Nel quinto seminario dedicato ai poeti lucani, organizzato da La Cupola Verde in collaborazione con il Centro di Aggregazione Giovanile di Ferrandina, il prof Giovanni Caserta si è soffermano sulla biografia e sull’opera di Albino Pierro, più volte vicino al Premio Nobel. Il poeta di Tursi ha dedicato tutta la sua vita ai versi condensando i suoi ineffabili moti interiori e il pressante bisogno di successo e considerazione. La sua poesia, infatti, è intimista e si eleva nel momento in cui lui si ripiega a tessere i fili dei ricordi e a far vibrare i profondi stati emotivi del suo animo. Una peculiarità è stata l’intenzione di modificare il codice linguistico e il registro espressivo delle sue liriche, prediligendo, dal 1959 in poi, la lingua dialettale che lo accompagnò fino alla morte. Questa scelta, sicuramente ponderata e che si ritrova anche nella produzione di Pasolini, di Buttitta e altri, continua a suscitare interrogativi e perplessità da parte della critica letteraria sulle motivazioni che l’hanno determinata, anche in ragione del fatto che Albino Pierro vivendo nel “palazzo dei signori” fosse obbligato a parlare l’italiano raffinato di una famiglia borghese. Fuori dalle mura del suo “palazzo” c’era il dialetto che egli non conosceva in maniera approfondita. Per cui non è possibile fornire una risposta esaustiva all’uso del dialetto tursitano senza considerare il fascino e l’incanto che la lingua dialettale gli suscitavano ascoltando parlare i contadini. Proprio il ricordo fiabesco del villaggio provocavano in lui fascino e seduzione. Probabilmente il dialetto simboleggiava quella dimora smarrita, il focolare abbandonato nel suo peregrinare incerto. Oppure simboleggiava quella calda e accogliente cavità uterina materna che gli è sempre mancata per la prematura scomparsa della madre.
Ultimo di tre fratelli, Albino Pierro nacque a Tursi il 19 novembre 1916. La sua infanzia fu segnata dalla precoce scomparsa della madre quando aveva pochi mesi. Questa esperienza evolverà nel corso del tempo in un trauma che lo turberà al punto da lasciare la traccia di una costante malinconia nelle sue poesie. La casa in cui abitava Pierro si trova nel quartiere della Rabatana, fondato dai saraceni, precariamente posata su una collina di creta e sul punto di scivolare in basso lungo i calanchi. E così il giovane Pierro amava la Rabatana proprio come il paese e la collina. Come altri illustri poeti lucani anche lui è stato strappato al suo luogo natio e soffrì quando dovette trasferirsi, per continuare gli studi, prima a Taranto, poi a Salerno e a Sulmona e in seguito a Novara da lontani parenti. Quindi a Roma ospite del fratello. Iniziò a scrivere molto, ma in italiano, lasciandoci opere come “Nuove liriche”, “Mia madre passava”, “Il mio villaggio” e altre, finché il 23 settembre del 1959 gli accadde di usare per la prima volta il dialetto. Ogni anno tornava a Tursi, ma quella sera fu costretto a rientrare anticipatamente a Roma. Ne soffrì molto e nacque sul treno la sua prima poesia in dialetto tursitano. Sei mesi dopo fu pronta la prima raccolta in vernacolo dal titolo “ A terra d’u Recorde” dedicata a Tursi, terra del ricordo, villaggio a cui anelava ritornare, terra di nostalgia. La nostalgia come nostos (ritorno) e algos (dolore), desiderio struggente di affetti della comunità del villaggio che gli stringeva la gola. E fra le numerose raccolte dialettali ricordiamo “Metaponte”, “L’innammurete”, “Famme dorme”, “Nu belle fatte”. Come Orazio che viveva a Roma ma riandava con la memoria nostalgica a Venosa, la poesia di Pierro è un continuo ritornare alla sua infanzia, al suo paese. Lontano dalla terra natia si sentiva calato nel mezzo di una realtà ostile in cui visse il distacco e l’amara solitudine che aveva il sapore della morte. La felicità si trovava altrove, in Lucania, in quel remoto luogo in cui non c’era la separazione tra individuo e società.
Lo stesso antropologo Ernesto De Martino nel dipingere Pierro lo descrive come un immigrato costretto a vivere in un mondo non suo. Visse, quindi, anche il rimpianto per un tempo irrimediabilmente perduto, un tempo che solo attraverso le poesie gli sembrava di arrestare. Il villaggio lucano di Tursi diventa un mondo incantato in cui ogni cosa si presta a rappresentare stati d’animo, la malinconia delle origini. Il paese è catturato totalmente dalla sua poesia con i suoi burroni odorosi d’argilla, il campanile del convento, il cane che ulula nelle notti d’inverno, il funerale con la bara al centro della piazza, i lavoratori che tornano dai campi e poi, in un sussulto quasi visionario, la madre morta che passa e i fratelli bambini che volano via come nugolo di colombe per raggiungerla. Lo sforzo di Albino Pierro si riassume nella tendenza a sublimare e quindi a nobilitare il quotidiano tursitano con la poesia, trasfigurando tutti gli aspetti, gli eventi, le situazioni. La sua poesia si incupisce verso la fine, quando si accorge che in lui non c’è più amore o memoria. La stessa Tursi comincia ad annebbiarsi e a sbiadirsi. Tursi, argillosa e franante, esprime la precarietà dell’esistenza ed è assunta a simbolo della morte. Pierro voleva sfuggire all’oblio della morte e conquistare l’eternità con il riconoscimento del suo prestigio. Il suo desiderio sarà esaudito quando con la sua scomparsa, avvenuta a Roma il 23 marzo 1995, lasciando tutti i suoi averi al Comune di Tursi, il consiglio comunale proclamò “Tursi, Città di Pierro”.
Nel successivo dibattito sono intervenuti Lucia Armento, Raffaella Marsilio, Alessandro Sciandivasci, Filippo Radogna e l’assessore alla Cultura Giovanni Sinisi.
Giu 23