Riportiamo di seguito il testo della meditazione proposta questa mattina da Giuseppina De Simone, docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale.
“Il gusto buono del nostro pane. Chiesa, sinodalità, Eucaristia” Il pane di tutti e di ciascuno «Il paese dove siamo nati e dove siamo cresciuti ci ha donato il sapore del suo pane. Quando il destino ci spinge o ci esilia in un’altra terra, ce lo portiamo con noi, in noi. Chi perde questo sapore, perde una parte del proprio paese e di se stesso. Ognuno porta in sé la propria storia del pane spesso come un segreto» Così scrive Pedrag Matvejevic nel suo libro Pane nostro frutto di una ricerca sulla storia del pane condotta per venti anni seguendo la traccia di un ricordo della propria storia familiare intrecciata a quella della terra ucraina durante la Seconda guerra mondiale. La storia del pane abbraccia l’intera storia dell’umanità. Il pane è più antico della scrittura e del libro e niente forse più del pane racconta l’umanità. Il cammino che ha condotto dal chicco crudo a quello cotto, dalla farina al pane è stato lungo. Ma «l’uomo che preparò il pane era diverso dai suoi antenati. Si era affacciato alle soglie della storia» (13). «L’origine del pane accompagna la trasformazione dei nomadi in stanziali, del cacciatore in pastore, di entrambi nell’agricoltore» (12). E con l’agricoltura nascono gli insediamenti umani, il paesaggio si trasforma, il tempo viene suddiviso in stagioni mesi settimane. Quella del pane è una storia che attraversa terre e popoli. Non sappiamo «dove e quando germogliò la prima spiga di grano» (11). Dal Corno d’Africa dagli altopiani dell’Etiopia e dell’Eritrea, dall’Egitto e dalle pianure della “mezzaluna fertile”, dall’Africa e dall’Oriente lungo la storia i semi sono stati trasportati e trapiantati da una terra all’altra. «I cereali trasportati dall’Est e dal Sud hanno contribuito all’incremento del numero degli abitanti dell’Ovest e del Nord» (175). E insieme ai semi viaggiavano «l’esperienza e il bisogno» (41). Le conoscenze sul grano e sul pane sono state tramandate di generazione in generazione. E nel contatto tra i popoli, negli scambi e nelle dominazioni «ognuno imparava da qualcun altro. Ma non in tutte le circostanze sappiamo chi è “l’altro” e per quali ragioni potrebbe esserlo» (64). Il pane è «prodotto della natura e della cultura» (17). La qualità del pane e del grano dipende dalla specie del seme e dalla fertilità del terreno nel quale germoglia e cresce (cf 23) dalla qualità dell’acqua usata per impastarlo, dal sale, dal lievito, dal tipo di legno messo a bruciare nel forno o nel focolare (cf 26) ma anche «il lavoro e la fatica del corpo diventano pane» (28). Non c’è un unico pane. Le modalità di lavorazione, le forme, il sapore cambiano da paese a paese e nascono da storie diverse legate alla specificità dei territori e alla vita che in essi si è resa possibile, alle vicende che l’hanno segnata. Recano in sé l’ingegno la fantasia, la fatica dei tempi di siccità, di carestia o di guerra, l’allegria dei giorni di festa, l’intimità della vita quotidiana. Ci sono pani diversi così come diversi sono i nomi che designano il pane e i pani nelle differenti culture. Ma ovunque, e qualunque sia la forma e la denominazione del pane, le parole usate rimandano al senso della protezione e della custodia, così come a quello del dono e dell’ospitalità. Il pane nutre e preserva ed è pane condiviso e da condividere. Nelle lingue indoeuropee e nelle lingue germaniche e nordiche la radice è la stessa della parola padre. «I derivati latini e romanzi di pane (m) hanno prodotto le parole composte che stanno a indicare la relazione tra coloro che dividono il pane comune» (182). Il pane unisce e distingue. Ci accomuna pur nella più grande diversità. Qualunque sia il suo sapore il pane ha il gusto di quel che è comune, il sapore della condivisione più elementare ma anche più intima, «non è figlio della solitudine» (204), nasce dal lavoro fatto insieme ed è così forte il legame con gli esseri umani da motivare la corrispondenza, più volte messa a tema, tra il pane e il corpo. «Quando il pane è vero il corpo è sano» (20). Tutti i cinque sensi, l’olfatto, il tatto, la vista e perfino l’udito, ognuno a modo loro sono collegati al pane e insieme ne accolgono il dono. «In alcuni paesi islamici – scrive Matvejevic – si infila il pollice nella pasta prima di metterlo sul fuoco o nel forno, per confermare che a farlo è stata la mano dell’uomo. “Il cuore del pane” – la mollica dell’interno estremo – veniva posto sulle ferite da taglio per fermare il sangue e rimarginarlo. Il corpo ferito lo recepiva, quasi sottomettendosi» (22). Il pane unisce, crea legami, ma può anche dividere, essere usato per scavare solchi profondi fra gli esseri umani: quando è sottratto o alterato; quando diventa strumento di potere o di ricatto, di dominio economico e culturale. «Nei periodi di estrema fame e durante le peggiori epidemie si macinava e si impastava nelle varie parti del mondo tutto ciò che poteva essere usato come surrogato del grano» (34) per necessità, ma anche per speculazione, e si diffondevano così ulteriori terribili malattie che decimavano la popolazione. Ancora oggi succede là dove la carestia e la guerra disegnano scenari di miseria e di estrema precarietà. Sulla disponibilità di grano e di pane da sempre si gioca la forza o la debolezza del potere. Affamare un altro popolo vuol dire creare le condizioni per assoggettarlo. Ma anche controllare i flussi e gli approvvigionamenti dei cereali determina una situazione di dipendenza e di controllo della vita di paesi e di popoli (come stiamo purtroppo vedendo nella guerra che si combatte in Ucraina). Il pane che manca racconta della drammaticità dei conflitti, anche di quelli dimenticati o nascosti, e della devastazione che producono. Attesta la pervasività dei sistemi di potere: di quelli visibili e di quelli invisibili, che agiscono sulle sorti dei popoli e gestiscono gli equilibri del mondo. La storia del pane di ieri e di oggi racconta gli assoggettamenti e le dipendenze, ma anche i percorsi di liberazione: come il pane azzimo del popolo di Israele o come il pane condiviso con i fuggiaschi e i prigionieri durante i conflitti di ogni tempo, il pane della pietà e della interiore rivolta contro la logica della violenza e della negazione dell’altro, il pane distribuito ai poveri perché custodisca la loro dignità, e il pane ritrovato nel recupero di colture e di tradizioni antiche oltre la massificazione omologante di una certa globalizzazione. Il pane conserva in sé la memoria: di quello che è stato, della parte migliore del passato o delle sue ferite. È viatico per il tempo che viene. Il gusto del pane attraversa il tempo e si apre sull’eternità. «Resti di grano e pane si sono conservati nei sepolcri, accanto alle urne e ai sarcofagi, nelle piramidi – là dove ci si congedava dalla vita terrena nella speranza di una vita eterna» (16-17). «Il pane è presente nelle fede e nella preghiera». È il pane dei pellegrini, il pane dell’offerta, il pane delle feste religiose (vivaio di una grande varietà di tipi di pane), il pane dell’elemosina, della sobrietà, della condivisione e della giustizia. «Spesso il percorso del pane e quello della religione si sono sovrapposti o hanno camminato paralleli» (83).