembrato di tornare addirittura indietro di oltre settant’anni, cioè all’anno di uscita del Cristo si è fermato a Eboli, 1945, quando alcuni lettori, sentitisi offesi, mandarono in tribunale l’autore del libro.Abbiamo sempre chiestodi accostarsi ai testi di “don Carlo”, rinunziando a servo encomioe a codardo oltraggio. Non è difficile, a distanza di quasi cinquant’anni dalla sua morte e quasi ottanta dall’uscita del suo capolavoro, dimostrare come Carlo Levi sia ormai, in più punti, uno scrittore ideologicamente e politicamente zoppicante, e spesso in errore, per troppa concessione – si direbbe – al sogno e alla utopia. Nulla di scandaloso. Il discorso vale per tutti i poeti e artisti. Si tratta di andare oltre, più nel profondo. Rispetto ad alcuni assunti di Carlo Levi, sono saltati fuori “errori” ormai evidenti. Certamente è da considerarsi“errore” la proposta del “Comune rurale autonomo”, di cui voleva essere una realizzazione concreta, in territorio materano, il borgo La Martella, definito da Cesare Musatti ”il più bel borgo contadino d’Italia”. Si è visto qual è stata la sorte di quel borgo. La storia, ancora, ha fatto emergere, in tutta la sua evidenza errata, il mito di una Unione Socialista Sovietica, dove – secondo Levi – si era compiuto il miracolo di una rivoluzione del sentimento, ovvero di una rivoluzione nella conservazione, o, ancora, il miracolo di un futuro dal cuore antico.
Era molto ambiguo anche il concetto di fondo della sua “filosofia”, che faceva discorrere di una “civiltà contadina” che non convinceva Alicata, comunista di animo furente, ma nemmeno convinceva un moderato e grande amico di Levi, qual era Giorgio Amendola. Noi stessi, nel dedicare un nostro lontano saggio al pittore Ginetto Guerricchio, preferimmo parlare di ”condizione contadina”, come condizione economico-sociale di depressione che, come sempre succede, aveva prodotto un sistema di autodifesa e di sopravvivenza, la quale, a sua volta, aveva portato allo sviluppo di valori quali l’ospitalità, la comprensione, la reciprocità, la solidarietà, persino uno stoico senso del dolore e della sofferenza, che qualcuno, come Friedmann, collegava alla filosofia magnogreca, presocratica. Levi prefigurava i pericoli che potevano correre tali “valori” con una modernità industriale, tecnologica, di importazione. Alcuni, di conseguenza, erroneamente, credettero che Levi volesse chiudere il mondo contadino al progresso, alle automobili, ai trattori, alla istruzione, creando una sorta di riserva indiana. Carlo Levi si difese e, proprio a Matera, chiamando in suo soccorso Gramsci, asseriva di aver parlato di immobilità contadina solo perché voleva che quel mondo si muovesse,
Da parte di critici a lui avversi – letti anche in questi giorni – si osserva che Levi ha ritratto la realtà di Aliano non così come essa è o era, ma secondo una visione che era ed è solo sua. Si dimentica che il Cristo si è fermato a Eboli, ma anche il resto dei libri dello scrittore torinese, uscito come saggio, si qualificò libro di narrativa e, bisogna dirlo, di poesia. Era il modo di porsi di Levi di fronte all’arte, che, secondo lui, era, manzonianamente, invenzione, cioè ritrovamento o rinvenimento del profondo delle cose, della storia e della cronaca. Lo strumento dell’artista era per lui, bergsonianamente, l’intuizione, non la ragione. Bergson, in proposito, diceva che mille fotografie di Parigi non danno di Parigi la “idea” e l’anima e la “verità” che ne dà il pittore o lo scrittore, quando facciano poesia. L’oggetto, il fatto, nell’arte, come si imparava già a scuola, è soggetto alla trasfigurazione o “capacità formante dell’artista”, che ne dà il segno, creando simboli. Grazie a questo processo, Aliano è diventato tutto il Sud, il contadino di Aliano è diventato l’uomo in assoluto, per natura indirizzato verso i valori di libertà e giustizia. Levi, artista, scrisse e dipinse da artista. Scrisse dipingendo e dipinse narrando, come accade, in forma vasta, nel suo telero Lucania ’61, grande pittura, vero “poema” epico. Sul piano etico e civile, ovviamente, essendosi egli indentificato con l’innocente contadino alianese, umiliato e offeso, aspirante tuttavia alla libertà e alla giustizia, ne proponeva dappertutto il riscatto, a tutte le latitudini, nella convinzione che la Lucania siamo noi, ed è in ognuno di noi. Molte Lucanie – diceva – esistono al mondo, tutte da portare alla giustizia e alla libertà. La Lucania è, per Levi, “anima mundi”; l’umanità. Di qui le sue battaglie per tutti gli uomini umiliati e offesi, dounque si trovassero:nella Germania divisa, nella Sardegna depressa, nella Sicilia vittima della mafia, nel Vietnam bombardato dagli Americani, fino a vedere tutta la Russia contadina, riscattata e salvata, grazie al socialismo. Alla fine nemmeno mancò, attraverso la Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie), di occuparsi degli emigrati, soprattutto meridionali. Oggi si schiererebbe contro Putin, per gli ucraini e per i profughi provenienti dall’Africa.
Insomma anche in Carlo Levi le ragioni del cuore e della poesia, cioè del sentimento, si dimostrano più forti e coerenti delle ragioni della mente e della scienza. Meraviglia che qualcuno, anche in questi giorni, cerchi in Levi il fotografo o il cronista o il documentarista. Se Levi ha avuto, nella storia del Sud e della Lucania Basilicata, un grande merito, questo va attribuito proprio al suo Cristo si è fermato a Eboli, e solo al suo indiscusso valore poetico e alla tensione civile e morale che lo ispira. Ne è derivato il gran successo che ne ha fatto un libro tra i più tradotti al mondo ancora oggi. È la dimostrazione che il suo messaggio, proprio perché poetico, e intenso, è oltre il tempo e lo spazio. Ne è nata una grande denuncia. Ciò significa anche che, nella questione meridionale, quel libro ha avuto molto più peso che i saggi di Giustino Fortunato e Salvemini e Guido Dorso e Manlio Rossi Doria, esattamente come e più di quanto contarono Le mie prigioni del Pellico nel nostro Risorgimento. Senza Levi, Matera non sarebbe patrimonio dell’Unesco e nemmeno capitale europea della cultura. Che poi questi titoli siano stati sciupati da una politica chiusa in sé, faziosa e miope, è affare che riguarda chi in regione e nel Sud ha gestito e gestisce la cosa pubblica come fosse cosa privata, buona solo per sé e per gli amici.E’ un tradimento di Levi.