La pace in un pugno: abbattere i pregiudizi attraverso lo sport. Riportiamo di seguito le riflessioni di Saverio Carlucci
L’arbitro osserva il giudice seduto oltre le corde, attende che gli venga consegnato il verdetto. Insieme ad altre centinaia di persone intorno a lui, è in attesa di scoprire quale delle due braccia che stringe per i polsi si leverà al cielo. Pochi istanti in cui tutto è fermo. Il respiro affannato e vitale degli atleti è palpabile. I loro visi sono gonfi, qualche goccia di sangue colora i lineamenti. Entrambi sorridono fieri e appagati. Il responso dei giudici viene finalmente comunicato all’arbitro. L’immobilità del tempo si frantuma allora fra applausi fragorosi. I due uomini si abbracciano acclamandosi a vicenda.
Era la fine del primo incontro di pugilato a cui ho assistito. Molti dettagli sono andati persi nel corso del tempo. Non ricordo i nomi dei pugili; non ricordo quante volte siano andati al tappeto; non ricordo quale fu il vincitore. Nella mia mente tuttavia, per qualche ragione, l’immagine di quegli ultimi istanti è rimasta indelebile. Sono tornato molte volte a quel ricordo cercando di capirne il motivo, provando ad individuare cosa lo rendesse tanto speciale. Perché si era intrecciato così saldamente a me?
Quando entrai la prima volta in una palestra fu proprio per tentare di trovare risposta a questa domanda. Chiunque abbia provato questa esperienza sa bene che, varcata quella soglia, si entra in un mondo parallelo. Un mondo che segue schemi e regole differenti da quelle cui siamo abituati a seguire. Una volta udito il suono dei guantoni che impattano contro i sacchi, delle corde che urtano il parquet, il ritmo dei piedi che si muovono veloci, il tutto sovrastato da una voce sorda che ti dà indicazioni, non si può più cancellare dalla propria testa. Continua a riecheggiare ininterrottamente. All’inizio non è semplice da capire questo mondo, è facile cadere vittima di luoghi comuni ed il primissimo insegnamento che mi ha dato il pugilato è stato proprio quello di andare oltre i pregiudizi. Il contesto il cui viviamo è intriso di violenza e soprattutto di odio, non c’è certo bisogno che sia io a farlo notare. Ciò che occorrerebbe mettere in evidenza è che non siamo abituati a riconoscerli. Siamo convinti che la violenza, intesa come ogni forma di comportamento negativo, sia quella che provoca dolore, che distrugge qualcosa, ma soprattutto che sia sempre quella altrui e pertanto siamo portanti certo a biasimarla e condannarla (ciononostante quasi mai operiamo qualcosa di concreto per contrastarla). Si è convinti infatti che la boxe sia un’occupazione per gente violenta a cui piace far del male agli altri. Se oggi ripenso a questa affermazione, che pure ho sentito tante volte e ancora mi capita di riascoltare, non posso che sorridere. Nulla è più lontano dalla realtà. Quella che viene scambiata per violenza gratuita è in realtà la forma più alta di rispetto che si possa trasmettere. Per capirlo ho dovuto viverlo. Prima di imparare a portare un colpo, occorre imparare ad osservare, ad ascoltare, a muoversi, finanche a respirare. Potremmo definirla una sorta di rinascita. E dopo esser rinato, per cominciare a crescere, proprio come un bambino si fida della propria madre, occorre imparare a fidarsi del proprio allenatore e dei propri compagni. La differenza è che un bambino si fida perché non ha scelta, un pugile decide se e di chi fidarsi. Crescere per un pugile significa saper individuare i propri limiti e riuscire a capire come superarli di volta in volta. Come può tutto questo allora essere definito “violenza”? Io parlerei piuttosto di CONSAPEVOLEZZA di sé. Una qualità che sta diventando sempre più rara.
La boxe dunque mi mise in guardia contro i concetti presentati come realtà assoluta, rivelandomi che nella maggior parte dei casi essi celano il loro esatto opposto. In astratto potrei dire senza timore che la boxe mi ha insegnato a non fidarmi delle apparenze. Ma non si è limitata a questo.
Durante il proprio percorso di crescita, come accennato, un pugile si rende conto di aver bisogno dell’aiuto e del sostegno degli altri. In quel mondo parallelo la necessità, o meglio la voglia, di crescere porta tutti sullo stesso piano. Con le mani coperte dai guantoni non esiste colore delle pelle, non esiste religione, non esistono differenze economiche. L’unica realtà è l’esperienza che chi hai difronte può trasmetterti per farti migliorare, se hai l’intelligenza di accettarla ed assimilarla. Un pugile capisce allora che l’unico modo che ha per diventare migliore nel rapportargli con gli altri è dare importanza esclusivamente alla qualità ed ai valori che una persona trasmette e non al numero di vocali presenti nel suo nome. Nel momento in cui un pugile, grazie a questo, riesce a crescere il bisogno di restituire il favore a CHIUNQUE lo chieda nasce spontaneamente. L’insegnamento in questo caso va oltre i limiti della “tolleranza” tanto abusata da media e politici, ma si spinge verso il Riconoscimento e l’Accettazione di chi ha qualcosa di diverso, o meglio di Nuovo, da trasmettere.
Il 13 novembre 2015, di sera, i programmi televisivi si interruppero bruscamente per fare spazio alle edizioni straordinarie dei TG sui cui sfondi spiccava la Tour Eiffel. Non c’è bisogno di ricordare di cosa parlassero. Quello su cui voglio soffermarmi in questa sede, è ciò che si è cominciato a verificare dal giorno dopo: Siamo stati invasi dalla paura. Tale paura, calata nel complesso fenomeno di migrazione che l’Europa, la penisola italiana in particolare, sta vivendo da quasi sei anni e che ha visto il proprio picco in questo ultimo periodo, si è facilmente tramutata in diffidenza. La conclusione a cui si è giunti è stata quella di negare solidarietà e aiuto a quanti affrontano la morte pur di scappare da un destino infausto (Spesso mi sono chiesto se io avrei mai il coraggio di compiere una simile impresa) addirittura etichettandoli come responsabili per la paura avvertita. Non intendo dilungarmi sulle dinamiche dei fenomeni che stanno investendo il nostro tempo poiché non ne sarei all’altezza, ciò su cui voglio invece soffermarmi è lo stato d’animo che in molti stanno provando. Aver paura è comprensibile, è umano. Trovare una risposta semplice alle proprie paure e trovarla nell’odio, al contrario, non è accettabile. I libri di storia ci raccontano di troppi errori commessi a causa di simili comportamenti. È proprio questa considerazione che mi ha portato a ripensare all’aria pensante della palestra ed in particolare a quel ricordo di cui ho parlato inizialmente.
A distanza di tempo, forse, riesco a trovare una risposta alla mia domanda…
Quei due uomini che sorridevano e si abbracciavano dopo “essersi presi a pugni” lo facevano perché entrambi non avevano combattuto contro un nemico da sconfiggere per dimostrare di essere più forti. Lo avevano fatto per sfidare se stessi, per capire fino a che punto essi fossero riusciti a mettere a frutto i propri sforzi. Anche il pugile “sconfitto” era felice poiché consapevole di aver dato il massimo, ma soprattutto di aver appreso qualcosa di sé che fino a quel momento non conosceva…
Mi chiedo dunque se non staremmo tutti meglio con un paio di guantoni alle mani.
brividi! Quanta verità in poche parole, complimenti a Saverio Carlucci!
Ti ringrazio.
Due persone che si scontrano in nome dello sport, a suon di pugni, e magari si fanno del male (fisico) con quella certezza e CONSAPEVOLEZZA che la sofferenza provocata tra di loro non è altro che una vittoria non esaltata dal proprio orgoglio, ma da una consapevole, umile pace del proprio cuore. In parole povere, Tu Saverio, mi insegni che si possono affrontare le vicissitudini della vita mettendo alla base di tutto il rispetto e anche una buone dose di amore per il prossimo e per le cose.
Grazie
Sono io a ringraziarti per il commento.