In occasione delle celebrazioni del cinquantenario della produzione del film “Il Vangelo secondo Matteo” girato a Matera da Pier Paolo Pasolini il sacerdote biblista dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina Pasquale Giordano ha inviato alla nostra redazione le sue riflessioni teologiche. Di seguito la nota integrale.
MATTEO LA BASILICA DEL DIO CON NOI
Il vangelo di Matteo è il “primo vangelo” in ordine canonico, non in ordine temporale come è stato erroneamente considerato da alcuni scritti e autori antichi. Molti ritengono che l’autore del primo vangelo si nasconda dietro quello «scriba, divenuto discepolo» di cui si parla in Mt 13,52. Il nome in greco (Maththaìos) si avvicina molto al verbo greco “divenire discepolo” (mathetheùo), che sembra usato dall’autore per “firmare” la sua opera. Solo in questo vangelo troviamo nella lista dei Dodici il nome “Matteo il pubblicano” e scompare quello di “Levi”. Colui che chiamiamo “Matteo” fu uno “scriba” capace non solo di accedere perfettamente alla lingua ebraica e tradurla in un greco piuttosto elaborato e poetico, ma anche di interpretare la sue fonti e ripresentarle secondo un suo originale progetto teologico. Lo scritto di Matteo era destinato a una comunità di giudeo-cristiani, forse della diaspora, in cui la frattura con la sinagoga non era ancora consumata.
Matteo conosce i tremendi fatti della conquista romana di Gerusalemme quando scrive il suo vangelo che, quindi, va datato dopo il 70. Nei rapporti fra la chiesa giudeo-cristiana e la sinagoga, tra ebraismo messianico ed ebraismo rabbinico, quell’evento ha influito moltissimo. Da una parte, infatti, ci fu l’accusa ai giudeo-cristiani di non aver difeso con le armi l’incolumità del Tempio e della “città santa”, dall’altra proprio gli ebrei furono accusati dai giudeo-cristiani di essere i responsabili – sotto un profilo teologico – della distruzione di Gerusalemme, per non aver creduto al Messia e aver perseguitato i suoi inviati. Matteo è testimone diretto di queste tensioni all’interno dell’ebraismo, ma, probabilmente, a differenza di Luca, scrive prima che la frattura tra chiesa e sinagoga si faccia insanabile. Non c’è traccia nel vangelo della scomunica e dell’espulsione dei giudeo-cristiani dalle sinagoghe, operata con il sinodo di Iamnia (anni 80). Nei confronti dell’ebraismo ufficiale c’è anzi la consapevolezza che si debbano mantenere dei legami. Vi è l’invito esplicito a «fare e osservare» quanto dicono gli scribi e i farisei, anche se non a imitarne il comportamento (cf. Mt 23,3).
Una delle caratteristiche più importanti del vangelo di Matteo è l’elevato numero di citazioni dell’ AT, 40 dirette e 30 indirette, in particolare 19 dei profeti. Tra le citazioni esplicite 10, di cui 9 dai profeti, sono le cosiddette “formule di compimento”. L’autore le utilizza per dimostrare come le attese e le profezie della Bibbia ebraica trovino compimento in Gesù Cristo. È pure vero che Matteo presenta una “doppia lettura”: non solo mostra come Gesù è il Messia atteso che compie le Scritture, ma anche le rilegge per vedere quali linee confluiscono verso la sua persona. Anche leggendo e interpretando in un certo modo le vicende, i personaggi e le profezie delle Scritture si può arrivare alla fede in Gesù Cristo.
Un’importante inclusione incornicia tutta l’opera letteraria di Matteo entro la prospettiva dell’alleanza: all’inizio del vangelo Gesù è chiamato l’Immanu-el, il “Dio-con-noi” (1,23). Nell’ultimo versetto troviamo Gesù risorto che promette solennemente ai suoi: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28,20).
Dal punto di vista strutturale possiamo rintracciare questo schema che alterna parti narrative e parti discorsive:
cc. 1-2 vangelo dell’infanzia
cc. 3-4 promulgazione del regno dei cieli (sez. narrativa)
cc. 5-7 discorso della montagna
cc. 8-9 racconti di guarigione e vocazione (sez. narrativa)
c. 10 discorso missionario
cc. 11-12 reazioni della gente (sez. narrativa)
c. 13 discorso in parabole
cc. 14-17 riconoscimento da parte dei discepoli (sez. narrativa)
c. 18 discorso ecclesiale
cc. 19-22 autorità e sequela (sez. narrativa)
cc. 23-25 discorso escatologico
cc. 26-28 passione, morte e risurrezione
L’alternanza discorso-narrazione ha un chiaro intento teologico: la parola di Gesù è performativa, attua ciò che dice, trasforma la realtà proprio secondo quanto ha detto. Il vangelo di Matteo è quello che più mette in evidenza questo passaggio dalla Parola alla vita e dalla vita alla Parola. L’evangelista redige una sorta di Torah in cui è possibile rintracciare una certa corrispondenza fra i vari capitoli e i cinque libri del Pentateuco. Se questa splendida e maestosa architettura ha una struttura a chiasmo, come alcuni autori hanno cercato di dimostrare, e se uno dei temi sui quali Matteo insiste di più è quello comunitario-ecclesiale, non sembra allora improprio definire il primo vangelo come “la basilica del Dio con noi”.
Una linea portante è quella centrata sulla figura di Gesù. Il volto che Matteo fa emergere, fin dalle prime righe della sua opera, è quello del Figlio di Davide, il Messia davidico da lungo tempo profetizzato e atteso, e quello del Figlio di Abramo, l’ebreo Gesù, nato a Betlemme di Giudea, fuggito in Egitto (come i suoi antenati patriarchi Abramo e Giuseppe) e tornato alla sua terra perché possa essere chiamato “Nazareno” (cf. 2,23). In quanto Figlio di Davide Gesù è il messia-re annunciato dai profeti, betlemmita come Davide, mite pastore di Israele con la forza stessa del Signore. In quanto Figlio di Abramo Gesù oltrepassa l’orizzonte del suo popolo e si pone sullo sfondo universalistico della promessa di benedizione a tutte le nazioni fatta al patriarca di Ur.
Gesù è anche chiamato Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Il primo titolo viene usato per sottolineare la provenienza divina di Gesù e la sua relazione filiale con Dio, come nell’importante confessione di fede di Pietro al centro del vangelo, frutto di una rivelazione divina: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (16,16). Il secondo viene riferito a Gesù per sottolineare, in continuità con Marco, l’attività di servizio, il ministero pubblico che caratterizza la sua vita terrena fino alla Pasqua, compresa quella funzione di giudice che compirà il suo ministero negli ultimi giorni.
All’inizio del vangelo Gesù è anche chiamato il Dio con noi, l’Emmanuele, con un linguaggio che ricorda quello dell’alleanza nell’AT. Egli è la nuova Shekhinà, la divina “presenza” che un tempo dimorava nel tempio, quel tempio distrutto che non è più necessario ricostruire, perché la presenza spirituale del Messia morto e risorto accompagna il suo popolo dovunque vada.
Un volto di chiesa che particolarmente emerge dal primo evangelo è quello di comunità fraterna. La fraternità è centrata sulla parola del Figlio che rende figli del Padre e dunque fratelli. Per questo il vangelo di Matteo è stato il vangelo più letto nella chiesa.
All’interno della comunità fraterna un posto di privilegiata attenzione lo meritano i “piccoli”, i membri più deboli e fragili: «Chi accoglie anche uno solo di questi piccoli in nome mio, accoglie me» (18,5).
Pasquale Giordano
sacerdote biblista dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina