Sul piano pratico, a Matera, il Congresso Eucaristico Nazionale, la venuta del Papa e la chiamata alle urne faranno del 25 settembre una domenica problematica. Siamo sicuri, tuttavia, che le Istituzioni hanno già messo a punto un programma d’intesa e di collaborazione per fronteggiare la sfida triforme. Dai cittadini e dai forestieri ci si aspetta poi una partecipazione calorosa e intelligente. Si presume che in tutti, laici e credenti, vi sia una fame di cose concrete, di cose raggiungibili nell’eguaglianza e nella comunione. A rifletterci, una coincidenza simile di eventi non si è mai verificata in nessun luogo. È una prima volta che sospinge Matera a un’altra ascesa singolare che deve essere meritata sia dalle Istituzioni sia dalla cittadinanza. In contemporanea il Congresso e la presenza papale previsti da tempo e le elezioni calate quasi ex abrupto ci obbligano a convergere su una lezione essenziale. Il Congresso e il Papa innalzano il Pane soprannaturale in cui Gesù stesso si autodistribuisce sbrecciatamente, mentre le elezioni scuotono la politica perché provveda a quello materiale. «Il pane è giustizia» afferma un detto orientale. La mensa dell’Eucaristia non è un’evasione intimistica e spiritualistica e le elezioni non sono una kermesse per provare agli altri che esistiamo, ma ci agganciano alla carne viva della realtà. L’ actuosa participatio, attiva piena e fruttuosa, degli eucaristizzati corrisponda a qualcosa di analogo dei cittadini più sensibili all’impellenza politica e geopolitica. A chi inclinasse all’assenteismo, a fuggire al mare, ricordiamo che ogni uomo è responsabile del suo tempo, soprattutto quando imperversano turbolenze.
Il gatto e il sole
«Le chat ouvrit les yeux, / Le soleil y entra. / Le chat ferma les yeux, / Le solei y resta. // Voilà pourquoi le soir, / Quand le chat se réveille, / J’aperçois dans le noir, / Deux morceaux de soleil». Traduco alla lettera: «Il gatto aprì gli occhi, / Il sole vi entrò, / Il gatto chiuse gli occhi, / Il sole vi restò. // Ecco perché la sera, / Quando il gatto si ridesta, / Intravedo nel buio, / Due frammenti di sole». È una poesiola del belga Maurice Carême che ho mandato a memoria e che recito, con altre, in talune occasioni, mettendo a frutto la tecnica dell’espressione insegnatami dal grande Carlo Tamberlani. Vi sono ricorso ancora giovedì sera, alla fine di un’adorazione del Santissimo. Ho spiegato il perché. Dopo esserci esposti al sole dell’ostensorio siamo come il gatto nei cui occhi è penetrato il sole. Nel buio dell’Occidente, che sembra voler essere davvero la terra del tramonto, il sole dell’Eucaristia che ci entra nella vista e nella vita – lemmi etimologicamente non distanti – ci assicura la sua luce superiore che può essere intravista anche da altri.
Per una stagione symbolpoor
Se il filosofo svizzero-tedesco di origine coreana Byung-Chul Han ha ragione quando diagnostica che le nostre società soffrono una crudele assenza di riti e cerimonie, allora il Congresso Eucaristico può essere una terapia culturale. La città e il popolo che celebrano offrono identità e riti che aprono varchi nell’egocentrismo e nel narcisismo di massa. Il filosofo definisce le pratiche rituali «tecniche simboliche per sentirsi a proprio agio nel mondo. I riti trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa». Ci radicano in un tempo e in uno spazio strutturati e ci liberano dalle ossessioni del lavoro, del divertimento e dello smartphone. Il filosofo inaspettatamente pone la sua lente d’ingrandimento proprio sulla Messa e sulle azioni che il sacerdote vi compie: «Le pratiche rituali assicurano che trattiamo non solo le altre persone, ma anche le cose in modi accurati, che c’è un’affinità fra noi e le altre persone, così come con le cose. La Messa insegna ai sacerdoti a maneggiare le cose in modi belli: il tenere delicatamente il calice e l’Ostia, il pulire lentamente il calice e la patena, il girare le pagine del libro. E il risultato della bella gestione delle cose è una gioia che solleva lo spirito». Mi convince, questa laica argomentazione, a divenire un alunno più esemplare della Liturgia come non pochi confratelli e ad andare umilmente fiero dei riti cui sono preposto.
Cibus viatorum
Il viatico è la provvista di cibo per un cammino. Tale è ritenuta l’Eucaristia per il nostro pellegrinaggio sulla terra. Nel glossario cattolico indica in specie l’Eucaristia forza e pegno di risurrezione che si amministra a chi è in pericolo di morte, in quel passaggio che Giovanni Pascoli, in una poesia intitolata appunto Il viatico, descrive come «piccolo passo, ch’è un volo / di mosca, ch’è un attimo solo […]». Lasciatemi denunciare con parresia che lo Spirito del Tempo (le maiuscole sono immeritate, ma si adeguano alla locuzione tedesca) ci avvia perfino a morire morsicati dal colubro di Esculapio, ma ci distoglie nei più diversi modi dal garantire a un caro in fin di vita il viatico necessario per la scarpinata ultima. Giovanni Pascoli conclude: «Portatemi […]/ portatemelo anche a me quel pane […]». Che è «comunione col corpo del Signore» ( 1 Cor 10,16). Il quale ha detto: «[…] Io sono il pane della vita […] se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (cfr. Gv. 6,32 – 35.51). Eucaristia buon viaggio assoluto cui segue subito la mèta raggiunta! Non ci sarà più viaggio. Quel giorno nessuno mi metta le scarpe.
Avari con il Re dei re?
«Ero andato mendicando d’uscio in uscio / lungo il sentiero del villaggio, / quando il tuo cocchio dorato / apparve in lontananza / come un magnifico sogno / e mi chiesi chi fosse / questo Re di tutti re! // Le mie speranze crebbero, e pensai / che i brutti giorni fossero passati, / e rimasi in attesa di doni non richiesti, / di ricchezze profuse da ogni parte. / Il tuo cocchio si fermò vicino a me. / Mi guardasti e scendesti sorridendo. / Sentivo che alfine era arrivata / la fortuna della mia vita. // Poi, all’improvviso, / mi stendesti la mano / chiedendo: “Che cos’hai da darmi?” / Quale gesto regale fu il tuo! / stendere la mano a un mendicante / per mendicare! / Rimasi indeciso e confuso. / Poi estrassi dalla mia bisaccia / il più piccolo chicco di grano / e te lo offersi. // Ma quale non fu la mia sorpresa / quando, finito il giorno, vuotai / la mia bisaccia per terra e trovai / un granellino d’oro / nel mio povero mucchio! / Piansi amaramente e desiderai / di avere avuto il coraggio / di donarti tutto quel che avevo». Non c’era bisogno di spiegare quando ai comunicandi proponevo questo apologo in poesia di Rabindranath Tagore.
Eucaristia, ingravescente tempore famis
In un saggio sulle culture alimentari di Calabria e Basilicata, Vito Teti, antropologo ed etnologo dell’Università della Calabria, scriveva: «Fonti scritte e orali relative alla Calabria e alla Basilicata in età moderna creano la vertiginosa impressione di essere in presenza più che di una storia alimentare dei ceti popolari di una “storia della fame” e di una “non storia alimentare”». Mentre il tema del Congresso Eucaristico ci invita a «tornare al gusto del pane», collegando la gloria del pane locale alla celebrazione dell’Eucaristia, non dimentichiamo la fame dei padri dei nostri padri, nella «cappadocia di dolori» (Mario Luzi) che fu la Lucania. «Signore, da’ fame a chi ha pane, da’ pane a chi ha fame» preghino i bambini educati al pane quotidiano, come abbiamo appreso dall’Abbé Pierre. E i genitori, ahimè troppo gourmet, colgano l’occasione per ricordare quella storia ai figli pretenziosi, e per informarli che nel 2021 la fame ha colpito 425 milioni di persone in Asia, 278 milioni in Africa, 56,5 milioni in America Latina e che oggi l’emergenza climatica, il Covid-19, la guerra, il blocco dell’export frumentario e il conseguente incremento dei prezzi mettono a rischio la sicurezza alimentare di 800 milioni di persone.
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