Riportiamo l’intervista pubblicata dal quotidiano “La Stampa” che racconta la storia di Davide Acito, attivista di origini materane che risiede da alcuni anni sul Lago di Garda e che ritornerà i primi di giugno in Cina per salvare i cani dall’inferno del festival di Yulin.
Dieci giorni di cani e gatti cucinati al vapore per essere mangiati in Cina al “festival di Yulin”. Inutile scriverlo in maniera diversa: le cose stanno così. E per arrivare a essere il cibo per cui si svolge questo evento, gli animali prima di diventare un piatto attraversano un percorso di soprusi e violenze. Una manifestazione che dal 2009 va avanti secondo una “tradizione” che viene puntualmente smentita dalle autorità cinesi e sminuita come un “fenomeno locale non autorizzato”. Ma i cani e i gatti che vengono uccisi per essere poi appunto destinati ai banchetti per le strade di questa cittadina nel sud del paese, ancora di più per questa tolleranza e assenza di controllo, arrivano da traffici clandestini in cui gli animali al di là della loro fine vengono brutalmente catturati e segregati.
Il modo più corretto per raccontare cosa accade ogni 21 giugno da nove anni, però, al di là di quanto puntualmente compare in Rete su articoli dedicati e sui Social network, è quello di porre le domande a chi sta combattendo da cinque anni una battaglia proprio sul territorio e lo fa partendo dall’Italia.
Lui è Davide Acito, ha 31 anni, originario di Matera ma vive sul lago di Garda. Due settimane prima di questa intervista è stato in avanscoperta, come fa ogni volta, a Yulin e ci tornerà i primi di giugno anche quest’anno. A lui abbiamo posto delle domande su quello che viene chiamato il “Dog day” come se fosse un evento di sensibilizzazione e invece è una delle mattanze più note e insopportabili compiute da una specie su un’altra che accadono sul nostro Pianeta.
Partiamo da te e da dove tutto è iniziato. Ovvero da come è nata la tua passione per gli animali
«L’amore per gli animali è qualcosa che ho avuto sin da bambino. Poi, durante un viaggio in Asia ho scoperto di come i cani e i gatti vengono trattati in quella parte di mondo. E da lì ho preso a cuore il loro destino, in un posto dove non vige nessuna legge di tutela per gli animali. Io sono un “dialogatore”, ovvero svolgo campagne informative per varie ONG che si occupano principalmente di diritti umani. Da anni ho però deciso di attivarmi appunto anche per i diritti delle altre specie. Amo i cani e i gatti ma anche tutti gli animali, in loro vedo quello che l’uomo non ha ancora imparato: l’amore incondizionato».
E come sei arrivato a Yulin?
«Sarebbe da raccontare come non ci sono arrivato prima di… arrivarci veramente. Avevo letto un articolo su un giornale svizzero di una donna del posto che spiegava quello che accadeva. Non sapevo altro e decido di attivarmi. Avrei voluto mandare dei soldi a questa persona ma online non trovavo nulla. Era l’inizio della diffusione delle informazioni e da posti così lontani da noi ne arrivavano e ne arrivano, in fondo, ancora poche. Alla fine decido di fare un viaggio con degli amici ma si tirano indietro per un motivo o per un altro. E allora sono partito da solo ma finendo in un’altra città nel nord della Cina. Un errore dovuto a due nomi molto simili: Yo-Lin e Yulin. L’ho capito solo quando sono riuscito a comunicare con una persona, ero finito nel nord del paese: «Qui non mangiamo i cani, devi andare da un’altra parte». Non mi sono arreso, nemmeno quando sono finalmente arrivato a Yulin e solo dopo aver girato come un matto, portato avanti e indietro da un tassista che alla fine mi ha abbandonato al terzo macello di cani, lì incredibilmente ho incontrato una giornalista, anche lei attivista, che ha voluto sapere da dove arrivavo e perché. Beh, la sua referente sul territorio era proprio quella signora di cui avevo letto sul giornale».
Che cosa succede a Yulin prima e durante i giorni del Festival?
«Yulin è il nono girone dell’inferno per chi ama gli animali ma, soprattutto, per questi ultimi. Durante i primi giorni di festival c’è molta tensione. Da parte del governo si percepisce, proprio nel tenere sotto controllo gli stranieri, la paura che siano divulgate le informazioni a livello internazionale. La città è barricata da agenti in divisa e in borghese, locali e governativi. A me, visto che sanno che sono lì proprio per salvare i cani e far sapere quel che succede, mi hanno pedinato, seguito in tutto quello che facevo e interrogato, come mi è successo l’anno scorso. C’è una brutta energia in quei giorni. E ogni volta che ci vado non sono neanche libero di piangere in pubblico: devo farlo di nascosto per non essere “notato”. Ci sono zone dove macellano cani a cielo aperto, zone dove li vendono vivi. Ristoranti di fortuna improvvisati in strada dove servono zuppa di cane. Di solito quando mi vedono mi deridono. Mi fanno foto video mentre mi batto per i cani, come se fossi un alieno. Però lo voglio dire: non sono tutti così e una cosa che non mi piace è quando si generalizza su tutta la Cina. Ci sono dei cinesi sul posto che si fanno in quattro per aiutarmi nel progetto».
Che cosa fai insieme agli altri attivisti per salvare gli animali?
«Fino allo scorso anno abbiamo speso energie su diversi fronti. Andiamo a riscattare i cani , cioè paghiamo per liberarli, direttamente all’interno delle cosiddette “slaughterhouse”, ovvero i macelli improvvisati. Oppure abbiamo bloccato i camion che andavano a portare i cani al mercato. Il lavoro di preparazione e quello diretto sul territorio sono indispensabili proprio per capire come funziona il tutto: dove si trovavano i venditori, le slaughterhouse e dove passano i camion. Quest’anno punteremo a fare blocchi forzati dei mezzi con i cani stipati all’interno all’inverosimile, oppure a compiere direttamente blitz nei macelli. E’ un’attività complessa, emotivamente devastante e molto pericolosa. L’anno scorso mi sono venuti a cercare anche nella stanza d’albergo dove stavo. Mi hanno sottoposto, come raccontavo, a un vero e proprio interrogatorio allo scopo di intimidirci e fermarci».
E ora state costruendo un centro…
«Sì, è la nostra priorità: ospiterà i cani che salviamo. È un villaggio per i cani, un’isola felice senza box o restrizioni che abbiamo infatti chiamato “Island Dog Village E. F.”: un progetto pilota che verrà proposto come modello in Italia. La sigla finale sta per Elisabetta Franchi, la stilista. Il centro è dedicato a lei che ha deciso di essere al nostro fianco in questa missione. E’ da anni che si attiva per la tutela degli animali e ha detto no alle pellicce nella sua collezione da tempo. E una delle poche persone che ha dato una mano concreta sin da subito mettendo a disposizione quel che serve non solo col centro: anche con l’acquisto di medicinali e altri sostentamenti sia dall’estero che sul territorio».
La tua associazione si chiama “Action Project Animal” e ora c’è un progetto proprio dedicato a quello che succede a Yulin
«Sì, il progetto si chiama “Operazione Yulin” e l’associazione si batte per tutelare, difendere e salvare gli animali. Per noi è importante sottolineare che siamo in prima linea, che andiamo dove serve la nostra presenza. Non conosciamo confini, riconosciamo il dolore e la sofferenza che provano queste anime sulla Terra: salviamo gli animali combattendo nel luogo dove le ingiustizie accadono. E’ intollerabile che ci sia ancora così tanto accanimento da parte degli esseri umani su altre specie che dovrebbero poter convivere serenamente su questo pianeta con noi e come noi».
Chi è in Italia come può contribuire a dare una mano concreta?
«Si può partire come volontario: ci servono professionisti e attivisti in tutti campi. Per chi avesse intenzione di farlo può scrivere un email a actionprojectanimal@gmail.com. Oppure si può anche dare un contributo economico, indispensabile per le operazioni sul posto, attraverso il nostro sito (qui).
Pensi che Yulin possa mai davvero essere fermato?
«La situazione sembra nettamente migliorare di anno in anno. La sensibilità delle persone sta cambiando e il numero degli attivisti cresce sempre di più. Tutto questo mi fa capire che presto le cose inizieranno a muoversi per il verso giusto».