Giovanni Caserta ricorda Giambattista Salinari, lucano protagonista della Resistenza a Firenze. Di seguito la nota integrale.
Nicola Coccia, fiorentino, giornalista, scrittore, è legato alla città di Matera e alla regione di Lucania Basilicata da amicizie e interessi culturali. Ha scritto un saggio analitico (L’arse argille consolerai), in cui tratteggia la convulsa e attiva presenza di Carlo Levi durante igiorni della Resistenza a Firenze Fu in quel periodo, come è noto, che Carlo Levi, chiuso presso la signora Ichino, scrisse il suo Cristo si è fermato a Eboli, che, scritto a matita, fu poi donato alla signora Ichino. Si ripresenta ora ai suoi lettori, toscani e lucani, con il volume Strage al Masso delle Fate, Pisa, edizioni ETS, 2021, in cui, inaspettatamente, ricorre un riferimento a due fratelli lucani – Carlo e Giambattista Salinari – nativi di Montescaglioso, attivi protagonisti della Resistenza toscana e italiana.Ci sono voluti quindici anni perché Nicola Coccia scrivesse questo saggio. Gli anni sono passati alla ricerca di personaggi ancora viventi, con ispezioni sui luoghi ove avvennero i fatti. Né sono state escluse consultazioni di archivio. Il racconto segue un filo rosso che lega la storia e la vita di tre artisti della Firenze di allora, da alcuni ritenuta, nel primo Novecento, la “Atene d’Italia”. Si intende dire di Ottone Rosai, BogardoBuricchi ed Enzo Faraoni.
Bogardo Buricchi e Enzo Faraoni erano due giovani aspiranti pittori, che scelsero a loro maestro Ottone Rosai. Di questo si seguono, con amore e grande partecipazione, le evoluzioni che lo viderocoraggioso e temerario soldato nella prima guerra mondiale. Seguì, come per molti altri, una adesione al movimento combattentistico e poi fascista. Uomo di sincera passionalità, presto, però, si accorse dell’errore commesso; lentamente, perciò, si isolò, lentamente passando su posizioni antifasciste, pur se non esplicitamente dichiarate e clamorosamente ostentate. Ciò gli permise di sfuggire ai sospetti e, quindi, alla persecuzione fascista. La sua casa, lontana dai sospetti, presto diventò rifugio di antifascisti, anche di primo piano.
La lotta era atroce e senza risparmio di colpi, quale il Sud non ha conosciuto.Emerge la figura del fondatore dei GAP, Bruno Fanciullacci, coraggioso e durissimo nel resistere ad ogni persecuzione, comprese torture e mutilazioni inumane, con cui si sperava di strappare segreti sulla lotta partigiana; dall’altra parte c’era un fascista, Mario Carità, anche lui organizzatore di una banda opposta, che è bene definire criminale prima ancora che politica. Del resto, mentre Fanciullacci arrivava alla lotta da un padre socialista, Mario Carità era figlio di padre ignoto. A quindici anni, prima ancora della marcia su Roma, si era fatto notare per atti di vera e propria delinquenza. Era stato coinvolto in varie truffe; aveva sparato sulla folla duranteun comizio; era stato vigliacco delatore.. Nella sua banda, formata da un centinaio di uomini, c’erano anche due monaci benedettini, che forse continuavano a credere in Mussolini “uomo della Provvidenza”, disceso a difendere, come un “Crociato”, la Chiesa e la fede cattolica. Erano anche loro tra i torturatori.
Bruno Fanciullaccimorì vittima del suo eroismo e del suo coraggio, quando, sorpreso una seconda volta, disarmato, fu portato dai fascisti nel covo dove si raccoglievano ed esercitavano le loro torture. La prima volta, liberato perché muto sulle confessioni che volevano estorcergli, riparò in casa di Ottone Rosai. Quando lo arrestarono la seconda volta, “per farlo parlare gli strapparono le unghie delle mani e quelle dei piedi. Gli bruciarono gli occhi. Volevano sapere i nomi dei suoi compagni, ma Bruno non ne fece nemmeno uno. Nel pomeriggio, quando venne portato per il secondo interrogatorio, approfittando di un attimo di distrazione della scorta, fa un balzo e, nonostante fosse ammanettato, riuscì a gettarsi da una finestra del secondo piano. I fascisti, nel timore assurdo che potesse fuggire, o forse semplicemente era rabbia, gli spararono ferendolo a un fianco”. Nella notte moriva.
Anche di Mario Carità si racconta la morte. Dopo la liberazione di Firenze, a seguito della sconfitta nazifascista cercò scampo mimetizzandosi. Il controspionaggio lo scovò attraverso due soldati americani, mentre giaceva a letto con la sua amante. Armato, trasse la pistola dal cuscino e sparò, uccidendo un soldato americano. Fu ucciso dall’altro americano con una sventagliata di mitra. La sua amante rimase solo ferita. Sono due morti diverse, che indicano la distanza ideologica e morale dei due personaggi.
Bruno Fanciullacci e Mario Carità – e in certo qual modo questo emerge dal racconto – possono essere assunti come il Bene e il Male in assoluto. Dietro di loro, certo – come qualcuno ha voluto sottolineare – c’è una schiera di combattenti, piuttosto variegata. Talvolta si è voluto arrivare ad una generale pietas e comprensione umana.Nobile intento; ma non si può far confusione sugli obiettivi per cui si combatteva da una parte e dall’altra. Il che fa la grande differenza. C’era chi combatteva per ridare al Paese la libertà, e c’era chi voleva ancora un Paese autoritario e violento. Bruno Fanciullacci, proprio a Firenze, sparò a Giovanni Gentile uccidendolo, su mandato non si sa di chi. Nessuno se n’è voluto assumere la responsabilità. Qualcuno ha pensato al grandelatinista Concetto Marchesi. Qualcuno, anche tra gli antifascisti, non approvò e non approva. Vero è, tuttavia, che troppo esplicito era stato l’allineamento di Gentile sulle posizioni fasciste e per la Repubblica di Salò. Parlando contro i renitenti alla leva repubblichina, in un passaggio non mancò di augurare e augurarsi la “risurrezione di Mussolini” e, con essa, la risurrezione dell’Italia, ”aiutata a rialzarsi dal condottiero della grande Germania, che questa nazione aspetta al suo fianco, dov’era il suo posto”. La risurrezione delDux era, senza equivoci, la risurrezione della dittatura; l’armistizio era un tradimento..
Il libro, come è ovvio, non manca di riportare, con fedeltà da cronista, la lunga serie di atrocità commesse dalle squadre fasciste e dai tedeschi, sempre inutili e con la caratteristica della rappresaglia. A titolo esemplificativo, si potrebbe citare l’ultima loro nefandezza, con Firenze già liberata. La strage fu spettacolarizzata. Era il 6 settembre 1944 quando “i tedeschi catturarono 26 partigiani, più quattro feriti. Misero i feriti su un carretto dove c’era adagiato un morto. In fila indiana, con le mani dietro la nuca, i partigiani vennero fatti camminare verso Figline. A metà strada si fermarono al loro comando, a Villa Nocchi.Da un pozzo i tedeschi presero la corda e fecero dei cappi”. I partigiani furono impiccati in successione, alla vista di tutti, perché fossero di “lezione”. E solo per questo.
Seguendo il racconto che Nicola Coccia fa, sempre rapido, limpido, distaccato, come sa fare un bravo giornalista, considerata la molteplicità di nomi e di fatti è netta l’impressione che a muoversi fossestata tutta la città. Si ripercorre la storia dell’antifascismo e della resistenza fiorentina così come epicamente fu raccontata, in Le ragazze di San Frediano, da Vasco Pratolini. E Vasco Pratolini compare in scena con il meglio della cultura fiorentina, tanto che si può dire che, contro il fascismo, si muovessero la cultura e la civiltà. Con i partigiani sono nomi che riempiranno le nostre letture e i nostri studi all’indomani della caduta del fascismo. Compaiono, accanto a Vasco Pratolini, Ottone Rosai, BogardoBuricchi ed Enzo Faraoni, Tristano Codignola e Guido Calogero, Aldo Capitini e Bianchi Bandinelli, Raffaello Ramat e Romano Bilenchi, Piero Santi e Armando Leoni… Lì, figura di intellettuale, doveva stare anche Giovanni Gentile. E non fu. Lì troviamo, invece, Giambattista Salinari (1909-1973), professore di Liceo, critico letterario, poi docente universitario, nativo di Montescaglioso, che aveva studiato presso il Liceo Classico “Duni” di Matera, prima che la famiglia si trasferisse a Roma. Aveva, come nome di battaglia, “Sertorio”. Partecipò attivamente alla liberazione di Prato, rimanendo ferito ad un braccio. Né mancano donne coraggiose come Tosca Bucarelli, Anna Maria Agnolettie Marta Chiesi, torturate e selvaggiamente seviziate.
Se dauna parte sono la cultura e la civiltà; dall’altra parte è l’incultura e l’irrazionalità,, non escluse donne che, purtroppo, più numerose della partigiane, trascinate dall’ebbrezza del potere e dell’uomo forte, passarono dal letto di un nazista o fascista al letto di altro nazista o fascista. Valga per tutte l’esempio dell’attrice Doris Duranti, amante di Alessandro Pavolini, e valga la fine di Mario Carità, ucciso tra le braccia della sua amante, a letto con la pistola. Bruno Faciullacci moriva assistito da un prete.
BogardoBuricchi, insieme col fratello Alighiero, morì per un attentato ad un treno tedesco, carico di tritolo. Enzo Faraoni è morto molto più tardi, nel 2017, a 97 anni, malinconico e sconfortato, come Aquilino, il padre di Bogardo e Alighiero Buricchi. C’era già chi metteva in dubbio non poche azioni partigiane, cui erano seguite le rappresaglie feroci di tedeschi e fascisti a danno di civili innocenti Lo stesso treno fatto saltare in aria, per il quale erano morti i fratelli Buricchi, esplodendo, aveva prodotto danni in tutti i dintorni. Era stato un bene o un male? Chi deciderà? Sono le antinomie drammatiche e angoscianti di tutte le guerre, la cui legge morale è la eliminazione dell’avversario, o meglio nemico. In guerra, legge e virtùè il delitto. Così scrisse Leone Tolstoj in Guerra e pace.
Particolarmente acuta è la problematicità, quando si tratta di guerre di liberazione. Può il “patriota” o uomo libero usare le stesse armi di morte dell’oppressore? Il problema è anche teologico, cioè della Chiesa.. Un altro professore di Montescaglioso, Carlo Salinari, nativo di Montescaglioso (1919-1977), docente universitario, ricordato da Nicola Coccia, fu tra gli attori dell’attentato di via Rasella. Aveva, come nome di battaglia, “Spartaco” ed era fratello di Giambattista. I tedeschi dissero che, se si fossero presentati gli attentatori, non ci sarebbero state rappresaglie. Era vero? C’è chi avrebbe voluto che gli attentatori si fossero presentati; da parte dei combattenti partigiani, invece, si pensò e si decise che non si poteva cedere al ricatti. E’ difficile dire chi avesse ragione. E’ il conflitto eterno tra la ragione politica e di guerra e la ragione morale della pace e della concordia. Il problema lo risolve solo la dottrina della non-violenza. Di certo a Giorgio Amendola, anche lui tra gli organizzatori dell’attentato di Via Rasella, rimase, per tutta la vita, un doloroso senso di colpa.“Avevo dietro di me – scrive– oltre nove mesi di aspra lotta. Quanti morti lasciavo. Non potevo sfuggire ad un senso di colpa, come se fossi in qualche modo responsabile per essermela cavata così a buon mercato, mentre gli altri cadevano. Ed era sempre il ricordo dei 335 fucilati delle Fosse Ardeatine”. Mario Carità, ne siamo sicuri, non avrebbe avuto sensi di colpa.