Oramai è considerata una sorta di parolaccia. Nel senso comune, nella stagione della separazione crescente tra la gente e le elites, il potere viene coniugato nella sua accezione più negativa, come potenza negativa che si oppone ai bisogni e ai diritti delle persone. Nelle “Lezioni di democrazia”, organizzate con la Fondazione Feltrinelli, nel quadro di “Future digs”, le riflessioni della Fondazione Matera Basilicata 2019 sul futuro che verrà, il potere è restituito alla sua matrice positiva: la potenza collettiva di realizzare, di trasformare la realtà, di progettare il futuro. Nel primo incontro che si è svolto nel pomeriggio mercoledì 27 febbraio alla Casa Cava di Matera, moderato dalla giornalista dell’Huffington Post, Angela Mauro, la riflessione e la discussione si sono focalizzate sul primo tema.
“Matera capitale europea della cultura nasce proprio come grande esperienza di partecipazione e di protagonismo sociale” ha ricordato Salvatore Adduce, presidente della Fondazione Matera Basilicata 2019. “La nostra scommessa è stata quella di liberare la cultura dall’opprimente vincolo con la sua dimensione elitaria per restituirla alle pratiche di produzione e di fruizione di massa. La riflessione proposta dalla Fondazione Feltrinelli si innesta ovviamente sul dibattito aperto dall’esito elettorale del marzo 2018, ma il tema delle nuove forme e canali riguarda l’intero Occidente”.
“Il gap cresce – ha confermato nel suo saluto Spartaco Puttini ricercatore della Fondazione Feltrinelli – e perciò ripartiamo dal basso per cercare una risposta alla crisi della democrazia, confrontandoci con temi centrali come l’inclusione sociale e l’integrazione europea”.
E proprio alla domanda se l’attuale crisi della democrazia rappresentativa sia una malattia dai possibili esiti mortali o una opportunità di crescita e di rinnovamento è stata dedicata la lezione di Giovanni Moro, un sociologo politico con una robusta matrice nell’epistemologia delle scienze sociali e quarant’anni di impegno culturale e politico sul terreno della partecipazione democratica dal Movimento federativo democratico a Cittadinanzattiva. La sua riflessione è partita dal successo eccessivo del termine: 10 milioni di citazioni in italiano su google, cento milioni in inglese. “Eppure – ha sottolineato – manca ancora una definizione chiara e condivisa”.
Per Moro sono tre i fattori di crisi sul piano concettuale: le dilaganti parole magiche che infestano la semantica della partecipazione; la crisi del paradigma della cittadinanza per cui il potere indebolito degli stati declina la cittadinanza attiva come cittadinanza aumentata e infine l’uso di concetti e categorie difettose.
Fatta “pulizia della polvere” il professore illustra il valore positivo del concetto e prova a identificare il fenomeno.
Nella visione standard la partecipazione dei cittadini consiste nell’influenzare le leadership che detengono il potere. Il circuito è così organizzato: i cittadini pongono domande attraverso i partiti, il sistema politico risponde, una macchina cieca ed efficiente, la pubblica amministrazione le mette in opera. Giovanni Moro cita come esempi di questa ostilità di fondo alla partecipazione i casi di imputati per eccesso di cittadinanza.
A fronte di questa chiusura delle istituzioni ai cittadini restano la protesta, il lobbing, la costruzione di capitale sociale, le pratiche di “ginnastica democratica”. Moro richiama la lezione di Ulrich Beck nel 1993: “I cittadini esercitano concretamente i loro diritti riempiendoli della vita per la quale ritengono che valga la pena lottare”.
Che cos’è quindi la cittadinanza attiva nella definizione di uno dei suoi principali artefici? “Una pratica che ha a che fare con il potere di iniziativa riconosciuto dall’articolo 118 della Costituzione, è un’azione collettiva che si concretizza nell’esercizio di poteri e responsabilità, è un impegno per l’interesse generale che si svolge sul terreno delle politiche pubbliche e non della politica, gode di elevata fiducia ma non è un’alternativa alla democrazia rappresentativa”. Una realtà che in Italia coinvolge due milioni di persone sul terreno della tutela dei diritti, della cura dei beni comuni, dell’empowerment adottando strategie di “advocacy” (dare voce), servizio e intervento diretto.
Se è ancora valida la definizione di Max Weber (“la capacità di incidere sul corso delle cose e sui comportamenti di altri soggetti”) molti sono, per il professor Moro, i poteri dei cittadini attivi e altrettanto notevoli gli effetti e gli impatti di queste pratiche collettive.
“La cittadinanza attiva – conclude Moro – ridefinisce il territorio della democrazia, costruisce nuove relazioni di rappresentanza, afferma nuovi diritti, politicizza lee politiche pubbliche, dà forma alla cittadinanza comune, resiste alla dittatura delle maggioranze e al dominio delle minoranze”.
A integrare la “lezione magistrale” del sociologo politico i contributi di Massimiliano Sechi, ricercatore del Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra, e di Silvana Kuhtz. Ricercatrice dell’Università della Basilicata. Il primo, a partire dall’esperienza portoghese, in cui la partecipazione dei cittadini cresce come funzione di supplenza nella crisi violenta del welfare, ha riflettuto sul conflitto tra forme di attivazione collettiva e individuale e sul peso della dimensione di scala per innescare forme di cooperazione virtuosa tra enti locali e cittadinanza. La sua ricerca è dedicata agli spazi pubblici aperti degli enti locali, attraverso le piattaforme di partecipazione.
Per Silvana Kuhtz, invece, ci sono anche parole magiche positive, che fanno accadere le cose. Parole di ispirazione e di narrazione. E su due esperienze del molto piccolo, capaci di “trasformare gli ideali in realtà” è stata dedicata la sua testimonianza sul “potere di realizzare”: l’organizzazione degli orti urbani a Bari, l’esperienza degli affitti gratuiti nella fase di lancio di attività per rianimare il centro urbano di Putignano.
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