Riportiamo di seguito la lettera che Monsignor Pino Caiazzo, Arcivescovo di Matera-Irsina e Vescovo di Tricarico, ha indirizzato ai cristiani delle due Diocesi per il tempo di Quaresima iniziato oggi, Mercoledì delle Ceneri. Al centro del messaggio c’è l’invito ad “uscire dalle soglie delle chiese per attraversare quelle delle case” : la missione della chiesa è itinerante, in continuo movimento, per “incontrare gli uomini del suo tempo dove normalmente si trovano, s’incontrano tra di loro” ma anche per raggiungere i luoghi definiti periferie esistenziali o geografiche.
Ai sacerdoti ed ai laici il Vescovo chiede di ritornare al cuore dell’annuncio cristiano: la Parola di Dio che in Gesù Cristo, morto e risorto, è divenuta una presenza viva che può essere incontrata oggi come accadde duemila fa ai discepoli di Emmaus.
1. Presentazione
Carissimi,
continuando il cammino sinodale che mette al centro la fase del “discernimento” o “sapienziale” siamo stati sollecitati, alla luce delle diverseassemblee diocesane, a individuare le scelte che siano frutto di ascolto della Parola, di nutrimento dell’Eucaristia, per tornare a far ardere mente e cuore.
Il Ministero della Parola o meglio la centralità della Parola di Dio nell’azione Pastorale, nella liturgia, nella catechesi e nella testimonianza della carità ci stanno accompagnando per dare priorità all’annuncio, uscendo dalle soglie delle nostre chiese per attraversare quelle delle case.
Sia dai ritiri mensili del clero che dagli incontri di vicaria o microzone ci stiamo rendendo conto di quanto bisogno abbiamo dell’annuncio della Parola che fa ritrovare entusiasmo e nuovo ardore. Soprattutto quando noi stessi siamo portatori credibili dei valori cristiani tra quanti quotidianamente vivono la nostra stessa esperienza di vita. «Obiettivo di questo anno pastorale non è primariamente quello di formare al ministero del lettorato (in seguito giungeremo anche a questo) ma di far sì che la Parola di Dio sia davvero conosciuta, desiderata, amata e impregni della sua potenza creativa e fecondatrice ogni momento della vita, ogni celebrazione liturgica, ogni incontro formativo e di catechesi, ogni relazione umana ed ecclesiale, ogni aspetto e condizione di vita (famiglie, ragazzi, giovani, adulti, laici, consacrati, preparazione al battesimo, agli altri sacramenti, percorsi per fidanzati…). La Parola di Dio indichi anche come il dialogo deve costituire lo stile con cui relazionarsi con tutti, anche con chi non crede o è indifferente» .
Interessanti sono stati il confronto e le esperienze concrete che Voi laici avete espresso nel Consiglio Pastorale Diocesano di Matera-Irsina e nelle assemblee di Garaguso Scalo. Ciò che cogliamo è l’opera silenziosa e dirompente dello Spirito Santo che sta agendo e operando indicandoci la strada da seguire. I tanti centri di ascolto della Parola nelle famiglie, le settimane bibliche, la lectio divina, la formazione e la catechesi, la celebrazione della Parola, il lavoro costante dei diversi Uffici pastorali che operano in sinergia, ci stanno aiutando attraverso l’impegno e la competenza dei Vicari e Delegati Episcopali, dei Direttori, ad innamorarci di questo cammino, nonostante la fatica e gli inevitabili contrasti e incomprensioni. Una tappa importante ha rappresentato il Convegno Catechistico Diocesano di Matera-Irsina, con la presenza di Mons. Valentino Bulgarelli, Direttore Ufficio Nazionale Catechistico, che ci ha illuminati sul tema “Catechesi, eco della Parola di Dio annunciata, celebrata, vissuta”.
L’icona del Vangelo dei “discepoli di Emmaus” non solo ci sta accompagnando nel nostro camminare insieme ma è anche segno dell’agire di Gesù su ognuno di noi per ritrovare fiducia e speranza, alleviando delusioni e fragilità, annunciando la Parola e spezzando il pane .
«C’è un’intima relazione tra Celebrazione eucaristica e Cammino sinodale: l’abbiamo vissuta durante il Congresso Eucaristico di Matera (22-25 settembre 2022). Non è solo un’analogia a unire i due momenti – Eucaristia e Sinodo si “celebrano” – ma una co-implicazione tale che si potrebbe definire l’assemblea eucaristica un “Sinodo concentrato” e il Cammino sinodale una “Eucaristia dilatata”. Questa intima relazione orienta nella comprensione delle categorie sinodali: non si tratta tanto di “democrazia” quanto di “partecipazione”, non solo di un raduno di “gruppo” quanto di un’“assemblea” convocata, non di esprimere semplici “ruoli e funzioni” ma “doni e carismi”. Nel Cammino sinodale, come nella Celebrazione eucaristica, il popolo radunato vive l’esperienza della grazia che viene dall’Alto, in quella partecipazione definita “actuosa” da Concilio Vaticano II (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 14), quindi capace di coinvolgere nella Celebrazione comunitaria» .
In questo dinamismo pastorale sento d’incoraggiare ognuno di voi individualmente e tutti comunitariamente. Più che fidarci di noi stessi dobbiamo fidarci del Maestro e Signore Gesù. E’ lui che intendiamo ascoltare, perché è lui la Parola. E’ solo lui che vogliamo avere come modello del nostro agire pastorale sia nel linguaggio, capace di parlare all’uomo d’oggi, sia nei movimenti e nelle azioni, nel contatto con la gente, riscoprendo il sapore di quella Chiesa domestica che ci fa gustare l’essere famiglia di Dio, quindi figli e fratelli. «Attraverso questa Parola del Signore (dei discepoli di Emmaus) vogliamo sentirci sempre comunità in cammino nonostante molte volte abbiamo il volto triste per quello che la realtà ci presenta e non rientra nei nostri schemi e anche se spesso ci perdiamo in conversazioni e discorsi sterili e abbiamo gli occhi impediti a riconoscere l’opera di Dio nella Chiesa…Il cammino è la strada percorsa dai discepoli di Emmaus in andata e ritorno forti dell’esperienza dell’incontro con Gesù che avvicinandosi camminava con loro. Ci viene chiesto di percorrere questa strada più volte perché sempre i nostri cuori devono “ardere” della gioia del Signore che si fa presente nella nostra vita e ci spinge a condividere con tutti tale felicità!» .
Anche noi siamo invitati a riprendere la Catechesi kerigmatica, ritornare al cuore dell’annuncio, il Kerigma che è Gesù Cristo morto e risorto; coscienti che Dio si è sempre rivelato in gesti e parole, con Gesù. Parola diventata carne, che incontra uomini e donne, ascolta le loro storie, se ne fa carico ed entra nelle loro case, accompagnandole lungo il tragitto della loro esistenza.
2. Il Kerigma è la bussola della nostra vita
La predicazione degli Apostoli non si basa su semplici racconti bensì sull’esperienza personale di ognuno che ha incontrato il Signore ed è stato capace di trasmetterla. E’ un continuo fare memoria della presenza di Dio nella loro vita avendo come certezza che la morte e risurrezione di Gesù è la dichiarazione d’amore più grande per loro e per ogni uomo. Un amore donato nella gratuità e che si manifesta oggi, come ieri, vivo nella quotidianità di ciascun uomo.
A tal proposito il Vaticano II, afferma: «Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre . Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all’incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» .
La storia della Chiesa è una storia meravigliosa, pregna dall’amore grande di Dio dato al Figlio: questi ha donato ciò che ha ricevuto. Ecco perché il Kerigma, che è Gesù Cristo, è la bussola che orienta la nostra vita sulla via che porta alla verità. Da questa esperienza, e non dalle formule che si imparano o dalle citazioni bibliche che si ripetono a memoria, si è capaci di guardare con l’occhio di Dio i fratelli e il mondo.
Essere cristiano, seguire Gesù, annunciare la buona notizia, il Vangelo, significa uscire dalla logica di forme religiose che in tante situazioni hanno soffocato il Kerigma ed entrare nella forza dirompente che la Parola compie in chi l’accoglie. Testimone, discepolo, apostolo è colui o colei che si lascia avvolgere dall’amore di Dio, fecondare dallo Spirito Santo che fa germogliare e crescere, nonostante la fatica, i dubbi, le crisi, necessari per maturare e diventare cristiani adulti nella fede. «E’ la struttura fondamentale del destino umano poter trovare la dimensione definitiva dell’esistenza unicamente in questa interminabile rivalità fra dubbio e fede, fra tentazione e certezza. E chissà mai che proprio il dubbio, il quale preserva tanto l’uno quanto l’altro dalla chiusura nel proprio isolazionismo, non divenga il luogo della comunicazione. Esso, infatti, impedisce ad ambedue gli interlocutori di barricarsi completamente in se stessi, portando il credente a rompere il ghiaccio col dubbioso e il dubbioso ad aprirsi col credente; per il primo rappresenta una partecipazione al destino dell’incredulo, per il secondo una forma sotto cui la fede resta – nonostante tutto – una provocazione permanente» .
Solo chi fa questa esperienza, nella diversità di ministeri, sarà capace di continuare a trasmettere con lo stesso entusiasmo, amore e forza degli Apostoli la fede che si professa con le labbra .
3. Il parlare di Gesù in parabole per “ruminare” continuamente la Parola
Quando si legge la S. Scrittura, tutte le narrazioni in essa contenute non riguardano cose ma un accaduto che, con sfaccettature modalità e a diversi livelli, torna ad accadere attestando l’attualità indiscussa di quelle pagine in cui oggi ci specchiamo, aiutandoci a vivere a livello personale e comunitario. Nel linguaggio di Gesù una forma efficace di narrazione è la parabola.
Il linguaggio narrativo della S. Scrittura coinvolge il lettore affinché prenda coscienza di essere protagonista della storia della salvezza, che determina la vita personale e comunitaria, e non suo spettatore come se fosse qualcosa di distante o una realtà del passato. Il racconto non comunica nozioni da imparare o concetti astratti da assimilare, ma interpella l’intelligenza di chi ascolta la Parola in modo da suscitare una sua risposta. Per questo motivo Gesù fa ricorso alle parabole.
Le parabole, a differenza delle fiabe o delle favole, richiedono di essere recepite, innanzitutto calandole nell’ambiente vitale nel quale vengono pensate ed elaborate. Il coinvolgimento di cuore, mente e spirito, da una parte permette la sua attualizzazione, e dall’altra consente di cogliere in ognuno dei racconti parabolici un particolare della storia della salvezza
Erroneamente si potrebbe pensare che Gesù parli in parabole per farsi capire dai più semplici. In realtà è vero il contrario: hanno bisogno di essere introdotte e spiegate, per poi essere “ruminate e, infine, comprese.
I primi che ne sentono il bisogno sono gli apostoli che chiedono a Gesù di spiegare loro la parabola. Questo richiede un contatto più diretto con il Maestro: interrogare, ascoltare, interiorizzare, capire, mettere in atto. E’ un cammino che richiede tempo e pazienza per non correre il rischio di fare come quei professori che, senza aver metabolizzato, dicono ma non trasmettono nulla. Gesù è Maestro di vita che si prende cura, con pazienza e amore, di quanti ha chiamato a seguirlo, di quanti incontra quotidianamente, chiamandoli a seguirlo.
Da quest’incontro si capisce che tutte le parabole parlano di Gesù : è lui la Parola. E’ sempre lui che semina la Parola nel campo del mondo. Chi “rumina” la Parola, la gusta rimeditandola continuamente fino a diventare carne nella propria carne.
«Gesù narra una serie di racconti fittizi, cioè di storie inventate lì per lì. Eppure, nonostante siano storie di fantasia, le parabole hanno la caratteristica di essere tutte verosimili. Non è un dato scontato, in quanto le storie di fantasia possono essere anche irreali. Le favole di Esopo e di Fedro mettono in campo animali che parlano, cosa evidentemente irreale; e tuttavia quelle favole hanno una notevole forza di convinzione, insegnando valori morali universali. Le parabole di Gesù sono differenti: esse raccontano di un uomo che esce a seminare, di una donna che spazza la casa, di un padre che fatica a educare i figli, di un viaggiatore che incappa nei briganti, di alcune ragazze giovani che vanno ad una festa di nozze» .
Gesù ci parla in parabole e attraverso quegli esempi che fanno parte del vivere quotidiano: la terra, i semi, il lavoro per annunciare il Regno di Dio. Parte dalla vita quotidiana per suscitare il desiderio della vita eterna.
D’altronde Gesù non comunica semplicemente una dottrina, bensì l’esperienza profonda di comunione con il Padre. Chi entra in comunione con lui trova proprio nelle parabole nuovi significati che suscitano il desiderio di una comunione perfetta.
«Possiamo dire così: la parabola è un racconto fittizio utilizzato in funzione di una strategia dialogico-argomentativa che opera in due momenti: dapprima sollecitando, in base alla logica interna del racconto, una certa valutazione e trasferendola poi, in forza di un’analogia di struttura, alla realtà intesa dal parabolista » .
Il parlare di Gesù in parabole è un dono che ha bisogno ancora di essere aperto. Nell’involucro esterno visibile è nascosto il dono invisibile ma reale. L’ascolto delle parabole svela il suo contenuto e significato in un crescendo che porta ad avere una fede adulta. La Parola è sorgente di novità capace di svelare ogni giorno cose nuove alla vita di ogni uomo. Diventa fondamentale ascoltare, comprendere, raccogliere, assimilare, ruminando continuamente.
Il tempo che stiamo vivendo, allora, è pieno di spine, di pietre, di campi infecondi, ma anche ora, come allora, c’è del terreno veramente buono che in modo diverso porterà frutto a suo tempo. Veramente il Regno di Dio è come il seme che continua ad essere sparso su tutta la terra.
La presenza di Gesù sulla terra dice che il Regno è già in mezzo agli uomini: come un po’ di pasta lievitata che apparentemente resta come prima, e invece, da lì a poco, cambierà. Quando e come, solo Dio lo sa (Mt 13,33). Questa è la nostra fede: noi crediamo nel Dio vivente, non negli insegnamenti sulla fede. Infatti «la fede viene dall’ascolto della Parola di Dio (cfr. Rm 10,17), che comprendiamo alla luce dello Spirito Santo e accogliamo nella fede (Lumen Fidei); mentre la teologia si fa come una scienza e cioè con la luce della ragione naturale (lumen naturale). Ma è la ragione illuminata dalla fede (ratio fede illustrata), che dota i cristiani di una fede ragionevole, tutt’altro che cieca, nonché di una ragione credente, che non è affatto razionalisticamente li9mitata o addirittura “debole”, (obsequium rationabile)» .
4. Chi è invitato a ricevere la Parola? La parabola del banchetto di nozze
Presentando la Parabola del banchetto di nozze, Gesù dice: «Voi uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). … «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30).
L’evangelista Matteo ci presenta tre parabole di Gesù rivolte contro i capi d’Israele e i sacerdoti: sarà loro tolto il regno di Dio. La parabola dei due figli invitati dal padre a lavorare nella sua vigna (Mt 21,28ss); quella dei vignaioli omicidi che pensano di diventare gli eredi della vigna del padre uccidendo il Figlio (Mt 21,33ss); quella degli invitati alla festa di nozze che pur essendo i primi ad essere invitati dal Re, mostrano indifferenza e ostilità (Mt 22,1ss).
In questi racconti traspare un chiaro rifiuto della salvezza da parte d’Israele: negligenza e pigrizia portano a sfuggire dalle proprie responsabilità. È l’atteggiamento di chi non è abitato da ardore vitale, ma è demotivato, passivo. La distruzione di Gerusalemme è la tragica conseguenza del peccato. Da qui l’invito alla conversione per la salvezza rivolto anche ai pagani (cfr. Is 25,6-10).
Viene prefigurata la nascita della Chiesa attraverso questa parabola in cui il popolo di Israele rifiuta l’invito a partecipare al banchetto nuziale. La Chiesa diventa così il nuovo popolo di Dio: l’invito assume un carattere universale per partecipare alla festa che Dio ha preparato per tutti gli uomini e non solo per un’etnia. A partire dal Vaticano II si contesta la visione per la quale la Chiesa “sostituisca” Israele che è considerato totalmente refrattario al Vangelo. Vale la pena ricordare che la prima Chiesa è fatta tutta di Israeliti. Ciò che si stigmatizza è l’uso privatistico della fede che crea contrapposizioni e competizioni. La Chiesa non nasce dal rifiuto di alcuni Israeliti ma dal sacrificio di Cristo che compie i sacrifici antichi dichiarandoli ormai passati.
L’universalità della Chiesa esprime il suo essere Cattolica: è sempre Dio che sceglie e chiama. «Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» . Soprattutto bisogna accompagnare chi è rimasto al bordo della strada.
«La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» .
Matteo utilizza un termine che letteralmente significa “limiti delle strade”, per indicare che i servi devono portare l’invito delle nozze lì dove, terminate le strade urbane iniziavano i sentieri di campagna, ovvero sono verso le periferie, dove si incontrano gli esclusi, gli emarginati, i lontani, i rifiutati.
Senza dimenticare che lo stesso pericolo del popolo d’Israele lo corre la Chiesa: soprattutto quando non indossa il vestito della festa, mostrandosi nei suoi figli indegna. L’evangelista Matteo vuole mettere in evidenza che quanto è successo a Israele, può avvenire anche alla Chiesa, come la storia di più di duemila anni ci insegna. L’uomo che non ha l’abito nuziale è colui che risponde ad una chiamata senza aderirvi. E’ il rischio di chi continua a coltivare il proprio io, le proprie convinzioni, una fede fai da te, senza il desiderio di sentirsi parte di una famiglia, di una comunità, di un noi.
«Accogliere l’invito di Dio, offerto a prescindere dalla provenienza, dai meriti o colpe, dalla mentalità, dalla cultura, dalla fede professata o non professata, richiede di indossare la veste nuova. Per vivere la festa è necessario fare proprie le virtù di Dio, cioè permettergli di rivestirci del suo Spirito affinché la nostra umanità, brillando per mitezza, pazienza, benevolenza, misericordia, rifletta la straordinaria bellezza di Dio» .
5. Quando il Maestro parla al cuore nell’intimità della casa
L’evangelista Marco racconta la giornata tipo di Gesù a Cafarnao, che si trova sulle rive del Mare di Galilea. Dopo aver insegnato e operato nella sinagoga, entra con i suoi discepoli nella casa di Simone; i due luoghi sono uno difronte all’altro a pochi metri di distanza.
Gesù passa dalla sinagoga, luogo pubblico e religioso, alla casa di Pietro, ambiente più privato e intimo: è la. Sicuramente, come a Betania dagli amici Lazzaro, Marta e Maria, anche in questa casa Gesù si sarà fermato a riposare, ristorarsi e ammaestrare in modo più familiare e intimo i discepoli. La casa è il luogo dove il Maestro parla al cuore di quanti sono presenti e l’ascoltano. In quest’ambiente compie il primo miracolo (nel racconto di Marco), davanti alla porta di questa casa incomincia ad arrivare tanta gente portando malati e paralitici. Ma ascoltiamo l’evangelista:
«E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: “Tutti ti cercano!”. Egli disse loro: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni» (Mc 1,29-39).
5.1. Dalla Sinagoga alla casa
Anche a Cafarnao c’era una Sinagoga frequentata dalla gente dei dintorni per la preghiera, la lettura della Legge e la spiegazione. Lo stesso Gesù la frequenta e, come persona adulta, ha il diritto di prendere la parola per insegnare. Ma va oltre: libera un uomo che era posseduto da uno spirito impuro attraverso la potenza della sua Parola. L’evangelista intende mettere in evidenza l’autorità e l’autorevolezza di Gesù attraverso la sua parola: «un insegnamento nuovo…come uno che ha autorità».
Potremmo dire che Gesù non è semplicemente testimone di verità, lui è la Verità, non comunica semplicemente vita perché lui è la Vita, non indica la via perché lui è la Via.
Quanto sta avvenendo nella Sinagoga – proclamazione della Parola e liberazione dal male – deve avvenire anche fuori da questo luogo. Ecco perché Gesù esce dal luogo di culto ed entra nella casa di Pietro e Andrea, insieme a Giacomo e Giovanni. Dal contesto si deduce che trascorre molto più tempo nella casa. Qui ha la possibilità, in un clima familiare, di intrattenersi, farsi carico delle situazioni di difficoltà come la febbre della suocera di Pietro, guarendola, rimane a pranzo e lui stesso come Parola si spezza quale nutrimento anche per coloro che nel frattempo abitano quegli spazi.
Una casa aperta quella dove c’è Gesù, capace di accogliere tutti. Anzi, tutta la città si riunisce davanti alla porta portando ammalati e indemoniati.
Nel luogo di culto risuona forte la parola liberante e sanante di Gesù che guarisce dallo spirito impuro l’uomo “praticante” che rappresenta quanti frequentavano la Sinagoga solamente per tradizione e in obbedienza alla Legge. Similmente, nella casa c’è una famiglia che piano piano, composta da tante altre famiglie, diventa una comunità in ascolto, in attesa di essere liberata dalla potenza del male che la tiene prigioniera nei ritualismi liturgici, di facciata, non vissuti e non partecipati.
Gesù, attraverso il movimento dalla Sinagoga alla casa, fa cogliere come la fede ha bisogno di essere coltivata, assimilata e vissuta all’interno della Chiesa domestica che già incomincia a delinearsi: Gesù al centro, perché Parola di vita eterna. Ed è esattamente in questa casa che l’ammalata non viene emarginata, anzi, Gesù la tocca, la prende per mano, la guarisce. Tutti i gesti di Gesù sono orientati al bene dell’uomo: la legge ebraica proibisce il lavoro in giorno di sabato. Infatti, liberando il “praticante” dallo spirito impuro lo libera dall’idea che le opere della legge siano delle prestazioni da cui si ottiene l’autosalvezza. Secondo il pensiero demoniaco la fede è fatta di precetti che nei fatti rendono schiavi delle proprie opere. Marco presenta i gesti di Gesù nella casa di Pietro non come opere di guarigione ma come gesti creativi. La liberazione è una nuova creazione e la nuova creatura serve. Se si legge l’azione di Gesù come una guarigione, allora anche il servizio della donna rimane una prestazione. Invece quella di Gesù è un’azione salvifica che salva la persona dalla presunzione di salvarsi da sé e dona la grazia di fare della propria vita un dono.
Chi riceve vita da Gesù, come la suocera di Pietro, si mette a servizio di tutti. Non è un segno di riconoscenza per quanto ha ricevuto ma è l’atteggiamento di chi ha accolto la Verità che l’ha cambiato.
«L’esperienza di Emmaus ci aiuta a comprendere le dinamiche del camminare insieme: dall’isolamento alla comunione, fino alla scoperta della verità di sé. Siamo noi quei discepoli – uno dei quali è appositamente anonimo perché ciascuno si metta al suo posto – e siamo in cammino. Siamo l’assemblea radunata dalle nostre case; un’assemblea di battezzati che confessano prima di tutto i propri peccati, le proprie delusioni, le proprie fughe da Gerusalemme, le proprie nostalgie per la vita di prima: «Noi speravamo…» (Lc 24,21) .
5.2. Dalla casa al deserto: intimità con Dio e bisogno di silenzio
L’intimità che cerca Gesù con il Padre diventa necessità di parlargli ancor prima di parlare di Lui. L’inizio della sua giornata, al mattino presto, è segnata dal silenzio del deserto, mentre ancora è buio, dal bisogno della preghiera. La predicazione, l’agire di Gesù a favore degli uomini, trova la sua forza e il coraggio, ogni giorno, nella preghiera. E’ l’umanità di Cristo che emerge e che diventa esempio e modello di ogni credente per non correre il rischio di rimanere imprigionati nelle lusinghe e nelle lodi.
I primi, fortemente tentati dalla popolarità del Maestro, sono i discepoli. Non hanno ancora capito che lo stile della missione di Gesù non è quello di cercare il consenso o diventare popolare, ma di annunciare il Regno di Dio, riportando ogni uomo alla fonte della vita.
I discepoli hanno ancora molto da imparare. La predicazione sarà anche entusiasmante, così come i segni che l’accompagnano e il successo, ma senza la preghiera personale e comunitaria ci sarà sterilità. Interessante è quanto dice loro Gesù in Mc 9,29: i discepoli sono incapaci di guarire il ragazzo epilettico dicendo: «Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo se non con la preghiera».
Gesù insegna con il suo esempio che, ogni volta che la libertà personale si sta smarrendo, si deve necessariamente riannodare il legame stretto con il Padre nel silenzio, nei luoghi deserti, mettendosi in preghiera.
È il momento di intimità della sua preghiera al Padre. Lo indica come la fonte a cui attingere per abbeverarsi, il cibo del quale nutrirsi per ricevere la forza e vedere l’efficacia della Parola predicata.
Gesù, in quanto Figlio che guarisce, salva e proclama la Parola, è realmente Figlio perché prega, ricerca il Padre, perché lui non è venuto per alcuni ma per tutti: «Tutti ti cercano»! (v. 37). E’ una preghiera “senza orologio” che gli permette di capire meglio il senso della sua missione salvifica. L’amore che riceve dal Padre lo trasmette ad ogni uomo. Nella preghiera anche noi troviamo il grembo in cui crescere e maturare come cristiani, come figli di Dio, scoprendoci sempre più fratelli. Tutta la nostra esistenza viene orientata creando comunione tra noi e vivendo la solidarietà aperta ad ogni sofferenza umana.
La preghiera personale di Gesù, che avviene al primo mattino, indica il modo in cui il Signore riconduce tutto al Padre. Ogni cosa che ha vissuto il giorno prima e ciò che lo aspetta durante il nuovo giorno lo presenta al Padre.
5.3. Dal deserto a tutti i villaggi vicini
L’andare di Gesù verso tutti i villaggi vicini mette chiaramente in risalto il significato e lo stile della sua missione: la sua Parola non può rimanere ristretta entro determinati confini, deve arrivare a tutti. E’ il senso dell’annuncio del Vangelo. I discepoli sono chiamati a non crogiolarsi nei risultati ottenuti, ma, in ogni epoca e quotidianamente, avranno a cuore quanti non oltrepassano la soglia delle sinagoghe, delle chiese. L’annuncio della salvezza è per tutti gli uomini e non per coloro che nelle nostre comunità si ritengono indispensabili e gelosi di tutti, apostoli compresi.
«Queste carenze hanno una serie di ripercussioni, tra le quali la principale riguarda la fatica nell’entrare in dialogo con il mondo giovanile: adolescenti, ragazze e ragazzi, giovani-adulti sembrano quasi parlare un’altra lingua rispetto a quella della Chiesa. Una comunicazione più efficace sarà essenziale per intercettare i giovani, per trovare punti d’incontro a partire dai quali avviare dei cammini comuni. I vari saperi, a cominciare da quello teologico, saranno determinanti nella riflessione sulle celebrazioni, il cui rinnovamento è ritenuto urgente»
E’ interessante notare come Gesù insegna ai discepoli come incontrare gli uomini del suo tempo, pertanto va nei luoghi dove normalmente si trovano, s’incontrano tra di loro. Nel loro culto (Sinagoga), nelle case, nei villaggi, nei loro tormenti interiori, nelle loro sofferenze a causa di malattie, nella loro miseria, nelle loro solitudini, nei loro interrogativi e dubbi. Ogni spazio, dal sacro al profano, va riempito dalla presenza di Gesù attraverso la sua Parola annunciata.
Per Gesù la gente non va incontrata solo nei luoghi dove comunemente si ritrova un certo numero di persone, ma in quelli definiti, oggi, periferie esistenziali o geografiche. La missione è itinerante, in continuo movimento. E’ animata dalla forza dell’amore che mette in cammino quanti sono innamorati dell’Amore. Il cammino di Gesù, andando in tutte le direzioni della Galilea, indica il viaggio della Parola con lui: è il cuore di Dio aperto a tutti. Gesù fa cogliere ai discepoli che la sua missione, di conseguenza la loro, non può essere limitata nel loro paese di Cafarnao e dintorni: bisogna allargare gli orizzonti.
Il Maestro è continuamente in cammino nella ricerca di altra umanità che ha bisogno di essere aiutata e guarita, stringendo altre mani, facendosi viandante con altri viandanti. «Da Gerusalemme si apre uno sguardo universale, attento ai problemi del mondo, specialmente dei poveri e dei sofferenti, degli ammalati e degli stranieri, evitando di ripiegarsi su quel narcisismo autoreferenziale, su quella nostalgia del passato – Emmaus – che alimenta le polemiche e fa perdere ai discepoli la gioia evangelica. L’orizzonte missionario, lo sguardo sull’umanità – non limitato alla soluzione delle “questioni interne”– è un’altra importante condizione per un adeguato discernimento ecclesiale» .
Gesù non si ferma a Cafarnao, nonostante tutti lo conoscano, lo cerchino e le case dei discepoli siano diventate le sue. Ha una visione della missione che supera i desideri della carne, degli affetti, della sistemazione. E’ lui che raggiunge la gente per annunciare la buona notizia, fedele all’inizio della sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). «Essere evangelizzatori non è un privilegio, ma un impegno che proviene dalla fede. Alla domanda che il Signore rivolge ai cristiani: “Chi manderò e chi andrà per me?”, rispondete con lo stesso coraggio e la stessa fiducia del Profeta: “Ecco, Signore, manda me” (Is 6,8). Vi chiedo di lasciarvi plasmare dalla grazia di Dio e di corrispondere docilmente all’azione dello Spirito del Risorto. Siate segni di speranza, capaci di guardare al futuro con la certezza che proviene dal Signore Gesù, il quale ha vinto la morte e ci ha donato la vita eterna. Comunicate a tutti la gioia della fede con l’entusiasmo che proviene dall’essere mossi dallo Spirito Santo, perché Lui rende nuove tutte le cose (cfr Ap 21.5), confidando nella promessa fatta da Gesù alla Chiesa: “Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20).
6. Non fermiamoci al suono delle campane…è l’ora dei campanelli
Dal Sinodo di Matera-Irsina e dal Cammino sinodale che stiamo facendo in comunione con tutta la Chiesa sta emergendo che la pastorale del primo annuncio debba in maniera impellente realizzare il modello che da sempre ha caratterizzato la missione della Chiesa: il modello catecumenale che ci aiuta ad uscire dal chiuso dei nostri locali parrocchiali e ci fa entrare nelle case, dove si vive il senso del termine stesso di “Parrocchia”: “casa tra le case”. Questo prevede:
a. Un’evangelizzazione che parta da una catechesi kerygmatica (primo annuncio, «che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna” , e mistagogica (“che significa essenzialmente due cose: la necessaria progressività dell’esperienza formativa in cui interviene tutta la comunità ed una rinnovata valorizzazione dei segni liturgici dell’iniziazione cristiana» .
b. L’accompagnamento personale dei processi di crescita. «La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cfr Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» .
Nella lectio divina che il nostro D. Pasquale Giordano ha tenuto a Garaguso Scalo, per la Diocesi di Tricarico, all’inizio del nuovo anno pastorale, commentando l’icona biblica dei discepoli di Emmaus, ha sottolineato come «Il narratore mostra, attraverso l’immagine del cammino, che la fede è un’esperienza itinerante di cambiamento. Al movimento del corpo corrisponde il progresso interiore che giunge ad un culmine, il quale, a sua volta, rappresenta il punto di svolta dal quale prende avvio il cammino di ritorno. La conversazione caratterizza il cammino di andata e ritorno e fa da cornice al gesto silenzioso, ma non meno eloquente, grazie al quale i discepoli non scoprono qualcosa di nuovo ma la verità di Gesù e di loro stessi» .
I discepoli non sono in grado di riconoscere Gesù che «si avvicinò e camminava con loro». Hanno bisogno di essere ascoltati ma anche di ascoltare. Nel tempo che stiamo vivendo, nell’era delle grandi comunicazioni, ci riesce difficile comunicare, di conseguenza ascoltare. Più crescono i canali di comunicazione, più sperimentiamo come le relazioni umane si stanno impoverendo. Anche all’interno delle famiglie, nella stessa Chiesa (vescovi, sacerdoti, diaconi, religiose/i, catechisti, operatori pastorali,…) avanza quello che viene definito un “deserto silenzioso e solitario” che porta a insoddisfazioni, incomprensioni proprio a causa dello scarso ascolto.
«Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori» . Abbiamo bisogno di sfrondare mente e cuore da cose vecchie e inutili, ingombri che impediscono di fare spazio all’altro. Mi riferisco in particolar modo ai social e il nostro morboso attaccamento ad essi, percepiti come la panacea contro ogni solitudine e la sintesi di ogni verità, mentre in realtà risucchiano nell’isolamento più cupo e rendono incapaci di aprirsi all’altro o di fargli spazio, per non parlare dei troppi ragli e poche parole di buon senso
Tutti siamo coscienti, ormai che, pur continuando a suonare le campane (segno distintivo della Chiesa nell’annunciare la vittoria di Cristo sulla morte, quindi la Pasqua), dobbiamo suonare i campanelli delle case dove si incontrano le persone con le loro solitudini e sofferenze, i loro dubbi e paure ma anche le gioie e le soddisfazioni. In questi luoghi sacri, perché abitati dall’uomo battezzato e non, deve risuonare la Parola attraverso centri di ascolto, lectio divina, celebrazione della Parola, confronto attraverso una risonanza che arricchisce la vita di ognuno.
E’ tra le famiglie che si impara a desiderare e gustare l’Eucaristia da vivere insieme all’intera comunità: dalla mensa della Parola a quella Eucaristica. E’ frutto di un cammino di conversione che porta gradualmente ognuno a sentirsi realmente figlio di Dio e della Chiesa. Non è forse questo il significato liturgico in chiesa della mensa della Parola e di quella Eucaristica? E’ l’unica mensa: “la Parola che si fa carne”.
7. La Chiesa mistero di comunione
Usciamo dalla falsa concezione di pensare che la Chiesa sia perfetta. E’ formata dai battezzati bisognosi di continua misericordia da parte di Dio e in continua conversione. La Chiesa invece è mistero di comunione da parte degli uomini con Dio e tra di loro. Come ci ricorda il Concilio Vaticano II, trova il suo fondamento su Dio Trinità , è il nuovo popolo di Dio nel quale ognuno dei membri vive la comune dignità, «vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo» . Il Vaticano II precisa che la stessa gerarchia sia da collocare all’interno del «popolo di Dio», mettendosi al suo servizio. Di conseguenza i laici «per la loro parte compiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano» .
Cristo è Dio che entra nella storia del mondo, la assume e la ricapitola in sé . E’ un evento, quello dell’incarnazione, che trova compimento in ogni momento storico dell’umanità. E’ il venire di Dio oggi nella carne: non due storie diverse ma una storia sola, quella della salvezza.
La salvezza che il dialogo, il rispetto della libertà di coscienza e della buona fede personale, è il riconoscimento che anche fuori della Chiesa cattolica esistono «parecchi elementi di verità» . Ciò vale anche per le religioni non cristiane , e tra i non credenti .
Bisogna uscire dall’ambiguità di essere un buon cristiano o un bravo prete perché si compiono tante opere buone a favore degli altri e all’interno della parrocchia. Bisogna acquisire e vivere la sintesi che intercorre tra fede e vita. Dalla fede che si professa e che si vive scaturisce per ognuno un agire e operare nella vita di ogni giorno (nel sociale, nella politica, nella cultura). La fede ispira modelli e azioni diversi in base a doni, carismi e capacità di ognuno.
Nessuno occupa un posto fisso nella Chiesa: tutti a servizio e per il bene delle anime e non per esaltare se stessi. Tutto per amore di Cristo e della sua Chiesa in quell’obbedienza che si è chiamati a vivere imparando da Gesù che ascolta la voce del Padre, fino all’immolazione: «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39).
I laici, dunque, pur avendo una loro autonomia, devono vivere responsabilmente le scelte che compiono. In questo modo vivono il loro ministero non come esecutori di cose da fare e che la gerarchia impone, ma come collaboratori responsabili che, con la gerarchia, realizzano l’agire comune.
7.1. Sacerdoti uomini di preghiera e della Parola
Dalla lettura e meditazione degli Atti degli Apostoli e delle lettere degli apostoli impariamo come non bisogna perdere l’identità sacerdotale, caratterizzata dalla dedizione «alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,4). L’attività pastorale degli Apostoli, con l’aumento dei bisogni e delle necessità della comunità, rischia di offuscare la vita interiore e spirituale. Questa è più importante per vivere meglio l’altra, formando e scegliendo collaboratori che possano dedicarsi anche ai bisogni materiali della gente, come le mense. Se loro affidano questo servizio a «sette uomini di buona reputazione» (cfr. At 6,1-6), lo stesso vale in ogni epoca, quindi anche in questo nostro tempo, valorizzando la ministerialità.
A volte il rischio di essere sopraffatti dal torpore spirituale è reale per tutti, nessuno escluso. E’ il campanello d’allarme che ci ricorda di ricollocare il primato della Parola al suo giusto posto, dimorando in essa, meditandola e mettendola in pratica (cfr. Gc 1,25).
Ma altre tentazioni emergono come quella di chiudersi nelle azioni liturgiche della sinagoga evitando di incontrare i non circoncisi nelle loro abitazioni (cfr. At 11,1-18). E’ quanto viene rimproverato al primo degli apostoli, Pietro, sia da parte degli altri apostoli che dai fedeli: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme a loro».
Dibattito che durò a lungo negli anni e che coinvolse Pietro e Paolo. Questi, nonostante fosse l’ultimo arrivato, affronta “a viso aperto” la questione così spinosa dei circoncisi (cfr. Gal 2,11-21). Problema che venne risolto sinodalmente a Gerusalemme (chiamato Concilio di Gerusalemme), con la lettera apostolica dell’apostolo Giacomo (cfr. At 15,22-29). «Intanto la parola di Dio cresceva e si diffondeva» (At 12,24; At 13,49; At 19,20).
S. Giovanni Paolo II ci ricorda che «Il sacerdote deve essere il primo credente alla Parola, nella piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono sue, ma di Colui che lo ha mandato. Di questa Parola egli non è padrone: è servo. Di questa Parola egli non è unico possessore: è debitore nei riguardi del popolo di Dio. Proprio perché evangelizzare, il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato ». Del resto, l’idea che il sacerdote non sia padrone della Parola, ma piuttosto un debitore nei confronti della comunità ecclesiale, ribadisce la natura di servizio del ministero sacerdotale.
Problemi e preoccupazioni – ora come allora – ne sorgono in continuazione. Le divisioni, le lotte interne tra fazioni che procurano lacerazioni nella Chiesa. In questo clima risuona il grido di Paolo quando afferma: «Noi non siamo infatti come quei molti che fanno mercato della parola di Dio» (2Cor 2,17). Accusato di “mercanteggiare” il messaggio evangelico, Paolo ribatte l’accusa contro i suoi denigratori, che falsificano la Parola di Dio per interessi personali.
«La Chiesa ha bisogno di vescovi e preti che siano conformi al cuore di Gesù e non ai criteri degli uomini. Non a caso la Bibbia usa il termine “cuore” per indicare la dedizione agli altri, che non bisogna confondere con un sentimentalismo incentrato solo su noi stessi. Un buon pastore ama gli uomini, perché li ama in Cristo. Certo non guadagna il loro affetto quando in loro ama solo se stesso. Il cuore di Gesù trafitto dalla lancia del soldato è il cuore aperto del buon pastore» .
7.2. «Abbiamo bisogno di laici che siano meno sagrestani e più cristiani» (Vittorio Bachelet)
I laici nella Chiesa vanno considerati non come esecutori di servizi che rendono negli spazi dell’aula liturgica o in sacrestia, ma come ascoltatori della parola che li rende capaci di comportarsi «con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (1 Pt 3,16), da «cittadini degni del Vangelo» (Fil 1,27). E Vittorio Bachelet, parlando dell’Azione Cattolica, diceva: «Abbiamo bisogno di laici che siano meno sagrestani e più cristiani».
Non possiamo non considerare i cambiamenti avvenuti e che continuano ad avvenire attraverso un ritmo impressionante in tutti gli ambiti della vita. Di conseguenza veniamo interpellati tutti, consacrati e laici, ad entrare nel nuovo rapporto che siamo chiamati a instaurare tra fede e vita, tra fede e cultura, tra fede e storia nel contesto di una società secolarizzata e pluralistica.
Perché ci lamentiamo che le chiese si svuotano? Si svuoteranno sempre di più! Non si tratta di correre ai ripari. Ci viene chiesta una vera conversione che parta dalla Parola e che trovi nell’Eucaristia la fonte e il culmine. Soprattutto, ci viene chiesto di andare “a fare sempre più chiesa” nelle case e, parafrasando un famoso detto, verrebbe da dire “se il credente tiepido non va in Chiesa dal suo Cristo, sarà il Cristo che, nella persona dei suoi ministri, laici e consacrati, lascerà il tempio per recarsi dai figli allontanati
Il mondo nel quale viviamo è anche il nostro, ci appartiene, abbiamo contribuito anche noi a renderlo bello o brutto. Ma di una cosa dobbiamo essere più consapevoli: spesso parliamo un linguaggio che non viene capito, abbiamo difficoltà a dialogare con il mondo, con la cultura, con la storia. Altre volte, ci sentiamo attaccati, non capiti e la la nostra poco tolleranza ci fa pensare di avere ragione solo noi. «Ai tempi delle navi a vela, gli uomini avevano imparato l’arte del bordeggiare contro vento. Anche contro vento si va avanti, si raggiunge la meta. In mare, però, la calma piatta è ancora più pericolosa del vento contrario. E lo stesso vale per la pastorale: quando il disinteresse è così grande da non suscitare più alcuna obiezione, allora non ci rimane altro che pregare, affinchè Dio dalle pietre susciti “figli di Abramo» (cf. Lc 3,8) .
A volte è come se si avesse paura di perdere il potere. Ma quale potere? Ci si rifugia in un evangelismo disincarnato ed intimistico, perché si ritiene assurdo che il Vangelo possa entrare e vivificare il cammino culturale, politico o sociale. Allora mi chiedo, quale incarnazione di Dio annunciamo se poi l’estromettiamo dalla vita e dalla storia?
Nella Chiesa non abbiamo bisogno di impiegati del sacro (vescovi, preti, diaconi, suore, laici) ma di innamorati di Gesù Cristo che si lascino condurre dal suo amore per le strade di questa umanità, abitando e condividendo i luoghi e le case di tutti per essere «sale della terra», «luce del mondo», nella società e per la società, promuovendo sempre e comunque la dignità della persona. Giovanni Paolo II l’ha continuamente affermato: «Riscoprire e far riscoprire la dignità inviolabile di ogni persona umana costituisce un compito essenziale, anzi, in un certo senso, il compito centrale e unificante del servizio che la Chiesa e, in essa, i fedeli laici sono chiamati a rendere alla famiglia degli uomini ».
Mi sembra importante sottolineare che Gesù non dice: “Siate il sale della terra; siate la luce del mondo”, bensì: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo» (Matteo 5, 13.14). Questa d’altronde è la vera identità della Chiesa e dei cristiani: essere conformi a Cristo fino a fare e dire quello che lui dice e ci chiede. Tutto questo è grazia.
7.3. Testimoni nell’ambito degli affetti familiari
Sono anni che ci viene ricordato, e ora l’urgenza è più forte, che la pastorale della Chiesa deve presenziare, nell’ambito di ogni famiglia, e divenire, da semplice oggetto della cura pastorale, a soggetto della pastorale e dell’evangelizzazione. Già il Vaticano II ci ricordava: come «I coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e testimoni della fede l’uno per l’altro, nei confronti dei figli e di tutti gli altri familiari. Sono essi i primi araldi della fede ed educatori dei loro figli; li formano alla vita cristiana e apostolica con la parola e con l’esempio, li aiutano con prudenza nella scelta della loro vocazione e favoriscono con ogni diligenza la sacra vocazione eventualmente in essi scoperta» .
Bisogna riconoscere che come cristiani, nonostante diciamo di essere molto religiosi, siamo una minoranza nella società odierna. Sono davvero poche le famiglie dove ancora si prega, si legge la Parola, viene trasmessa per contatto la fede ai propri familiari. Ma non è questo che deve scoraggiare la Chiesa e di conseguenza la Chiesa di Matera-Irsina e di Tricarico
La seconda lettera di S. Paolo a Timoteo inizia ricordando la fede dello stesso Timoteo e delle donne della sua famiglia, dalle quali è stato formato alla vita cristiana: sua nonna Lòide e sua madre Eunice (2Tm 5). Timoteo dunque viene esortato a mantenere vivo il dono di Dio, che ha ricevuto con l’imposizione delle mani di Paolo. Si fa anche riferimento al dono del sacerdozio e dell’essere guida della comunità, che Timoteo ha ricevuto ed esercita probabilmente a Efeso.
«Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce, e che ora, ne sono certo, è anche in te. Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo» (2 Tim, 1,5-8).
Di certo si sente l’urgenza di un cambiamento di stile. Ci sono tante belle testimonianze di coppie che, in virtù di un cammino di fede, hanno maturato la loro appartenenza a Cristo e alla Chiesa, mostrando concretamente nel quotidiano, insieme ai figli, quanto dicono con le labbra. Uno stile che nasce dall’ascolto e meditazione della Parola, dalla condivisione con altre famiglie, dalla preghiera con tutti i componenti del nucleo familiare e partecipazione alla vita liturgica, dall’attenzione ai tanti bisogni e necessità, incominciando dalle solitudini che si consumano in altre famiglie.
Tutto questo mentre bisogna fare i conti con le sfide che si fanno strada nel mostrare nuovi modelli di famiglia: coppie di fatto, convivenze, ma penso anche alla teoria del gender. Il rispetto dovuto alle persone LGBT (lesbian, gay, bisexual, transgender), non può prescindere dal pensare a fondo la filosofia sottostante alla teoria di genere. E che dire della cura da usare verso quelle famiglie ferite a causa del fallimento del matrimonio e dei risposati?
Ci interroghiamo: come accompagnare tutte queste situazioni tenendo presente la misericordia? Dobbiamo confessarlo: siamo ancora impreparati e attualmente non abbiamo strumenti che ci consentano di stare accanto a tutte queste nuove sfide.
Mi sembra molto valido il richiamo del Magistero della Chiesa a proposito dei divorziati e risposati: «Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la parola di Dio, a frequentare il sacrificio della messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza ». E ancora: «I divorziati risposati, infatti, «continuano ad appartenere alla Chiesa, che li segue con speciale attenzione, nel desiderio che coltivino, per quanto possibile, uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione alla santa messa, pur senza ricevere la comunione, l’ascolto della parola di Dio, l’adorazione eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo confidente con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l’impegno educativo verso i figli» . Infine Papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ci dice: «ora abbiamo ancora un anno per maturare, con vero discernimento spirituale, le idee proposte e trovare soluzioni concrete a tante difficoltà e innumerevoli sfide che le famiglie devono affrontare; a dare risposte ai tanti scoraggiamenti che circondano e soffocano le famiglie ».
Lo sguardo della Chiesa attraverso il pontificato di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco esprime quello di una Madre che non abbandona i suoi figli, ma si preoccupa di loro, li segue e li ama, li aiuta a progredire nella fede. E’ lo sguardo di Dio misericordia.
Nella diversità sacramentale e ministeriale tutti siamo chiamati, partendo dal movimento di conversione che attua la ruminatio della Parola e dell’Eucaristia, ad entrare in dialogo senza la paura di accogliere le tante sfide, anche provocatorie e spesso di cattivo gusto, che ci vengono lanciate. «Il cristianesimo non deve adattarsi all’epoca moderna, cercando poi disperatamente nell’epoca post-moderna di acquistarsi una nicchia che garantisca la propria sopravvivenza. Infatti la vera età moderna è la fede in Dio per mezzo di Gesù Cristo, l’attualità di libertà, vita e amore che non si lascia ingannare» .
8. Bisogna essere realisti guardando con coraggio la realtà
«Ognuno di noi ha già incontrato uomini a cui sembra mancare ogni antenna, quando parliamo di Dio. […] Nelle forme almeno e nelle formule, nelle quali la fede si articola secondo la Chiesa, essa non trova più rispondenza con i loro problemi ed esperienze» . Basterebbe guardare le nostre assemblee liturgiche per rendersi conto da chi sono frequentate le nostre comunità parrocchiali. L’età media ormai è salita dai 50 anni in su. Non sono i giovani che mancano bensì le ultime due generazioni. Mi chiedo: gli stessi gruppi, associazioni, cammini di fede, che contatto settimanale hanno con la Parola di Dio, a parte quello festivo? Ho l’impressione che ci si accontenti facilmente, coltivando solo forme religiose, tradizioni svuotate della Tradizione della Chiesa, ritualismi che rinnegano il rito liturgico in cui la liturgia non è più fonte e culmine di tutta la vita della Chiesa bensì un precetto da soddisfare.
Sarà che in tanti anni, soprattutto con l’iniziazione cristiana dei fanciulli e ragazzi, abbiamo usato il metodo didattico e nozionistico in funzione dei sacramenti da celebrare, sta di fatto che ormai sono decenni che, già dopo la prima Comunione, i ragazzi spariscono. Lo stesso vale per la preparazione al Matrimonio e al Battesimo. Il termine “Corso” ha avuto più il significato scolastico, da seguire necessariamente per accedere al sacramento, che non un “percorso” per essere adulti nella fede.
Già negli orientamenti pastorali dei vescovi italiani per gli anni 90 del secolo scorso, Evangelizzazione e Testimonianza della Carità ci veniva detto: «La Chiesa deve fare oggi un gran passo in avanti nella sua evangelizzazione, deve entrare in una nuova tappa storica del suo dinamismo missionario”(CT 34). E’ la nuova evangelizzazione a cui c’invita Giovanni Paolo II. Nuova non soltanto perché viene dopo quella prima e grand’opera d’evangelizzazione da cui è nata e si è forgiata, lungo il corso dei secoli, la nostra esperienza di Chiesa. Né unicamente perché deve fare i conti, nelle nostre società occidentali, col fenomeno pervasivo del secolarismo. Ma soprattutto, perché “deve diventare nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione” (Giovanni Paolo II, discorso ai vescovi del CELAM, 9 marzo 1983). L’annuncio che la Chiesa è chiamata a fare nella storia, si riassume in un’affermazione centrale: Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è Via, Verità e Vita» .
La verità è che la nostra non è più una “società cristiana”! Però restano visibili le radici nel Vangelo e nel cristianesimo nonostante «la cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sa-zio che vive come se Dio non esistesse … L’urgenza allora più grande che attraversa l’Europa, “a Est come ad Ovest, consiste in un accresciuto bisogno di speranza, così da poter dare senso alla vita e alla storia e camminare insieme» .
Questo non significa che Gesù Cristo e il Vangelo non interessano più. Ciò che manca è la credibilità di un annuncio fatto per contatto personale, di testimonianza, di condivisione, di trasparenza. Far ardere il cuore, come i discepoli di Emmaus, per osare con la proposta del Kerigma.
Se crediamo per davvero quanto il Signore dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5), allora dobbiamo fidarci, come gli apostoli di ogni epoca, per uscire dalla paura e dalla rassegnazione, ma soprattutto dalla tentazione di rimanere fermi al “si è sempre fatto così”. Siamo preti e laici posseduti e abitati dalla speranza che non può morire, perché il Dio di Gesù Cristo ci sorprende e vuole che troviamo in noi, attraverso Lui, i motivi e le spinte per rinnovarla e contagiarla.
Vuol dire che “il nuovo” che fa germogliare la giovinezza della vita, della Chiesa e del mondo, non è solo opera nostra, dei nostri sforzi, delle nostre strategie pastorali (spesso si sono rivelate un fallimento). Il “nuovo” del quale la Chiesa si fida è la vittoria pasquale di Cristo che viene dal cielo.
E’ il tempo di ritornare a sentire la Voce di Dio che apre la nostra mente e il nostro cuore verso un futuro che è sorgente di gioia e non di paura, fecondità e non sterilità, avendo il coraggio di saper dialogare con il mondo d’oggi e le sfide della tecnologia moderna, compresa l’intelligenza artificiale.
Proporre la Verità che è Cristo, e non un’idea, una teoria o una formula. E’ la vita che parla «se Cristo vive in me» (Cfr. Gal 2,20), le mie conoscenze che mi permettono di dialogare e non litigare, e soprattutto ascoltare anziché affermare a tutti i costi.
Facendo nostre le parole di S. Giovanni Paolo II ci rivolgiamo fiduciosi a Maria, Madre della speranza e consolazione, con l’aiuto dei nostri Santi Patroni e Protettori e diciamo:
«Maria, Madre della speranza,
cammina con noi!
Insegnaci a proclamare il Dio vivente;
aiutaci a testimoniare Gesù, l’unico Salvatore;
rendici servizievoli verso il prossimo,
accoglienti verso i bisognosi,
operatori di giustizia,
costruttori appassionati
di un mondo più giusto;
intercedi per noi che operiamo nella storia
certi che il disegno del Padre si compirà.
Aurora di un mondo nuovo,
mostrati Madre della speranza e veglia su di noi!
Veglia sulla Chiesa in Europa:
sia essa trasparente al Vangelo;
sia autentico luogo di comunione;
viva la sua missione
di annunciare, celebrare e servire
il Vangelo della speranza
per la pace e la gioia di tutti.
Regina della pace
Proteggi l’umanità del terzo millennio!
Veglia su tutti i cristiani:
proseguano fiduciosi sulla via dell’unità,
quale fermento
per la concordia del Continente.
Veglia sui giovani,
speranza del futuro,
rispondano generosamente
alla chiamata di Gesù.
Veglia sui responsabili delle nazioni:
si impegnino a costruire una casa comune,
nella quale siano rispettati
la dignità e i diritti di ciascuno.
Maria, donaci Gesù!
Fa’ che lo seguiamo e lo amiamo!
Lui è la speranza della Chiesa,
dell’Europa e dell’umanità.
Lui vive con noi, in mezzo a noi,
nella sua Chiesa.
Con Te diciamo
« Vieni, Signore Gesù » (Ap 22, 20):
Che la speranza della gloria
infusa da Lui nei nostri cuori
porti frutti di giustizia e di pace»!
Vi abbraccio e benedico tutti grato del vostro essere Chiesa vitale e pulsante.
Don Pino