Riportiamo di seguito la Meditazione di Monsignor Pino Caiazzo, Arcivescovo della Diocesi di Matera-Irsina pronunciata durante la Santa Messa in Cattedrale per la Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.
Tra i tanti simboli della storia liturgica della Chiesa che vengono presi in considerazione per spiegare l’Eucaristia, c’è l’immagine del pellicano che nutre i suoi piccoli.
San Tommaso canta il ‘pie pellicane’, il Cristo pellicano che nutre i suoi piccoli, con l’inno eucaristico Adoro te devote: «Oh pio Pellicano, Signore Gesù, purifica me, immondo, col tuo sangue, del quale una sola goccia può salvare il mondo intero da ogni peccato» (uno dei cinque inni eucaristici dedicati al Corpus Domini nel 1264). Non a caso il pellicano viene posto sempre accanto al pane e al pesce, simbolo eucaristico per eccellenza.
Sappiamo che, come tanti altri volatili, anche il pellicano si ciba di pesce ma, diversamente dagli altri uccelli, lo pone nella sacca affinché i suoi piccoli possano nutrirsi. Arrivato nel nido, abbassa il becco verso il petto per consentire loro di prendere quel cibo. In questo movimento si procura delle lacerazioni che lo fanno sanguinare, probabilmente si tratta del sangue delle prede e non del suo che macchia le piume.
Tanti pensano che il pellicano nutra i piccoli con la sua stessa carne, associandolo a Cristo che nutre nell’Eucaristia. A noi cristiani ricorda il sacrificio di Cristo che, sulla croce, offre la sua vita per salvare tutti noi. Nell’iconografia, infatti, il Pellicano è Gesù, Gesù è il Pellicano.
I piccoli che, nelle rappresentazioni iconografiche, sono due, sono immagine del comandamento nuovo: amare Dio e il prossimo. Altre volte sono quattro come i punti cardinali, che rappresentano la totalità delle genti che nel costato di Cristo trova dimora e ristoro.
Il riferimento al Pellicano ci ricorda che la vera celebrazione dell’Eucaristia avviene in modo vero quando si vive l’amore verso il prossimo. È questo il momento in cui realmente, come Gesù, doniamo noi stessi mettendo a disposizione tutto ciò che ognuno di noi è: esperienza, tempo, sacrifici, condivisione anche delle proprie sostanze.
Non a caso nel brano del Vangelo di oggi Gesù, ai discepoli che avrebbero voluto liquidare e rimandare indietro i cinquemila che chiedevano di essere sfamati: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta», dice: «Voi stessi date loro da mangiare».
È una tentazione, nella e fuori la Chiesa, che sempre ritorna nel corso dei secoli. Congedare coloro che cercano aiuto, sostegno alle proprie fragilità, è la cosa più semplice per non affrontare il problema e non volerlo conoscere. C’è sempre una cospicua parte di umanità che tende a giustificare determinate scelte in nome di un benessere, incapace di prendersi cura seriamente di chi non ha nulla. Si celebra l’Eucaristia (rito) ma non si vive l’Eucaristia (amore donato). È un’Eucaristia chiusa tra le mura di una chiesa, forse anche bellissima, piena di segni che spiegano quanto si celebra, capace di parlare ma incapace di far diventare carne la parola.
Gesù non manda indietro nessuno: tra i cinquemila e i dodici non c’è nessuna differenza. Fanno parte della stessa umanità. Ai discepoli vuol far capire che, indipendentemente da chi sono e come sono gli altri, loro hanno la missione di diventare Eucaristia: «Voi stessi date loro da mangiare».
Le resistenze egoistiche nascono dalla paura che i cinquemila si possano appropriare del poco che hanno: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente».
Gesù respinge la logica di chiusura nei confronti degli uomini, chiedendo di mettere a disposizione quello che hanno, anche se poco: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». Il vero miracolo non consiste nel fatto che vengano moltiplicati i pesci e i pani (infatti non c’è nessuna moltiplicazione) ma nel gesto d’amore che si è capaci di fare: un solo pane dato con gioia e amore è capace di sfamare mille persone (cinque pani, cinquemila). L’amore apre il proprio cuore ma soprattutto quello degli altri che ritrovano fiducia, speranza, forza, energia per riprendere il cammino della vita: «Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste».
L’amore vero ricevuto da Dio, fattosi cibo in Gesù per noi, si moltiplica se, nei gesti che ognuno sarà capace di fare, è attento ai bisogni di quell’umanità che è sempre più sola (anziani nelle case di riposo, ammalati negli ospedali), più mortificata (giovani senza lavoro e quindi senza prospettive per il futuro) e all’ambiente degradato e sfruttato (con conseguenze dannose per la salute).
Viceversa, quell’umanità che alimenta la cultura dello scarto (costruire muri e steccati per impedire il flusso dell’immigrazione) e che ragiona come i discepoli cosa ha di cristiano? Quale Eucarestia vive?
Celebrare la solennità del Corpus Domini significa allora essere come il pellicano che prende ciò che la natura gli offre condividendolo con i suoi piccoli a costo di versare il proprio sangue. Significa mettere in atto l’agire di Cristo: «Prendi e mangia: questo è il mio corpo. Prendi e bevi: questo è il mio sangue. Fate questo in memoria di me».
Non sarà che il «fate questo in memoria di me» si sta riducendo sempre di più ad un precetto da osservare ritualmente piuttosto che ritornare ad essere un insegnamento che dilata il cuore e ci consente di vivere l’Eucarestia come amore donato?
† Don Pino