A 150 anni dalla proclamazione della “Comune parigina” lo storico materano Giovanni Caserta rievoca la figura del concittadino Giambattista Pentasuglia. Di seguito la nota integrale.
I giornali del 18 u.s.(in verità non tutti, ma solo qualcuno di sinistra) hanno ricordato, nel suo 150° anniversario, che il 18 marzo 1871 a Parigi scoppiava una vera e propria rivoluzione popolare, che prendeva tutti i caratteri di una rivoluzione comunista. La sollevazione aveva portato, appunto, alla proclamazione della cosiddetta “Comune”, che ebbe il favore di Marx e, da noi, di Garibaldi. Assunta a modello la vecchia rivoluzione francese, si era adottata la bandiera rossa al posto del tricolore; si era separata la Chiesa dallo Stato; si era vietato l’insegnamento religioso nelle scuole; si era resa gratuita l’istruzione; infine, si erano nazionalizzate tutte le fabbriche abbandonate dagli imprenditori. L’esperimento durò fino al 28 maggio, chiudendosi con la cosiddetta“settimana di sangue”, conseguenza di una feroce repressione militare da parte del legittimo governo francese.. Si contarono, infatti, 20.000 morti per esecuzione e circa 30.000 deportati,compresi donne e bambini.
Venti giorni dopo, tra il 18 e il 19 giugno, a Parigi capitava Giambattista Pentasuglia, il materano presente tra i Mille di Garibaldi. Era diretto a Londra, dove arrivava il 20 giugno. Il 2 luglio, da Londra, scriveva una lettera all’amico,“compare” Gregorio Padula, che, già pubblicata nel 1956 da Francesco Paolo Nitti e da Mauro Padula nel 1993, fu da noi ripresa nel volume Giambattista Pentasuglia – l’uomo il soldato le idee, Unitep, Matera, 2011. Vale la pena riproporla, nella consapevolezza che essa rimane, tuttora, sconosciuta alla quasi totalità dei materani, soprattutto giovani. Vi si offre un quadro impressionante di quello che era Parigi ancora 20 giorni dopo la feroce repressione.
“Fermatomi a Parigi – si legge in quella lettera – per poterne studiare la fisionomia sotto tutt’ i rapporti toccando con le mani e vedendo coi propri occhi quanto di nero e di vero eravi per le sue contrade, girai dal primo mattino fino a ser’avanzata di qua e di là, finendo per stancarmi a tutta possa. E tanto più ne rimanevo stanco, inquantocché per mancanza di cittadine [carrozzelle] dietro la deficienza dei cavalli od uccisi o mangiati, o morti sotto le bombe incendiarie, le palle infocate e le mitragliatrici: bisognò passarmel’a piedi. E tanto più ancora ne rimanevo lacerato nell’animo ed oppresso nel cuore, inquantocchérisultavami a tutta evidenza di fatto non essersi detto o scritto dalla pubblica stampa né anche la millesima parte di ciò che colà veniva infamemente perpetrato. Dovunque infatti giravo e volgevo lo sguardo, mi imbattevo sempre in ruderi e macerie, in traccie di morte e di sterminio, di sangue e di spavento tale da imbiancarti nel viso, e da farti rizzare i capelli come per incanto. Quasi tutte le Tuilleries, il palazzo di Città, la Bastiglia, le cose monumentali per la via della Maddalena, pei boulevards e per altre contrade, stabilimenti pubblici come la Borsa, chiese, negozii, etc., li vedevo dove bruciati, dove smantellati e distrutti come la casa di Thiers, la colonna di Vendome. Non eravi vetro di bottega o di magazzino o di casa che non fosse forato da palle: da per ogni dove si era riparato con fascie di carta incrociate in mille diverse guise. Sotto i ministeri, e massime a piedi di quello delle finanze, vi stavano mucchi enormi di carte bruciate e si correv’a folle per prenderne degli squarci come ricordo leggendovisi ancora qualche parola. In una delle case vedevasi tuttavia del fumo avvegnacchè non per anco estinto intieramente lo incendio. Quello poi che ti spettrava lo spirito e ti cavava le lagrime dagli occhi, erano gli spruzzi di sangue dove più dove meno, quasi fossero state altrettante beccherie umane. Massime in uno di locali della Bastiglia queste dure memorie mi spaventavano in una vasta scala: poiché ivi venivano ammazzati a cento ed a mille con delle mitragliatrici coperte tutti quelli che o rei od innocenti prendevansi dall’entrate truppe di Versaglia. Né in molto altri siti mancavano sì fatte terribili ricordanze, sentendosi ancora il puzzo dei cadaveri da poco tempo tolti di sul nudo terreno dove cadevano. Per le mura non vedevo altro che rose di buchi, e palle dentro palle: silenzio e panico da per tutto… La più bella città del mondo quanto a lusso e galanteria, allegrezza e brio, divenuta spettro e tomba, mucchi di rovine, teatro di sangue, pagina nerissima della storia. Io non li vidi, ma mi si assicurava da persone di buonissima fede, non solo ma per buona parte ancora testimoni oculari dei fatti, sarebbero 18 a 20.000 coloro che vennero fucilati da schioppettate o da mitragliatrici. Donne non poche, patriogliste o no, megere o non, e parecchi bambini e fanciulli cadevano nella mischia, e così non saprei se finiva o fosse ancora per cominciare la tristissima tragedia macchinata dalla Prostituzione che prendeva il suo trono in Francia, nonché dalla brutta tremenda tirannide di tutti i partiti che giocavano la propria carta a spese delle plebi conquise, del sangue dei popoli, non escluso quello di coloro che in nome di Cristo si assidono con le stole del santuario sulle caterve delle vittime che fecero scannare, per incutere spavento e cercare di vincere nella loro abominevole causa. Ela semenza, caro mio,la brutta bruttissima semenza non del socialismo, ma del comunismo, la si è propagata non nella sola Francia, ma da per tutto e qui in Londra se ne sente l’odore sopra ben vasta scala, cosicché potrei e vorrei illudermi, ma credo non passerà molto e se ne vedrà germogliare la pianta parassita, la quale sarà mestieri, anzi indispensabile necessità sradicare con una nuova riforma sociale, innestando nei cuori la scuola dell’onestà, del lavoro compensato da equa mercede, della vera religione. Bisogna in altri termini finisca la prepotenza dei signori e dei feudalisti, da una parte, la minaccia delle plebi dall’altra, e lo scetticismo, eziandio e soprattutto, dell’anima e del cuore dei popoli avvelenati dal prestigio e dalla superstizione della odierna chiesa romana e non cristiana”.
E’ evidente come il Pentasuglia, massone, già sacerdote, di forti sentimenti sociali e slanci mistici, nel momento in cui distingue comunismo da socialismo, faccia, di conseguenza, professione di socialismo riformista, se non solidarismo umanitario. Contrario alla violenza rivoluzionaria, preoccupato dalle agitazioni popolari, come lo furono molti osservatori del suo tempo, dimostrava, tuttavia, di capire le ragioni delle plebi inferocite. Non condivideva, di conseguenza, la violenza esercitata dalle truppe di Versaglia, che, organizzata la repressione, avevano ucciso, indistintamente, colpevoli e non colpevoli, donne e bambini. Capiva che il problema era di giustizia sociale, la quale, però, si poteva e doveva conseguire solo con una educazione delle coscienze, con una equa e pacifica ripartizione delle ricchezze e con la eliminazione delle rendite parassitarie, rappresentate, nelle campagne, da un feudalismo purtroppo persistente. Non meno importante era il ruolo che egli attribuiva alla Chiesa, purché fosse stata ricondotta ai motivi più veri e originari della sua esistenza e della sua missione. Oltre non poteva andare, come oltre non andavano gli amici esponenti dell’hegelismo napoletano e del primo positivismo. Ma quella posizione di moderato riformista, almeno due volte, sia pure con molto tatto, e in forma più allusiva che esplicita, gli consentiva di fare anche qualche riferimento a Matera e alla sua condizione di depressione sociale e arretratezza culturale. In una lettera del 2 ottobre 1871, infatti, accennava a vertenze dei fratelli per la commendatizia di Picciano, di cui poco si sa. Impressiona, in proposito, l’invito ai fratelli a non lasciarsi prendere dal gioco delle rivalse, “in tanta bottega di tanta canaglia”, nella quale, chissà perché, sembra che fossero da collocare anche i Gattini e i Malvinni. In tale ambito di allusiva discrezione andava anche collocato il riferimento a Matera, in occasione dell’accusato ricevimento del volume di poesie, in dialetto, di Francesco Paolo Festa. In margine all’episodio, e con malcelata ironia, egli si domandava: Matera, ora, ha una tipografia? “Bravi dunque i materani! – commentava. – Si va al progresso”. Ma i “cafoni” (sic)? Che succede di loro? Quindi, con sarcasmo amaro, aggiungeva: E che succede della Chiesa? “Come si gioca [colà]? A dama o a scacchi?”.
Giambattista Pentasuglia era nato a Matera il 2 novembre 1821, anche se, negli atti pubblici, si dà la data del 3. Dopo una vita tempestosa, molto attiva sul piano politico, scientifico e tecnico, moriva in solitudine a Matera, il 4 novembre 1880, nella casa di famiglia, in Salita Castelvecchio, 1. Aveva 59 anni. Il cippo, che ne accoglie le spoglie, lo si può vedere subito dopo l’ingresso del vecchio cimitero; un suo busto, nel 2011, a 150 anni dall’Unità d’Italia, fu collocato nella Villa Comunale.