L’Assemblea diocesana ha inaugurato in mattinata presso la Casa di Spiritualità S. Anna a Matera il nuovo anno pastorale 2016/2017 che, terzo del triennio, ha come tema “La Chiesa promuove il bene comune”.
Quella del Bene Comune è una sensibilità a cui viene richiamata tutta la comunità ecclesiale diocesana e le stesse categorie sociali particolari quali le istituzioni civili e gli imprenditori a cui l’arcivescovo di Matera-Irsina mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, in occasione del suo ingresso in Diocesi, ha fatto visita aprendo con loro un dialogo molto fruttuoso.
L’attenzione sul Bene Comune e sulla corresponsabilità dei laici nella missione evangelizzatrice della Chiesa e nell’animazione della società, è un argomento che l’arcivescovo tratterà in maniera estesa e approfondita nella sua prima lettera pastorale alla Chiesa di Matera-Irsina che sarà presentata ufficialmente proprio in occasione dell’Assemblea diocesana del 10 settembre.
Al grande evento annuale della Chiesa locale sono invitati i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i membri delle Associazioni, dei Movimenti e dei Gruppi ecclesiali ed infine tutti i membri della comunità diocesana.
L’Assemblea è partita con una relazione mons. Fabiano Longoni, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e del lavoro della CEI, a seguire il dibattito e i laboratori di discussione sugli argomenti trattati, fino alla pausa pranzo. I lavori sono ripresi nel pomeriggio con le comunicazioni dei responsabili dei laboratori a cui è seguito l’intervento conclusivo dell’arcivescovo mons. Antonio Giuseppe Caiazzo che ha dettato le linee per il prossimo anno pastorale. La preghiera conclusiva di ringraziamento al Signore chiuderà i lavori.
Riportiamo di seguito la Lettera ai cristiani della Chiesa di Matera – Irsina per l’anno pastorale 2016-2017 a cura di Antonio Giuseppe Caiazzo, Arcivescovo di Matera – Irsina.
Carissimi,
il 16 aprile 2016, accolto dal vostro affetto ho iniziato il mio ministero pastorale nell’amata chiesa di Matera – Irsina, con entusiasmo e determinazione. Sentendo forte la spinta dell’innamorato per la Sposa, ho desiderato conoscerla e amarla da subito incontrando i confratelli sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose, il popolo santo di Dio sparso su tutto il territorio della nostra Arcidiocesi.
Ho toccato con mano quanto bene, non sempre visibile agli occhi della gente, si sta facendo e quante iniziative a favore dei fratelli più disagiati si portano avanti nel silenzio, ma con amore. Dio mi ha dato di conoscere quanta speranza e abnegazione la nostra Chiesa locale sta seminando a favore di tutti coloro che, per un motivo o per un altro, bussano alle porte delle parrocchie o di enti diocesani. Sono rimasto positivamente sorpreso nel vedere che, più che in altre diocesi italiane, il “Progetto Policoro” è ben impiantato, con la nascita di diverse cooperative, offrendo centinaia di posti di lavoro a tanti giovani.
“Omnium me servum feci” (1 Cor 9,19). Entrando e intrattenendomi, più volte, nei diversi luoghi di sofferenza, ho potuto rendermi conto, ancora una volta, di quanto sia urgente e necessario farsi carico delle loro attese e speranze. Dialogando con le istituzioni politiche e militari nelle loro sedi, ho portato il messaggio di un territorio che interpella con le sue diverse esigenze, cercando un dialogo e una collaborazione necessari, addirittura indispensabili per lavorare insieme a favore del “bene comune” della nostra terra. Incontrando il mondo imprenditoriale e confrontandomi con quello sindacale ho cercato di capire quali iniziative possibili, soprattutto per la realtà giovanile, possono essere attuate e promosse. Nei colloqui quotidiani, ho ascoltato centinaia di persone che hanno manifestato la loro attenzione, disponibilità a collaborare. Ho visto, soprattutto, le tante sofferenze e ferite da curare.
“Omnium me servum feci”.Per proseguire nel programma pastorale iniziato con determinazione, volontà e senso del servizio ecclesiale, di Mons. Salvatore Ligorio, mio predecessore, siamo invitati a immergerci in un servizio totale, disinteressato, nella gratuità dell’amore di Cristo(2 Cor 5,14).Come Chiesa di Matera – Irsina siamo chiamati in questo terzo anno a porre l’attenzione sul “bene comune”e sulla corresponsabilità dei laici nella missione evangelizzatrice della Chiesa e nell’animazione della società.
“Omnium me servum feci”.Iniziamo un nuovo anno pastorale e ci avviamo verso la conclusione dell’anno giubilare straordinario della Misericordia. S. Paolo spiega che Gesù, “pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte ci croce” (Fil 2,6-8).
Servire è la parola che, da sola, può riassumere tutta la vita di Gesù Cristo. Egli “non è venuto per essere servito ma per servire” (Mc 10,45); si è messo a servizio degli uomini fino a dare per essi la sua vita. Come Gesù il Vescovo, i Presbiteri, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate, tutti gli Operatori Pastorali, ogni battezzato, siamo chiamati ad essere servi dell’Evangelo, servi di quell’umanità cheè ad immagine esomiglianza di Dio, dove Gesù è icona di Dio, Volto della misericordia del Padre .
“Omnium me servum feci”. S. Giovanni da Matera che, giovanissimo, abbandonò la casa paterna per avere un contatto più stretto con Dio e che, secondo la tradizione, scambiò i suoi abiti lussuosi con quelli di un mendicante per poi andare a Taranto, ci aiuti a spogliarci di tutto ciò che appesantisce la nostra vita quotidiana. Insieme a lui, anche noi, desideriamo ritornare a Dio vivendo una vita semplice ed essenziale, cercando la ricchezza vera, quella promessa da Gesù ai suoi fedeli: la Vita eterna.
Sant’Eustachio, che si convertì al cristianesimo rinunciando a tutte le sue ricchezze, e che, secondo la leggenda, un giorno (100-101) mentre cacciava, vide un cervo di rara bellezza e grandezza che aveva tra le corna una croce luminosa e sopra la figura di Cristo che gli dice: “Placido (poi si fece chiamare Eustachio) perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu onori senza sapere”, ci sostenga nella nostra missione senza paura di perdere qualcosa. Dio non toglie, dona sempre di più.
Santa Eufemia, alla quale il Concilio di Calcedonia (451-52), l’11 luglio si affidò, così come viene riportato nel Sinassario Costantinopolitano,per decidere quale alle due professioni di fede scegliere: quella ortodossa o quella eutichiana , ci aiuti a capire le scelte pastorali che siamo chiamati a fare come Chiesa di Matera – Irsina. Secondo il racconto, infatti, entrambe le professioni furono poste sul petto della santa, ma alla riapertura dell’urna debitamente sigillata, si trovò il testo ortodosso stretto nelle mani della santa e quello ereticale sotto i suoi piedi.
S. Francesco da Paola, molto venerato nella nostra Diocesi e patrono della terra dalla quale provengo, la Calabria, cammini con noi accompagnandoci con il suo insegnamento.
Terremo presente il brano di Lc 10, 25-37:
25Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». 28E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai».
29Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».
E’il brano evangelico conosciuto come “la Parabola del Buon Samaritano” che rileggeremo alla luce delle cinque vie del Convegno Ecclesiale di Firenze e dell’insegnamento di Papa Francesco.
La strada che va da Gerusalemme a Gerico l’ho attraversata decine di volte con i pellegrini della Parrocchia di S. Paolo in Crotone, dove ero parroco. E’ incredibile come nel giro di pochi chilometri si salga da 300 metri sotto il livello del mare a 800 metri di altezza (un dislivello di 1100 metri!). In basso Gerico, circondata dal deserto, una delle città con insediamenti umani più antichidel mondo come la nostra Matera del resto. In alto la incantevole Gerusalemme con tutta la sua bellezza intrisa della storia della salvezza, dove tutto si è compiuto con la passione, morte e resurrezione di Gesù; con la Pentecoste e la partenza degli apostoli verso la Galilea.
Un tratto di strada irto, con un dislivello impressionante, arido e, ai tempi di Gesù, pieno di pericoli. E’ sempre emozionante ripercorrere, se pur con il pullman, questa strada. Ritornano in mente tutti i momentiin cui Gesù, fin da piccolo, percorreva tale strada fino al giorno del suo ingresso trionfale a Gerusalemme, per poi subire il martirio della croce. Ma anche dopo la sua resurrezione: penso ai discepoli diretti a Emmaus e come“Gesù in persona si accostò e camminavacon loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”(Lc 24,13-35) .
E’, ancora oggi, l’arteria stradale principale per raggiungere Gerusalemme. E’ la strada dove Gesù incontrava l’uomo con le sue ricchezze e le sue miserie; l’umanità ferita e bisognosa di redenzione; le folle in pellegrinaggio con tutto quello che avevano, comprese le pecore e gli asini…E’ la strada del dialogo, delle catechesi ai discepoli, è la strada… Mi chiedo: qual è la strada che vogliamo percorrere come Chiesa locale?
Non dobbiamo temere di salire a Gerusalemme, non certo per ricevere gli “Osanna”. Entrare in Gerusalemme significa avere il coraggio di gioire e di soffrire: morire per il vangelo e non per affermarsi o occupare un posto sicuro, ottenere una posizione di tutto rispetto.
Le stesse persone che dicono “Osanna”, prima o poi grideranno: “Crocifiggilo”. Senza un serio cammino di fede e di una fede adulta ci perderemo ad organizzare il sacro; saremo impiegati del sacro ma non riconosceremo sacra la vita che incontreremo. Al momento opportuno saremmo capaci di sfuggire l’uomo percosso e in difficoltà, fingere di non vederlo.
La giustificazione si trova. Di certo qualcuno, curerà, rianimerà, darà sollievo e sarà capace di pagare di tasca sua perché vuole il bene dell’altro. Perché sa ancora provare compassione.
“Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro… Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente. È la compassione… Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità… La compassione, cioè soffrire con l’altro è la cosa che ha più senso nell’ordine del mondo” .
Ci stiamo avviando verso la conclusione del Giubileo straordinario della Misericordia segnato da tanti eventi “straordinari”. Eventi che hanno spostato sicuramente l’attenzione dall’ Anno Santo: trasferimento di S. E. Mons. Salvatore Ligorio all’Arcidiocesi di Potenza – Muro Lucano – Marsico Nuovo; subito dopo la mia nomina ad Arcivescovo di Matera – Irsina con consacrazione e ingresso.
Le opere di misericordia spirituale e corporale fanno parte del bagaglio di vita cristiana che contraddistingue il credente: Caritas Christiurget nos (2Cor 5,14). L’anno giubilare si chiuderà ma gli spazi dell’amore continueranno a dilatarsi. E’ la logica conseguenza di una Chiesa che prega, ascolta e medita la Parola, si nutre della grazia divina attraverso i sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Cresima, Eucaristia in particolare), di guarigione (Penitenza, Unzione degli infermi), della missione (Ordine e Matrimonio). Questo vale per il Vescovo, come per i Presbiteri, i Religiosi, i Diaconi, le Religiose, ogni membro della Chiesa, il Popolo Santo di Dio.
Ma basta fare opere di misericordia? La tentazione forte che c’è oggi nella Chiesa è quella di fare tante cose, anzi di affannarsi per arrivare…primi. Sarebbe una cosa santa se tutto si facesse per ottenere “la stessa corona di gloria”.
L’autore della lettera agli Ebrei dice: “Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio” (Eb 12,1-2).Nel Prefazio per il formulario dei Santi preghiamo così: “Confortati dalla loro testimonianza,affrontiamo il buon combattimento della fede, per condividere al di là della morte la stessa corona di gloria”.
Mai come oggi ci rendiamo conto di una cosa: si è credibili non perché capaci di opere di misericordia ma se saremo capaci di essere misericordia. E questo significa compiere gesti di riconciliazione, di perdono, di amore gratuito senza aspettarsi nulla in cambio. Nelle nostre comunità non abbiamo bisogno di persone che “si diano da fare” ma di uomini e donne, giovani, famiglie con una fede adulta.
Il brano evangelico del “Buon Samaritano” ci sarà certamente di aiuto per riflettere e capire “Chi è mio prossimo” e cosa vuol dire Gesù al Dottore della legge con le parole “…va’ e anche tu fa così”. Prossimo: dall’ebraico “rea” colui che è vicino, col quale stai trattando. Dal greco “plesion”, ovvero avvicinarsi.
Viviamo un tempo in cui il bisogno di avvicinarsi all’altro si manifesta in tante forme e modi: la gratuità dell’amore viene prima di qualsiasi altra cosa. Ma a volte il prossimo da servire potrebbe diventare un’opportunità di guadagno, di ricchezza personale o associativa. Lo spirito cristiano è quello di Dio che in Gesù Cristo si è svuotato della divinità rivestendosi di umanità (Fil 2,6): si è fatto come noi, per stare con noi, accanto a noi. Dio si è fatto prossimo per rivestirci di lui, essere come lui, vivere da Dio.
Nessuno di noi potrà servire Dio realmente se non serve l’uomo. Chi è afferrato da Cristo e sperimenta la sua vicinanza non agisce in nome di interessi personali, di guadagni, di sistemazione.
In un tempo di particolari tensioni, di paure, di sangue innocente che bagna le strade del mondo intero (non solo l’Europa), di barbarie inaudita, si fa esperienza di come è facile servirsi del nome di “Dio” per annientare l’altro, respingerlo, costringerlo ad essere o a fare quello che non vuole o non può. Mai come in questo tempo ci stiamo rendendo conto che l’“altro” non può essere considerato come una minaccia: è un bene per ognuno di noi, una ricchezza. Se desideriamo il bene comune e vogliamo agire in tal senso necessariamente dobbiamo partire da questo principio: l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e come tale dev’essere accolto, servito e amato.
Sento di riprendere in questa lettera, ancora una volta, quanto disse Don Tonino Bello il giorno del suo ingresso nella Diocesi di Molfetta, e che anch’io ho voluto fare mio. Lo ripropongo a voi, confratelli nel sacerdozio, a voi diaconi, religiosi e religiose, popolo santo di Dio.
‘Io sono stato inviato a voi a proclamare che Gesù Cristo è risorto ed è l’unico Re e Signore.
Significa affermare la regalità e la signoria dell’uomo.
Significa rifiutare gli idoli del potere, le suggestioni del denaro, il fascino delle ideologie.
Significa andare contro corrente in un mondo che ogni tanto si popola di nuove divinità e obbliga a prostituirsi davanti ad esse.
Significa combattere i soprusi dei più forti, le violenze degli arroganti, le assolutizzazioni delle strutture.
Significa contestare la logica della sopraffazione e dell’asservimento dell’uomo all’uomo.
Significa impedire che i criteri dell’efficienza siano il metro per misurare i fratelli.
Significa impegnarsi perché la paura, la solitudine, la disoccupazione, l’odio, la tortura, la strage, l’emarginazione dei deboli, la squalifica degli umili riducano sempre più nel mondo lo spazio della loro presenza deleteria.
Significa affermare la precarietà dell’angoscia, la provvisorietà del dolore, la labilità della malattia, la caducità della morte…’.
‘…Dovrò essere solo io, come Vescovo, ad assumere questo compito così gravoso nei confronti del mondo? Assolutamente no… Questo compito spetta a tutto il popolo di Dio’.
Mi chiedo:se un battezzato, un prete, una religiosa, serbano nel loro cuore rancore verso qualcuno, o addirittura vivono in uno stato di inimicizia anche nella stessa famiglia, comepossono curare le ferite di tanti altri fratelli che non si conoscono? E mi ritornano in mente le parole di S. Giovanni: “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (Gv 4,19).
A conclusione dell’Anno Santo Straordinario della Misericordia, come Diocesi, vogliamo lasciare dei segni concreti che siano un’attenzione particolare verso situazioni di particolare sofferenza. Ne abbiamo individuato tre:
– Casa Famiglia per ragazze madri
– Contributo della diocesi per comprare un camper attrezzato per i malati di sla presenti sul nostro territorio
– Sistemazione di alcuni mini appartamenti, nella zona di Scanzano, per famiglie di profughi.
Ribadisco che bisogna ritornare a riprendersi il volto intriso di quell’umanesimo di cui il Convegno Ecclesiale di Firenze ci ha parlato. Matera, come città europea per la cultura per il 2019, e tutto il territorio lucano, possano ricevere dalla Chiesa un forte contributo mettendo a fuoco queste aree tematiche: le forme e i percorsi di incontro con Cristo (nuove esperienze di annuncio, andare alle periferie); le difficoltà di credere e di educare a credere; la mappa dei luoghi in cui avviene l’esperienza della fede.
“L’ Arcidiocesi di Matera-Irsina, nel novembre 2015, ha istituito un gruppo di lavoro affinché la comunità diocesana potesse elaborare e proporre al proprio interno e al territorio un contributo specifico al percorso che Matera e la Basilicata stanno compiendo dopo la designazione della Città a Capitale Europea della Cultura per il 2019… La comunità cristiana vuole prendere coscienza di una rinnovata presenza nel territorio, della propria vocazione come forma specifica di missionarietà, della valorizzazione dell’immenso patrimonio materiale e immateriale prodotto nei secoli, dei segni e della ricchezza proprie della modernità. Riferimenti essenziali di questo percorso sono il recente Convegno ecclesiale di Firenze e il Magistero di Papa Francesco…Desiderio e auspicio dell’Arcidiocesi è che il patrimonio di fede e carità, di devozioni e tradizioni, come tutto il bagaglio artistico della nostra Chiesa, continuino a offrire e a promuovere la cultura dell’umano e la dignità della persona, e custodiscano i valori che rendono ricca e bella la nostra terra ”.
Ritrovare il gusto per l’umano attraverso i famosi cinque verbi che diventano impegno concreto e sfida per la Chiesa: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare per capire in quale direzione stiamo andando.
Papa Francesco con la sua “Chiesa in uscita”ci sta indicando uno stile: entrare nelle “periferie esistenziali” che non sono lontane da noi, anzi ci appartengono quotidianamente. Come parroco prima e vescovo ora, tocco con mano, stando in mezzo alla gente, davanti a loro e dietro di loro, come le periferie esistenziali si chiamino famiglia, educazione, scuola, mondo dei giovani, casa comune che è il creato, città che abitiamo, lavoro, poveri ed emarginati.
Ma esiste anche un mondo nel quale tutti, ormai, siamo catapultati e del quale non possiamo fare più a meno: quello digitale. Comunicare attraverso la rete sta diventando sempre più luogo di incontro e di dialogo. E’ solo comunicazione virtuale? Dipende da come si usa. Non potrebbe essere strumento di un confronto e scambio, che tende a dilatarsi, superando confini di ogni genere e favorendo la conoscenza, le conoscenze, per costruire una ‘Città comune’? Una città che non si definisca con altri nomi se non come ‘Città dell’uomo’ che è lo stesso che dire ‘Città di Dio’.Se torneremo a credere e valorizzare l’umano sicuramente torneremo a Dio e sentiremo il bisogno di gustare il “già e non ancora” il senso dell’eternità perché scopriremo di essere Chiesa. E dire Chiesa significa: aspirazione e desiderio di camminare insieme per le strade dell’umanità.
“I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un’interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un’interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l’uomo che lì giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un’immagine di «Adamo», dell’uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l’uomo, questa creatura che è l’uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell’umanità è quasi sempre vissuta nell’oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori — sono essi forse le vere immagini dell’uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell’uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l’«alienazione» dell’uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione, perché ragionava solo nell’ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell’uomo che è caduto vittima dei briganti” .
Sono tante le ferite da curare. Sicuramente il grido più incessante sembrerebbe quello di essere guariti nel corpo. Quanti persone (ragazzi, giovani, adulti, anziani) sono incappate nei “briganti” che gli hanno iniettato nel sangue, nei polmoni, nelle cellule, malattie che, nonostante le terapie più innovative, lentamente si spengono: leucemia, cancro ai polmoni, al colon, al fegato, al seno. Dovremmo chiederci: cosa beviamo, cosa respiriamo, cosa mangiamo?Per non dire del vile mercato delle droghe…
Ma ci sono ferite altrettanto profonde che spesso fanno spegnere la voglia di vivere. Sono le ferite interiori. Penso a quelle della mente, della psiche. Il mio pensiero va soprattutto a quelle ferite che chiudono ogni prospettiva per il futuro: mancanza di lavoro, ingiustizie sociali, famiglie sconvolte da divisioni, litigi, vendette. La mortificazione mafiosa che sbarra ogni possibilità di riscatto e di progresso per un intero territorio. La piaga dell’aborto. La vita non più accolta come un dono di Dio. Nel nostro ospedale di Matera c’è una percentuale di interruzione della gravidanza che fa rabbrividire: tra i 5 e i 7 a settimana!
Come trascurare le ferite spirituali? Sono, sicuramente, le più difficili da guarire: nascono dai nostri peccati, da scelte di vita che a volte sembrano più compromessi abitudinari. Ci si abitua a convivere con i vizi che pian piano prendono il sopravvento dominando tutta la nostra vita. La cosa più triste è constatare come ci si abitui a giustificare ogni scelta, modo di agire, di dire.
Su tutte queste ferite Gesù, per mezzo della Chiesa, vuole versare il vino della speranza, della vera vite (il suo sangue) e l’olio della consolazione, il suo Santo Spirito, che risanano coloro che desiderano essere liberati dalla malattia dei propri errori.
“Ascoltare e parlare con la vita. “Un umanesimo in ascolto, un umanesimo concreto, un umanesimo plurale e integrale, un umanesimo d’interiorità e trascendenza”: sono le quattro figure dell’umano al centro della Traccia. “Partire dall’ascolto del vissuto, per cogliere la bellezza della vita in atto”, il primo imperativo: “ascoltare l’umano significa vedere la bellezza di ciò che c’è, nella speranza di ciò che può ancora venire”. Concretezza significa “parlare con la vita”, per “combattere l’indifferenza con l’attenzione all’altro”. Con tanti “miracoli silenziosi”, “si arriva ben al di là di quel che si pensava”. Umanesimo è un termine che “si declina al plurale”: ci vuole “uno sguardo d’insieme, l’uno stretto accanto all’altro, quasi tessere di un mosaico”, per cogliere la bellezza di “una famiglia umana segnata non dall’omologazione ma dalla convivialità delle differenze”, e caratterizzata da “legami di figliolanza e fratellanza” da accompagnare con la “prossimità”, soprattutto davanti alle fragilità vecchie e nuove, alle “fabbriche di povertà”. Nessun dualismo tra verità e pratica, niente “professionisti dello spirito” .
Un umanesimo in ascolto:che offre risposte concrete alle sfide odierne e che mette sempre al centro la persona in tutta la pienezza delle sue necessità e bisogni umani, spirituali e culturali.
Un umanesimo concreto:capace di sostenere ogni persona a compiere il suo cammino verso il Signore, a partire dalla vita reale.
Un umanesimo plurale e integrale:per accedere all’umano, difatti, si deve imparare a inscrivere nel volto di Cristo Gesù tutti i volti (uomini e donne, bambini, adulti, anziani del nostro tempo)per ritrovare unità e comunione, differenze che uniscono nel riconoscersi figli e fratelli in Cristo. Egli, invero, ne raccoglie in unità i lineamenti come pure le cicatrici(le realtà istituzionali della comunità, gli stessi ruoli delle varie persone che la compongono, i vari servizi alla persona che esigono unità di indirizzo e di mutua collaborazione).
Un umanesimo d’interiorità e trascendenza:aprendo spazi di silenzio e di preghiera nelle parrocchie e nelle famiglie, nelle associazioni, nei movimenti, nei cammini di fede, attraverso la preghiera e la liturgia, l’uomo è portato all’incontro di comunione con Dio. Il nuovo umanesimo in atto nelle nostre comunità cristiane chiama e rimanda a questa dimensione fondante che è l’incontro e il dialogo con Dio, nei modi e nelle espressioni diverse che lo Spirito suscita.
Tutto si realizzerà se avremo il coraggio di non rimanere nel chiuso delle nostre case, delle nostre idee, dei nostri pregiudizi, vincendo quella miopia che spesso ci ha penalizzati e ci ha fatti arroccare nelle nostre sicurezze che il tempo ha letteralmente sgretolato.
Come Chiesa locale ci stiamo preparando al convegno diocesano di settembre che pone al centro della riflessione e di scelte condivise “il bene comune”.
La Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo, educare alla vita buona del Vangelo e promuovere il bene comune collaborando con le istituzioni civili. Il buon samaritano gioca il ruolo essenziale dell’uomo che esprime l’impegno politico-sociale sulla “statale” Gerusalemme-Gericodella vita di ogni giorno. Un politico che disdegni la prossimità non è degno di questo nome, direbbe Don ToninoBello.
Come ho detto alle autorità civili e militari, incontrate alla vigilia della festa della Madonna della Bruna, nella nostra Basilica Cattedrale, siamo chiamati a guardare il bene comune. Ne riporto alcuni passaggi
«Mi rendo conto benissimo di quanto sia difficile, per noi e per voi, a causa di tutta una serie di problematiche che si intrecciano, operare in talsenso. La Chiesa da sempre apprezza l’azione di quanti si applicano al bene della cosa pubblica, portando il peso delle relative responsabilità. Nella Gaudium et spes del Concilio Vaticano II il bene comune viene definito come“l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni, il conseguimento più pieno della loro perfezione”(GS 74). Questo significa educare le nostre comunità a progredire ulteriormente verso un cambiamento di mentalità culturale, religiosa e politica per guardare l’altro non come un avversario da combattere ma come un’ulteriore possibilità che viene offerta; per un arricchimento reciproco e una crescita che va al di là degli steccati parrocchiali, dei colori politici o altro; riscoprire il bene comune e vincere la diffidenza e l’individualismo, dalle nostre parti ancora troppo presente…
Una comunità cresce e diventa adulta se, attraverso i suoi membri, passa dall’ “io” al “noi”: si crea un dinamismo dove ognuno dà e nello stesso tempo riceve.«Che cosa è infatti il cristianesimo? È forse una dottrina che si può ripetere in una scuola di religione? È forse un seguito di leggi morali? È forse un certo complesso di riti? Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento» (Don Luigi Giussani)…
Ritengo che se insieme lavoreremo nella riscoperta del bene comune, mettendo al centro di ogni azione la partecipazione, che significa la buona politica, saremo capaci di abbattere la preoccupante costruzione del muro dell’antipolitica, agendo con libertà e disinteresse. Solo così si potrà vincere quella sfiducia che sta caratterizzando il nostro tempo verso ogni istituzione. Si avverte il bisogno di onestà, di trasparenza, legalità, senso civico…
Alla base del bene comune ci dev’essere, senza ombra di dubbio, la giustizia, che mette ordine e rende il quotidiano vivibile. Penso, allora, che il fine della politica sia la giustizia e che la fede cristiana imponga ad ogni credente una partecipazione alla cosa pubblica partendodall’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa…
Carissimi, la Chiesa e le istituzioni abbiamo il non facile compito di educare, guidare, sostenere l’uomo, ogni uomo, nelle sue fragilità, attese, speranze. L’amore per la nostra terra, per la nostra gente, sarà sicuramente la molla che ogni giorno ci impegnerà ad essere come la luce, il sale, il lievito, per illuminare, ridare gusto e far lievitare ogni cosa per il bene comune».
Nell’incontro avuto in episcopio, nel Salone degli Stemmi, con gli Imprenditori cristiani, tra le altre cose, ebbi a sottolineare: «Papa Francesco, incontrando l’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti, dice: “Non basta fare beneficenza, ma occorre piuttosto orientare l’attività economica in senso evangelico ”. E ha chiesto agli imprenditori cristiani di essere missionari della dimensione sociale.
Il Papa ricorda agli imprenditori che “in quanto associazione ecclesiale, riconosciuta dai Vescovi, voi siete chiamati a vivere la fedeltà alle istanze evangeliche e alla Dottrina sociale della Chiesa in famiglia, al lavoro e nella società”, e sottolinea che questa testimonianza “è molto importante”, da vivere nello spirito della “missionarietà laicale ”.
Missionarietàche comporta soprattutto vicinanza a chi è povero ed emarginato, “un atteggiamento, di uno stile con cui portare avanti i programmi di promozione e assistenza, incrementando le numerose e benemerite opere concrete di condivisione e di solidarietà che sostenete in varie parti d’Italia .”
“In questa prospettiva – dicePapa Francesco – siete chiamati a cooperare per far crescere uno spirito imprenditoriale di sussidiarietà, per affrontare insieme le sfide etiche e di mercato, prima fra tutte la sfida di creare buone opportunità di lavoro. A questo contribuiscono anche le iniziative di confronto e di studio, che realizzate sul territorio .”
Vorrei sottolineare il valore sociale delle imprese, le quali hanno bisognodi essere tutelate, da istituzioni, ma anche da agenzie finanziarie e bancarie, tutti chiamati ad “agire con responsabilità” perché “l’economia e l’impresa hanno bisogno dell’etica per il loro corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica che ponga al centro la persona e la comunità ”.
Solo così possiamo capire che l’economia va orientata in senso evangelico “al servizio della persona e del bene comune”, e che bisogna in particolare “assicurare maggiori tutele lavorative per le donne e per i giovani”, che, “prigionieri della precarietà o di lunghi periodi di disoccupazione, non vengono interpellati da una richiesta di lavoro che dia loro, oltre a un onesto salario, anche quella dignità di cui a volte si sentono privati…Tutte queste forze, insieme, possono fare la differenza per un’impresa che metta al centro la persona ”.
C’è un’espressione molto bella che Papa Francesco usa e che vorrei riportare, sintetizzando: l’impresa e l’ufficio dirigenziale delle aziende possano diventare luogo di culto e santificazione, mediante l’impegno a costruire rapporti fraterni, favorendo la corresponsabilità e la collaborazione, con un’attenzione particolare alla qualità della vita lavorativa dei dipendenti, la risorsa “più preziosa” dell’impresa».
Nella mia prima visita alla Camera di Commercio di Matera,incontrando tutti gli imprenditori, sottolineai, nel mio intervento di saluto: «…Tengo presente: Encicliche sociali di Giovanni Paolo II: la Sollicitudo rei socialis e la Centesimusannus, La Caritas in veritate di Benedetto XVI, l’Evangeliigaudium e Laudatosì di Papa Francesco.
Leggendo il messaggio di Gesù nei vangeli e quello della Dottrina Sociale della Chiesa, ci rendiamo conto che il valore della persona sta al centro di tutto. L’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e perché Cristo ha dato la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini.
Don Sturzo parlava di intima connessione tra l’umanesimo e il messaggio evangelico.
Papa Francesco dedica al tema della dimensione sociale dell’evangelizzazione un intero capitolo, il quarto, nella Evangeliigaudium. Riprendo qualche frase: “Ora vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice” (n. 176).
E al n. 203 dice “La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare (produzione di ricchezza secondo la parabola dei talenti) e rendere accessibili per tutti (distribuzione della ricchezza secondo giustizia) i beni di questo mondo”.
Mi pare di cogliere in queste espressioni di Papa Francesco che ci sia unaduplice funzione dell’impresa: da una parte produrre la ricchezza, dall’altra di distribuirla secondo principi di giustizia. Purtroppo non sempre è stato così. La migliore scuola italiana di economia aziendale afferma che la crescita della ricchezza non si ha difendendola, ma diffondendola in tutto il sistema economico e sociale per la costruzione del bene comune …
Carissimi, voi mi insegnate che la Dottrina Sociale della Chiesa poggia su fondamenti che sono validi sul piano universale: lo sviluppo, la solidarietà, la sussidiarietà, la destinazione universale dei beni, il bene comune…
Papa Francesco nell’enciclica sociale, Laudatosi’, sulla salvaguardia della nostra casa comune che è la terra che abitiamo, sottolinea che l’uomo non deve distruggere per il suo egoismo perché essa è il primo bene comune…
Carissimi, dobbiamo avere il coraggio allora di seguire queste vie che ormai ben conosciamo peruscire,annunciare, abitare, educare, trasfigurare.
In qualità di Vescovo Delegato dalla CEB, per il mondo del lavoro, ci incontreremo a giorni con tutti i rappresentanti della nostra Regione in preparazione al Convegno delle Chiese del Sud (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Basilicata) da tenersi a Napoli nel febbraio 2017 per vedere come prepararlo nelle nostre diocesi e come coinvolgere le comunità, le istituzioni,le imprese, i sindacati, i lavoratori.
“La disoccupazione, in realtà, è divenuta una seria preoccupazione per la nostra gente, soprattutto per i giovani che non vedono futuro innanzi a sé e sono spinti ad avvolgersi su se stessi in una spirale pericolosa, senza speranza, senza via d’uscita. Le Chiese del Sud si sentono fortemente sollecitate ad intervenire per dare una risposta all’attuale situazione, divenuta sempre più intollerabile. L’episcopato meridionale intende offrire una vibrante testimonianza di vicinanza alla propria gente, presentando proposte concrete, maturate insieme, in concerto con la società civile e con le organizzazioni legate al mondo del lavoro. Non si intende pertanto organizzare un convegno celebrativo, ma avviare un laboratorio di idee, utile ad affrontare la crisi con proposte precise, efficaci, realizzabili ”.
Senza una fede adulta correremo il rischio di continuare con una pastorale di conservazione, di celebrazione di sacramenti più per tradizione che per scelte di fede.
Interessante, a questo proposito, sono i dati ISTAT 2015 sulla frequenza ai riti religiosi nelle nostre parrocchie sul territorio nazionale, riguardo alle diverse classi di età.
Vanno in chiesa ogni domenica,
• Il 40% degli anziani
• Il 25% di chi ha l’età compresa tra i 45 e i 60 anni
• Il 15% dei giovani tra i 18 e i 29 anni
Dal 2006 al 2015, si registra un calo generalizzato:
• i giovani dai 18 ai 24 anni e gli adulti dai 55 ai 59 anni, hanno perso il 30% dei frequentanti.
• coloro che hanno dai 25 ai 29 anni -20%
• coloro che hanno dai 40 ai 50 anni – 10%
• gli anziani – 12%
Non sto qui a fare un’analisi della situazione e quali le motivazioni.
Di certo non regge più una pastorale di conservazione che punta tutto sulla celebrazione dei sacramenti.
In questi giorni, nei luoghi dove mi sono ritemprato nel corpo e nello spirito, ho visto troppe chiese chiuse, se non nell’orario di alcune celebrazioni! Santuari senza la presenza di un confessore! Troppi orari e formalismi da rispettare! La chiesa ritorni ad essere luogo di culto, di preghiera, di adorazione eucaristica, di ascolto della Parola e di ascolto delle persone.
Abbiamo delle bellissime torre campanarie e dei concerti di capanemeravigliosi. Basta suonare le campane per richiamare i fedeli? E se invece incominciassimo a suonare di meno le campane e suonassimo di più i campanelli delle case? E se ogni anno, nelle nostre comunità parrocchiali dessimo vita a un nuovo gruppo di catechesi per giovani e adulti? E se le realtà parrocchiali che stanno facendo un serio cammino di conversione, per gemmazione, facessero nascere una nuova realtà?
Tutto questo comporta tempo, fatica; romperebbe i ritmi parrocchiali tradizionali. Una catechesi costante, settimanale, con le porte aperte delle nostre chiese, come ci ricorda Papa Francesco, e delle opere pastorali, per incontrare ogni realtà che lo Spirito Santo continua a suscitare nella Chiesa.
Non si tratta di fare o promuovere nuovestrategie pastorali ma di rendersi conto che tanti incontri, catechesi, formazione, preghiera, come in tante parrocchie della nostra Diocesi ormai si fa, prima delle h. 20.00/21.00 non si possono più tenere.
Diversamente continueremo ad avere accanto a noi, e sempre presenti in tutte le iniziative, le stesse persone, animate da tanta buona volontà e amore ma che a volte non permettono ad altri d’inserirsi per paura che possano rubare il “posto”. Ma io so, per esperienza, che nella Chiesa non c’è posto per coloro che si sentono a posto!
I Vescovi italiani, già da qualche anno ci ricordano:«Ci sembra importante che la comunità sia coraggiosamente aiutata a maturare una fede adulta, “pensata”, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo. Solo così i cristiani saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale -fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita (cf. 1Pt 3,15). A questo obiettivo di maturità della fede, avendo considerazione delle diverse età, cercando di fare unità tra ascolto, celebrazione e esperienza testimoniale di fede, tende il progetto catechistico delle nostre Chiese…» .
La Chiesa, costituita dalla carità divina, è chiamata a strutturarsi sul territorio come comunità che, pur nella diversità dei ruoli e dei carismi, sollecita la corresponsabilità di tutti i suoi componenti.
L’obiettivo da raggiungere è:
-“far maturare le comunità parrocchiali come soggetto di una catechesi permanente e integrale,
– di una celebrazione liturgica viva e partecipata,
– di una testimonianza di servizio attenta e operosa” .
Carlo Maria Martini, negli anni in cui era Cardinale a Milano, commentando il brano del Buon Samaritano, dice testualmente:
“La catechesi per e con gli adulti comunica in modo organico e riflesso l’intima forza di verità che scaturisce dalla fede adulta. Ci deve stare a cuore, allora, la formazione di cristiani adulti, di uomini guidati dallo Spirito, di credenti maturi che sanno farsi carico dei problemi di fede dei loro fratelli. I testimoni della fede saranno i veri catechisti. Orbene la fede adulta è quella che opera attraverso la carità, scopre e condivide le concrete condizioni in cui gli uomini vivono” .
La comunioneè l’espressione massima della partecipazione e della corresponsabilità delle varie articolazioni della comunità. “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli a Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” .
E’ urgente che la comunione sia plurale. Basterebbe pensare che abbiamo ben quattro Vangeli che parlano di Gesù Cristo (quattro modi diversi di annunciare lo stesso Gesù). E’ l’agire dinamico dello Spirito Santo che apre sempre strade nuove alla e nella Chiesa per non rimanere chiusa in quell’agire che potrebbe avere il sapore del ritualismo o del “si è fatto sempre così”.
Ogni Diocesi è diversa dall’altra e ogni parrocchia è diversa da un’altra. Ma per essere in comunione e vivere in sinergia tutte le Diocesi e tutte le Parrocchie attingono all’unico insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Fuori da questa logica esisterà la “mia” Chiesa ma non la Chiesa. Lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio significa accogliere la ricchezza dei doni, dei carismi, delle nuove realtà parrocchiali: associazioni, movimenti, cammini di fede. La diversità crea l’unità e non la divisione. Questa è spiritualità di comunione perché nasce da Dio Trinità che è comunione; si partecipa nel corpo di Cristo e nel suo sangue; si ascolta la voce dello Spirito Santo; si sperimenta l’amore del Padre scoprendo di essere tutti figli suoi.
Il 15 maggio 2016 la Congregazione per la Dottrina della fede ha messo nelle nostre mani la lettera Iuvenescit Ecclesia (la Chiesa ringiovanisce), sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa. La lettera, divisa in 5 capitoli e 24 paragrafi, indirizzata ai Vescovi, è una riflessione che aiuta a riprendere consapevolezza di come lo Spirito Santo da sempre, e senza sosta, continua a suscitare i carismi nella Chiesa ringiovanendola.
“In 1 Cor 12, 7 Paolo dichiara che «la manifestazione dello Spirito è data a ciascuno per l’utilità». Molti traduttori aggiungono: «per l’utilità comune», perché la maggior parte dei carismi menzionati dall’Apostolo, anche se non tutti, hanno direttamente un’utilità comune. Questa destinazione all’edificazione di tutti è stata ben compresa, ad esempio da Basilio Magno, quando dice: «E questi doni ciascuno li riceve più per gli altri che per sé stesso […]. Nella vita comune è necessario che la forza dello Spirito Santo data all’uno venga trasmessa a tutti. Chi vive per conto suo, può forse avere un carisma, ma lo rende inutile conservandolo inattivo, perché lo ha sotterrato dentro di sé». Paolo, comunque, non esclude che un carisma possa essere utile soltanto alla persona che l’ha ricevuto. Tale è il caso del parlare in lingue, differente sotto questo aspetto dal dono della profezia. I carismi che hanno un’utilità comune, siano essi carismi di parola (di sapienza, di conoscenza, di profezia, di esortazione) o di azione (di potenza, di ministero, di governo), hanno anche una utilità personale, perché il loro servizio al bene comune favorisce in coloro che ne sono portatori il progresso nella carità. Paolo osserva, in proposito, che, se manca la carità, anche i carismi più elevati non giovano alla persona che li riceve (cf. 1 Cor 13, 1-3). Un passo severo del Vangelo di Matteo (cf. Mt 7, 22-23) esprime la stessa realtà: l’esercizio di carismi vistosi (profezie, esorcismi, miracoli) può purtroppo coesistere con l’assenza di una relazione autentica con il Salvatore. Di conseguenza, tanto Pietro quanto Paolo insistono sulla necessità di orientare tutti i carismi alla carità. Pietro offre una regola generale: «mettere il carisma ricevuto al servizio gli uni degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio» (1 Pt 4, 10). Paolo si preoccupa in particolare dell’impiego dei carismi nei raduni della comunità cristiana e dice: «tutto si faccia per l’edificazione» (1 Cor 14, 26) .
Nella nostra Chiesa locale sono tante le realtà che operano da sempre nella diversità dei carismi. Reputo che dobbiamo spogliarci di tutti quei pregiudizi che, a volte, ci fanno considerare questa o quella realtà come un male per la Chiesa o la comunità parrocchiale. A nessuna realtà ecclesiale deve essere impedita di nascere nella comunità parrocchiale, essere seguita nel suoitinerario di fede, accompagnata. Tali realtà devono sentirsi parte integrante della parrocchia dando il loro apporto e contributo nell’evangelizzazione e nella carità gratuita e generosa.
Volesse Dio che le nostre parrocchie aprissero di più le porte ai movimenti, alle associazioni, ai cammini di fede, agli itinerari vari, senza etichette, nati dall’esperienza pastorale dei nostri bravi e attenti confratelli nel sacerdozio!
Gli itinerari di fede, luogo privilegiato dove si formano cristiani adulti nella fede, devono avere come finalità quella di portare i laici negli ambienti del lavoro, della scuola, dello sport, della politica, e così via, per arrivare a sentirsi parte integrante della vita cristiana che s’incontra nella parrocchia e vive il senso del servizio e della carità gratuita e disinteressata.
Leggendo la lettera, ritengo sia importante sottolineare soprattutto l’aspetto altamente carismatico e indispensabile delle diverse aggregazioni che è quello di portare «nei nuovi contesti sociali il fascino dell’incontro con il Signore e la bellezza dell’esistenza cristiana vissuta nella sua integralità».
La lettera da subito dice: “La Chiesa ringiovanisce in forza del Vangelo e lo Spirito continuamente la rinnova, edificandola e guidandola «con diversi doni gerarchici e carismatici»(LG, 4). Il Concilio Vaticano II ha ripetutamente messo in rilievo l’opera meravigliosa dello Spirito Santo che santifica il Popolo di Dio, lo guida, lo adorna di virtù e lo arricchisce di grazie speciali per la sua edificazione. Multiforme è l’azione del divino Paraclito nella Chiesa, come amano evidenziare i Padri. Scrive Giovanni Crisostomo: «Quali grazie che operano la nostra salvezza non ci sono elargite dallo Spirito Santo? Per suo mezzo siamo liberati dalla schiavitù e chiamati alla libertà, siamo condotti all’adozione a figli e, per così dire, formati di nuovo, dopo aver deposto il pesante e odioso fardello dei nostri peccati. Per lo Spirito Santo vediamo assemblee di sacerdoti e possediamo schiere di dottori; da questa sorgente scaturiscono doni di rivelazioni, grazie di guarigioni e tutti gli altri carismi che decorano la Chiesa di Dio»(Giovanni Crisostomo). Grazie alla stessa vita della Chiesa, ai numerosi interventi del Magistero e alla ricerca teologica, è felicemente cresciuta la consapevolezza della multiforme azione dello Spirito Santo nella Chiesa, destando così un’attenzione particolare ai doni carismatici, di cui in ogni tempo il Popolo di Dio è arricchito per lo svolgimento della sua missione” .
Il brano evangelico (Lc 10,37) si conclude con un invio ben preciso da parte di Gesù nei confronti del Dottore della Legge, che racchiude la missione della Chiesa oggi.
Papa Francesco, commentando questo brano, dice: “Conclusa la parabola, Gesù ribalta la domanda del dottore della Legge e gli chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (v. 36). La risposta è finalmente inequivocabile: «Chi ha avuto compassione di lui» (v. 27). All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro.
Questa parabola è uno stupendo regalo per tutti noi, e anche un impegno! A ciascuno di noi Gesù ripete ciò che disse al dottore della Legge: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo” .
Proprio alla luce di quest’invio, come Chiesa di Matera – Irsina, sentiamo di fare discernimento: tutto nasce da una comune riflessione.
La nostra Chiesa locale è chiamata a confrontarsi seriamente verificando, interrogandoci, individuando, avviando, formulando proposte.
Papa Francesco più volte ci ha richiamati ad essere Chiesa in uscita soprattutto nell’Evangeliigaudium. L’invito ad essere Chiesa “in uscita” porta a rileggere tutta la vita cristiana in chiave missionaria . Il compito di evangelizzare riguarda tutti gli ambiti della Chiesa: la pastorale ordinaria, l’annuncio a coloro che hanno abbandonato la fede cristiana ed in particolare a coloro che non sono mai stati raggiunti dal Vangelo di Gesù o che lo hanno sempre rifiutato . In questo compito imprescindibile di nuova evangelizzazione è più che mai necessario riconoscere e valorizzare i numerosi carismi capaci di risvegliare e alimentare la vita di fede del Popolo di Dio .
Ho avuto modo di verificare personalmente, sull’intero territorio diocesano, che sono tanti i fratelli e sorelle che con amore e abnegazione lavorano all’interno delle comunità parrocchiali, con spirito di servizio ed altruismo.
L’esperienza, tuttavia, mi dice che a volte ci sono ruoli di persone che vanno oltre il senso del ministero loro affidato. Non sempre il servizio è frutto di un vero cammino di fede per il bene della comunità parrocchiale. Mi pare di poter ripetere con maggior convinzione: non abbiamo bisogno di impiegati del sacro, di disponibilità, di volontari. Le nostre comunità parrocchiali hanno bisogno di testimoni del Vangelo che mostrano l’amore a Cristo e alla sua Chiesa operando nei diversi settori della vita sociale.
C’è bisogno di una formazione continua attraverso la meditazione della Parola, itinerari di fede, la preghiera, la partecipazione alla vita sacramentale.
Aprire le porte delle nostre chiese significa uscire per far entrare. Uscire per le strade, suonando il campanello delle case, bussando e raccontando con la propria vita quanto Dio sta facendo. Saremo credibili se non faremo i “professori” del sacro ma avremo il coraggio di stare accanto all’altro sapendo di non essere migliori o più bravi.
Tutti abbiamo bisogno dell’amore misericordioso del Padre, pronto ad accoglierci e non ad accusarci, come il Padre buono che accoglie il figlio che ritorna, ma cerca anche l’altro che s’ingelosisce e recrimina. Abbiamo bisogno di un Dio che, in Gesù Cristo, versa sulle ferite dell’anima, del cuore, del corpo, l’olio della consolazione e il vino della speranza, come buon Samaritano.
Riscoprire di appartenere e servire la Chiesa, quale Madre e Maestra. Ogni realtà (confraternite, cammini di fede, associazioni, gruppi, movimenti…), nel rispetto dei carismi, non è autonoma e indipendente. Avere uno statuto approvato non significa camminare parallelamente con la Chiesa ma nella Chiesa e in comunione con la Chiesa. Quando il Vescovoconvoca, ad esempio, per un raduno ecclesiale, i ritiri, le uscite, le convivenze dei gruppi di appartenenza passano in secondo piano.
In ogni parrocchia la formazione dei “Gruppi della Parola”, che si ritrovano insieme a confrontarsi con essa, aiuta i credenti a trovare risposte, soluzioni, incoraggiamento, voglia di fare di più.
Ascoltando e meditando la Parola ci si apre al confronto, alla condivisione delle proprie esperienze del Vangelo incarnato e, nonostante le fatiche, ci si guarda come fratelli e sorelle in Gesù: figli nel Figlio. Si sperimenta che la Chiesa, la parrocchia, è il “grembo materno”, dove nasce la vita, dove Gesù risorto converte e attira. In questo grembo materno saremo capaci di accogliere soprattutto chi sta lontano o sulla soglia delle nostre chiese. Bisogna seguire Gesù Cristo che chiama.
I Vescovi nella nota pastorale di 12 anni addietroci danno una sintesi mirabile di quella che, già da tempo, dovrebbe essere la parrocchia, il ruolo del parroco, la ministerialità laicale. Ne riporto alcuni passaggi salienti: «Più che di “parrocchia” dovremmo parlare di “parrocchie”: la parrocchia infatti non è mai una realtà a sé, ed è impossibile pensarla se non nella comunione della Chiesa particolare … Alla base di tutto sta … il sentirsi responsabili con il vescovo di tutta la Chiesa particolare, rifuggendo da autonomie e protagonismi» (n. 3). «Occorrerà anche intessere collaborazioni con Istituti di vita consacrata che nella predicazione evangelica hanno uno specifico carisma, come pure con Associazioni laicali e Movimenti ecclesiali … È un annuncio che dobbiamo circondare di segni di credibilità, a cominciare da quello dell’unità che, ci ha detto Gesù, è condizione “perché il mondo creda”» (n. 6). «È finito il tempo della parrocchia autosufficiente. Per rispondere a queste esigenze la riforma dell’organizzazione parrocchiale in molte diocesi segue una logica prevalentemente “integrativa” e non “aggregativa” … A questo mirano pure i progetti attuati e in via di attuazione che vanno sotto il nome di “unità pastorali” … Un ulteriore livello di integrazione riguarda i Movimenti e le nuove realtà ecclesiali, che hanno un ruolo particolare nella sfida ai fenomeni di scristianizzazione e nella risposta alle domande di religiosità, incontrando quindi, nell’ottica della missione, la parrocchia … Sta al vescovo sollecitare la loro convergenza nel cammino pastorale diocesano e al parroco favorirne la presenza nel tessuto comunitario, della cui comunione è responsabile … La diocesi e la parrocchia favoriranno da parte loro l’ospitalità verso le varie aggregazioni, assicurando la formazione cristiana di tutti e garantendo a ciascuna aggregazione un adeguato cammino formativo rispettoso del suo carisma … La proposta di una “pastorale integrata” mette in luce che la parrocchia di oggi e di domani dovrà concepirsi come un tessuto di relazioni stabili» (n. 11) .«Una parrocchia missionaria ha bisogno di “nuovi” protagonisti; una comunità che si sente tutta responsabile del Vangelo, preti più pronti alla collaborazione nell’unico presbiterio e più attenti a promuovere carismi e ministeri, sostenendola formazione dei laici, con le loro associazioni, anche per la pastorale d’ambiente, e creando spazi di reale partecipazione» .
«Singolarmente e insieme, ciascuno è lì responsabile del Vangelo e della sua comunicazione … Il rinnovamento della parrocchia in prospettiva missionaria non sminuisce affatto il ruolo di presidenza del presbitero, ma chiede che lo eserciti nel senso evangelico del servizio a tutti, nel riconoscimento e nella valorizzazione di tutti i doni che il Signore ha diffuso nella comunità, facendo crescere la corresponsabilità … Occorre offrire occasioni di vita di comunione e di fraternità presbiterale… È richiesto un ripensamento dell’esercizio del ministero presbiterale e di quello di parroco. Se è finita l’epoca della parrocchia autonoma, è finito anche il tempo del parroco che pensa il suo ministero in modo isolato; se è superata la parrocchia che si limita alla cura pastorale dei credenti, anche il parroco dovrà aprirsi alle attese di non credenti e di cristiani “della soglia” … Il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione. La sua passione sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale … La cura e la formazione del laicato … richiede una formazione ampia e disinteressata, non indirizzata subito a un incarico pastorale e/o missionario ma alla crescita della qualità testimoniale della fede cristiana» (n. 12) .
Qualsiasi tipo di progettualità che noi possiamo fare resterà inefficace se non terremo presenti alcuni principi fondamentali che vale la pena rispolverare e ricordare.
«La Chiesa è nel mondo, dentro la storia. Ogni parrocchia è presenza di Chiesa in un dato territorio …Ogni parrocchia ha senso per annunciare il Vangelo di sempre e per spezzare l’unico pane eucaristico in quel luogo, in quel momento storico, con le attese e i problemi, le fatiche e le speranze, i valori e le contraddizioni di quelle persone. In una città o in un piccolo paese, nella periferia di una grande metropoli o in una vallata di montagna la parrocchiaè Chiesa che accoglie il bisogno di socialità della gente e le paure della solitudine; che fa i conti con le spinte al consumismo, i messaggi deresponsabilizzanti dei mass media, i localismi e gli individualismi» .
Leggendo la parabola del buon samaritano sembrerebbe tutto scontato. Eppure è una storia di vita dove i personaggi agiscono rispondendo al tipo di esperienza personale che stanno facendo con Dio. Chi incontra Dio realmente è impossibile che non si fermi accanto all’uomo. Ricordo che durante una trasmissione televisiva in Canada, dove mi trovavo con i giovani per presentare un musical agli italiani emigrati, il giornalista mi chiese: «come mai lei quando parla dice sempre “l’uomo” e non fa differenza tra donne e uomini»? Risposi: «Semplicemente perché in italiano quando diciamo “uomo” intendiamo sia la donna che l’uomo».
Poi, per noi cristiani, poi, è fondamentale capire che insieme, maschio e femmina, siamo realmente l’immagine e la somiglianza di Dio. Da soli non mostriamo il suo volto, quindi non siamo amore e capaci di amare. Nell’uomo della parabola scatta il senso della misericordia di Dio nell’accostarsi al suo simile senza guardare la sua posizione sociale. Non guarda e non si pone il problema da quale paese arriva, se è credente o meno. C’è un uomo che ha bisogno di essere curato, amato, aiutato a riprendere a camminare nella vita. Dev’essere rivestito di Dio.
Le nostre parrocchie abbondano di persone che hanno necessità di essere incontrate nelle loro solitudini, nei loro vuoti, nelle ferite che la vita ha loro procurato, nella rabbia che si portano dentro, nelle critiche, a volte anche feroci, verso Dio e la Chiesa o gli uomini di Chiesa; nel loro grido di aiuto emerge una dignità calpestata per mancanza di lavoro, specialmente nei giovani. Proprio loro sempre più lontani dal tipo di spiritualità che noi proponiamo.
E’ il tempo di una Chiesa che si mette in cammino, se è necessario anche a piedi scalzi, che non sta con le pantofole, seduta sul divano davanti alla TV o insieme ai “soliti pochi” che diventano sempre più pochi. Una Chiesa prossima. La carità si esprime nella comunione e genera comunità. Una comunità cristiana in forza della comunione, coltiva l’amicizia fraterna; coglie quelli che sono i bisogni di ogni uomo, aprendosi al servizio generoso del prossimo; vede e legge i problemi dell’umanità presente sotto casa o accanto; sa guardare a tutti dai più piccoli, ai più poveri, agli ultimi; cerca le vie concrete della pace; favorisce gli itinerari della riconciliazione; esercita un influsso benefico sulla vita sociale e politica .
Bisogna riprendere quell’idea centrale che più di trent’anni fa veniva individuata come “ecclesiologia di comunione” .
Come precisa il Concilio Vaticano II, riprendendo S. Cipriano, la Chiesa è «popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ». La Chiesa non può dimenticare che attinge e si alimenta sempre e comunque dal modello trinitario per portarlo nella vita. Se dovesse venire meno questo principio, nella Chiesa non ci potrebbe mai essere comunione. Si sperimenterebbe la sterilità.
“Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come «uno che mi appartiene», per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un «dono per me», oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita” .
Jean-Paul Sartre diceva che l’altro è “l’inferno”.Per noi cristiani l’altro è “dono di Dio”, “dono per me”; è ciò che mi manca e che mi rivela la mia insufficienza. Non posso fare a meno dell’altro.
Giovanni Paolo II, continua ancora: «La comunione ecclesiale, pur avendo sempre una dimensione universale, trova la sua espressione più immediata e visibile nella parrocchia: essa è l’ultima localizzazione della Chiesa, è in un certo senso la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie.
E’ necessario che tutti riscopriamo, nella fede, il vero volto della parrocchia, ossia il «mistero» stesso della Chiesa presente e operante in essa: anche se a volte povera di persone e di mezzi, anche se altre volte dispersa su territori quanto mai vasti o quasi introvabile all’interno di popolosi e caotici quartieri moderni, la parrocchia non è principalmente una struttura, un territorio, un edificio; è piuttosto «la famiglia di Dio, come una fraternità animata dallo spirito d’unità»(91), è «una casa di famiglia, fraterna ed accogliente»(92), è la «comunità di fedeli»(93). In definitiva, la parrocchia è fondata su di una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica(94). Ciò significa che essa è una comunità idonea a celebrare l’Eucaristia, nella quale stanno la radice viva del suo edificarsi e il vincolo sacramentale del suo essere in piena comunione con tutta la Chiesa. Tale idoneità si radica nel fatto che la parrocchia è una comunità di fede e una comunità organica, ossia costituita dai ministri ordinati e dagli altri cristiani, nella quale il parroco – che rappresenta il Vescovo diocesano(95) – è il vincolo gerarchico con tutta la Chiesa particolare» .
Andando in giro per il nostro territorio e visitando le comunità parrocchiali (nei primi tre mesi ho percorso 13.000 km), ascoltando i Confratelli sacerdoti, i Consigli pastorali e le tantissime persone che sono venute a trovarmi, si avverte la necessità di pensare seriamente alle Unità Pastorali.
E’ bene precisare subito che l’Unità pastorale non va pensata come se fosse un contenitore dove riversiamo tutte le attività pastorali delle parrocchie o iniziative da portare avanti. Sarebbe una grande delusione.
Nella nostra Diocesi, grazie a Dio, ci sono già, anche tra il clero secolare, delle forme di fraternità sacerdotale. Abitano, pregano, mangiano, programmano insieme. Bisogna crescere ulteriormente affinchè, sia nei paesi dove ci sono più parrocchie (ce ne sono anche troppe in alcuni), sia in città (diverse parrocchie sono sotto i mille abitanti, qualcuna tra le 200 e 300 anime)alimentino “canali” di comunione tra i presbiteri, tra glioperatori pastorali.
Dobbiamo lavorare e promuovere unità pastorali che abbianocome obiettivo la generazione della fede perché vengono impiantate comunità con il volto della fraternità. Come sarebbe bello se anche nel linguaggio si arrivasse a dire: “le nostre parrocchie” e non più “la mia parrocchia!”
Scambiarci le esperienze vincendo quelle gelosie che a volte danno l’idea di sentirsi padroni. Questo vale per gli operatori pastorali e in alcuni casi anche per i presbiteri. Sostenersi, consigliarsi, aiutarsi, sapendo di lavorare nell’unica Vigna del Signore: la sua Chiesa. I fratelli laici, come già tanti di loro fanno, saranno così chiamati ad essere più protagonisti nell’evangelizzazione: prima di coltivare l’appartenenza ad una parrocchia, a un gruppo, a un’associazione, a una confraternita, a un cammino di fede, è fondamentale coltivare e capire il senso di appartenenza alla Chiesa. Gli orticelli vanno coltivati, ma gli steccati vanno tolti.
Le isole resteranno tali, forse belle, incontaminate, da visitare, ma sempre isole saranno. Di conseguenza: isolate perché cresciute nella solitudine dei propri steccati. L’isolamento porterà alla morte.
L’essere Chiesa è un’altra cosa: comunione, fraternità, apertura, collaborazione, con tutti i limiti umani che la contraddistinguono e che a volte possono generare gelosie, egoismi, vanità, arroganza, immobilismo, chiusura…Chi di noi può dire di esserne esente o di sentirsi migliore dell’altro?
“Certamente, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della Chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. Del resto, vediamo che essa risulta ferita, offesa, già nella Chiesa degli inizi, come ci testimonia il Nuovo Testamento (cfr. 1Gv 2, 18; 3Gv 9-10…); nondimeno, allora come adesso, nella Chiesa è custodita e perseguìta la volontà di Dio che incessantemente chiede la realizzazione della comunione visibile del corpo di Cristo, l’essere uno (en èinai) come il Padre e il Figlio sono uno (Gv 17, 11) ”.
Nella nostra parabola alcunefigure di vita “religiosa” (sacerdote, levita) passano vicino al malcapitato ma vanno oltre senza fermarsi e prendersene cura. Nella pastorale serve la “compassione”, il “farsi prossimo”: con i confratelli, i laici, i religiosi, le religiose, i diaconi!
Tutti abbiamo bisogno di ricevere conforto, di essere incoraggiati. Quanto fa bene anche una telefonata, una visita improvvisa, un intrattenersi, un cenare insieme, partire e condividere il riposo nel corpo e nello spirito, giocare. Ne abbiamo tutti bisogno!
Credo si debba partire da questi atteggiamenti, spiccioli ma efficaci, molto più della teologia imparata o che insegniamo. Una teologia che si esprime nella pastorale unitaria dei rapporti umani che vanno consolidati. Sia voi che io, abbiamo tanto da imparare e dare!
Per ridisegnare la geografia delle parrocchie bisogna avere una chiara fotografia del nostro territorio e delle nostre comunità. Non si ridisegna nulla sulla carta. Non serve. Necessita una analisi seria, convinta, con animo disposto a mettersi in gioco, fidandoci dell’azione dello Spiritoche parla alla Chiesa e nella Chiesa.
Lavorare per superare le resistenze e mettere in comunione le tante risorse e potenzialità (e sono tante) perarrivare a guardare una Chiesa più allargata e meno rinchiusa nelle dinamiche interne delle singole parrocchie.
La nota pastorale dei vescovi italiani, sul volto missionario della parrocchia, è molto illuminante e, oggi, mi sembra molto più attuale di quando è stata divulgata. Anche in questo caso riprendo alcuni passaggi.
“Oggi, questa figura di parrocchia si trova minacciata da due possibili derive: da una parte la spinta a fare della parrocchia una comunità “autoreferenziale”, in cui ci si accontenta di trovarsi bene insieme, coltivando rapporti ravvicinati e rassicuranti; dall’altra la percezione della parrocchia come “centro di servizi” per l’amministrazione dei sacramenti, che dà per scontata la fede in quanti li richiedono. La consapevolezza del rischio non ci fa pessimisti: la parrocchia nel passato ha saputo affrontare i cambiamenti mantenendo intatta l’istanza centrale di comunicare la fede al popolo .
Perché ciò accada, dobbiamo affrontare alcuni snodi essenziali. Il primo riguarda il carattere della parrocchia come figura di Chiesa radicata in un luogo: come intercettare “a partire dalla parrocchia” i nuovi “luoghi” dell’esperienza umana, così diffusi e dispersi? Altrettanto ci interroga la connotazione della parrocchia come figura di Chiesa vicina alla vita della gente: come accogliere e accompagnare le persone, tessendo trame di solidarietà in nome di un Vangelo di verità e di carità, in un contesto di complessità sociale crescente? E ancora, la parrocchia è figura di Chiesa semplice e umile, porta di accesso al Vangelo per tutti: in una società pluralista, come far sì che la sua “debolezza” aggregativa non determini una fragilità della proposta? E, infine, la parrocchia è figura di Chiesa di popolo, avamposto della Chiesa verso ogni situazione umana, strumento di integrazione, punto di partenza per percorsi più esigenti: ma come sfuggire al pericolo di ridursi a gestire il folklore religioso o il bisogno di sacro? Su questi interrogativi dobbiamo misurarci per riposizionare la parrocchia in un orizzonte più spiccatamente missionario .
Occorre fare delle scelte coraggiose: non una pastorale di conservazione, dove il titolo della Parrocchia, della Rettoria o del Santuario diventi appetibile a scapito di una pastorale in uscita.
Durante il Convegno Diocesano del 10 settembre prossimo avremo modo di meditare ed orientarci per l’anno pastorale 2016/17 tenendo presente che “il tema del bene comune, declinato anche come edificazione della società (della città dell’uomo)al centro della riflessione di questo anno pastorale, che sarà sussidiato dalla Parola di Dio, libri di Osea e di Amos, ascoltata, meditata, pregata, contemplata, messa in opera nella storia quotidiana e nei vari ambiti di vita e di presenza dei laici (mondo del lavoro e della disoccupazione, scuola, istituzioni, povertà, sofferenza,…) si intreccia molto bene con le 5 vie di Firenze: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Come già i 5 ambiti del convegno di Verona, le 5 vie non sono strade parallele al vissuto quotidiano ma sono le vie delle nostre città, della vita degli uomini e delle donne di questo nostro tempo, sono le vie che la Chiesa già percorre e che devono essere percorse con una maggiore consapevolezza e audacia, che viene da una adesione più convinta a Gesù Cristo, e con una sentita generosità nel donarsi agli altri e nel mettersi a servizio degli ultimi e dei poveri ”.
Vi comunico alcune scelte immediate perché negli anni si possa concretizzare quanto è nel cuore di voi confratelli nel sacerdozio, dei diaconi, delle religiose, degli operatori pastorali. Vi ringrazio per i suggerimenti che mi avete dato. Ho ascoltato le relazioni di tutti i Consigli Pastorali cogliendone le attese e le speranze. Chiedo, ai collaboratori pastorali, di sostenerci in questo cammino di Chiesa senza fermarvi solo alle esigenze parrocchiali: apriamoci ad una dimensione missionaria definendo e stabilendo linee comuni per concretizzare le unità pastorali. Ho tenuto presente quanto i religiosi e le religiose mi hanno comunicato per una maggiore valorizzazione del loro carisma sull’intero territorio diocesano.
Alla luce di quanto ho potuto cogliere, ritengo sia necessario:
1. Nomina dei Vicari Foranei e valorizzazione della Vicaria.Ho già preparato una prima bozza sul senso della Vicaria e del ruolo del Vicario, partendo dal CJC,e sottoposta alla valutazione del Consiglio Presbiterale del 30 agosto. I Vicari Foranei entreranno a far parte, di diritto, nel Consiglio presbiterale.
2. Nomina di un Vicarioper la Pastorale che coordini il lavoro delle Vicarie.
3. Il Vicario Generale è anche:
a. Moderatore della Curia che, nei diversi uffici di impegno pastorale, sollecita ogni Direttore affinché presenti il suo programma tenendo presente il programma pastorale diocesano. A questo proposito ogni Direttore avrà il suo Ufficio nella nuova Curia che stiamo provvedendo a risistemare;
b. Vicario per il Clero e la Vita Consacrata.
4. Sarà importante che, anzitutto, gli Uffici di Catechesi, Caritas, Liturgico, Missionario, Pastorale Giovanile, Mondo del Lavoro, Famiglia, lavorino, in sinergia tra di loro, per aiutare le singole comunità in un cammino unitario. In particolare, per la vita liturgica, è bene che sia stilato un vademecum che regoli, evitando abusi di ogni genere, la celebrazione sacramentale. Con i Direttori che hanno difficoltà a portare avanti il loro impegno, per altri motivi pastorali, con serenità, valuteremo il da farsi.
5. Attenzione particolare a due realtà: la pastorale del lavoro e la pastorale giovanile. Già da quest’anno, un confratello sacerdote, lascerà ogni impegno pastorale e scolastico per dedicarsi solo ed esclusivamente al mondo giovanile in collaborazione con quanti, sacerdoti e laici, fino ad oggi, hanno egregiamente operato, non senza sacrificio e amore. Grazie per la tua disponibilità e testimonianza.
6. Sarà reso noto il lavoro programmatico, in vista di Matera 2019, che la commissione costituita ha diligentemente e con competenza stilato. E’ un contributo necessario e indispensabile affinché questa data non rimanga una semplice celebrazione ma l’inizio di un lavorio, in sinergia con le istituzioni civili e militari, capace di guardare oltre il 2019.
7. Rivalutazione della Basilica Cattedrale di Matera. Deve ritornare a pulsare come la Chiesa Madre dell’Arcidiocesi, punto di riferimento di tutti i fedeli. E’ giusto che i turisti la visitino e la contemplino nella sua bellezza, nel rispetto del luogo sacro. E’ ancora più urgente che la vita sacramentale ritorni a rifiorire ripartendo dalla Chiesa Madre. Le stesse Ordinazioni sacerdotali è bene che siano celebrate in essa. Il neo presbitero viene accolto nel presbiterio, inteso sia come luogo attorno all’altare e alla cattedra del vescovo, sia come intero corpo presbiterale che nel presbiterio abbraccia il neo consacrato. Eventualmente il Diacono potrà essere ordinato nella parrocchia di appartenenza.
8. Nascita delle prime realtà parrocchiali che iniziano a collaborare insieme, con la disponibilità dei presbiteri, mettendo le basi per arrivare a costituire le prime unità pastorali. Grazie, carissimi confratelli sacerdoti, che vi siete resi disponibili.
9. Alcune piccole parrocchie, pur conservando il titolo, saranno accorpate sotto la guida di un solo parroco ed eventuali vicari parrocchiali.
10. Ringrazio i confratelli sacerdoti che, raggiunta l’età canonica dei 75 anni, hanno rimesso nelle mani del vescovo il loro mandato per mettersi a servizio della nostra Chiesa diocesana, a sostegno di altri confratelli, e non nella parrocchia dove sono stati parroci. Conto molto su questo tipo di servizio e di testimonianza, sulle orme di Benedetto XVI, Papa emerito. Grazie: siete un esempio da imitare.
11. E’ da definire meglio il ruolo della Rettoria o del Santuario alla luce di quanto la Chiesa ci insegna, in rapporto alla Parrocchia dove si trovano collocati.
12. Da un’indagine, appena effettuata, risulta che viene celebrato un numeroeccessivo di Messe! Invito a rileggere quanto dice il CJC al can. 905 §1, l’OGMR 204. Ritorneremo in altra sede sull’argomento.
Carissimi, conto sull’aiuto di tutti, perché si possa portare avanti, nella nostra Arcidiocesi, quanto è stato maturato in questi anni, di cui vi siete fatti portavoce verso di me.
Vorrei concludere con le parole che, al termine del Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze, il Presidente della CEI ha detto: “In fondo, è l’amore misericordioso che genera la Chiesa e che ci porta a camminare insieme. L’assunzione di uno stile sinodale – perché giunga ad avviare processi – richiede precisi atteggiamenti, che dicono anzitutto il nostro modo di porci di fronte al volto dell’altro, e indicano nella prospettiva della relazione e dell’incontro la strada di una continua umanizzazione.
Ancora: uno stile sinodale esige anche un metodo, all’insegna della concretezza, del confrontarsi insieme sulle questioni che animano le nostre comunità. Vive di cura per l’ascolto, di pazienza per l’attesa, di apertura per l’accoglienza di posizioni diverse, di disponibilità a lavorare insieme.
Infine, per dare concretezza al discernimento, uno stile sinodale deve sapersi dare obiettivi verso i quali tendere: di qui l’importanza di riprendere in mano l’Esortazione apostolica Evangeliigaudium.
Con questo spirito facciamo ritorno alle nostre Chiese e ai nostri territori, senza la paura di guardare in faccia la realtà – anche le ombre -, ma con la lieta certezza di chi riconosce, anche nella complessità del nostro tempo, la presenza operosa dello Spirito Santo, la fedeltà di Dio al mondo ”.
La Madonna della Bruna preghi per noi e con noi e i santi compatroni, Eufemia, Giovanni da Matera ed Eustachio, ci sostengano con il loro esempio di vita e di amore alla nostra Chiesa locale.
Concludo riportando il bellissimo prefazio del Sacramento dell’Ordine.
E’ veramente cosa buona e giusta
lodarti e ringraziarti,
Padre santo, Dio onnipotente e misericordioso,
da cui proviene ogni paternità,
nella comunione di un solo Spirito.
In Cristo tuo Figlio, eterno sacerdote,
servo obbediente,
pastore dei pastori,
hai posto la sorgente di ogni ministero
nella vivente tradizione apostolica
del tuo popolo pellegrinante nel tempo.
Con la varietà dei doni e dei carismi
tu scegli e costituisci i dispensatori dei santi misteri,
perché in ogni parte della terra
sia offerto il sacrificio perfetto
e con la parola e i Sacramenti
si edifichi la Chiesa,
comunità della nuova alleanza,
tempio della tua lode.
Vi abbraccio e benedico.
+ Don Pino, Arcivescovo