Riportiamo di seguito il testo dell’omelia che Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, Arcivescovo di Matera-Irsina e Vescovo di Tricarico ha pronunciato questa sera durante la Messa crismale nella Cattedrale di Tricarico.
Carissimi fratelli e sorelle, carissimi confratelli nel sacerdozio,
ogni volta che celebriamo la messa crismale è inevitabile che ognuno torni indietro nel tempo a ripensare, rivedere con gli occhi del cuore, ma soprattutto rimeditare il momento in cui ognuno di noi è stato ordinato presbitero della Chiesa di Tricarico e, nel contempo, a servizio della Chiesa tutta. Il silenzio che accompagna l’imposizione delle mani da parte del Vescovo e di seguito da parte di tutti i sacerdoti, mostra concretamente come da quel momento ognuno ha ricevuto dall’altro lo stesso dono dello Spirito Santo, la stessa grazia sacramentale, lo stesso sigillo che l’ha reso uno con l’intero presbiterio. E’ stato il momento in cui siamo stati introdotti nel sacerdozio di Cristo, quindi, come Lui, consegnati per sempre al Padre.
Il nostro ministero sacerdotale ha una sola fonte e un solo culmine: Cristo Gesù, pastore dei pastori, unico modello al quale ispirarci per vivere fedelmente la consacrazione presbiterale. Nel prefazio, rivolgendomi a Dio Padre, fra poco dirò: “Tu proponi loro come modello il Cristo, perché, donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del tuo Figlio, e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso”. E’ ciò che quotidianamente cerchiamo di capire ascoltando quanto lo Spirito sta dicendo alla nostra Chiesa. Non è forse quanto di continuo Giovanni nel libro dell’Apocalisse, sotto ispirazione dello Spirito Santo, ripete mentre si rivolge alle singole Chiese?
Il tempo che stiamo vivendo non è quello di ieri. I problemi, le criticità, le paure, l’instabilità politica mondiale, le tante ingiustizie e guerre, lo svuotamento delle nostre chiese e l’invecchiamento degli stessi fedeli, l’assenza di giovani non ci devono scoraggiare. Le criticità e le problematiche di ieri sono diverse ma non sono mai mancate. Questo è il tempo della missione: il percorso sinodale che come Diocesi stiamo compiendo, in comunione con la Chiesa italiana e con quella del mondo intero, è una grande opportunità che lo Spirito Santo ci sta donando per essere, come direbbe S. Pietro, “Pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in voi” 1Pt 3,14-17).
Il presbitero è animato da un entusiasmo che lo rigenera quotidianamente e che gli assicura la giovinezza del cuore, la fiducia e la speranza in colui che lo ha chiamato e inviato: Cristo Gesù. E’ Lui che amiamo! E’ con Lui che dobbiamo stare di più raccogliendoci in silenzio e preghiera in luoghi appartati. La vera sfida per il Vescovo, i Presbiteri, i Diaconi, i consacrati e le consacrate ma anche per ogni battezzato che svolge un ministero particolare nella Chiesa, consiste proprio in questo: consumarsi per il Vangelo annunciandolo e testimoniandolo, fortificati nella preghiera e nella meditazione della Parola.
Tutto questo comporta da parte nostra una completa e piena disponibilità nel servire Cristo e la sua Chiesa, allargando gli spazi del cuore e della mente, con lo sguardo proteso su tutto il territorio diocesano e uscire dalla tentazione di quella logica del passato di rimanere il più a lungo possibile legati alla stessa e sola comunità parrocchiale. La Chiesa, per la quale siamo stati ordinati presbiteri e alla quale abbiamo detto il nostro “si”, è molto più vasta, anzi, da un anno a questa parte, si è triplicata.
La messa crismale, soprattutto al momento del rinnovo delle promesse sacerdotali, è l’occasione per ritornare alla sorgente del nostro essere preti. Cosa significa? Essere pronti a mostrare la propria disponibilità rimettendo al vescovo il mandato ricevuto, nel rispetto delle normative canoniche e secondo le indicazioni della CEI. Questo vale per le parrocchie ma anche per gli uffici di Curia. Sarà il Vescovo a valutare caso per caso, considerando sia il bene del presbitero che della comunità. Ormai non possiamo non tener conto dei cambiamenti in atto e della necessità di promuovere una rinnovata pastorale d’insieme, organica. Il Sinodo che stiamo celebrando ci sta fornendo indicazioni precise.
Noi sacerdoti, accomunati dal sacramento dell’Ordine, più delle sorelle e dei fratelli con cui siamo uniti nel sacerdozio comune dei fedeli, siamo chiamati a rendere continuamente grazie al Signore con gioia e non per forza, con rinnovato entusiasmo e non con tristezza.
Sempre nel prefazio, diciamo: “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Con l’unzione dello Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza, e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l’imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza”.
Nessuno di noi parla a nome personale o di sé, ma nel nome di Cristo e per Cristo, nella consapevolezza di agire con Cristo. Tutti siamo servitori della fede della Chiesa che professiamo, annunciamo, testimoniamo.
Benedetto XVI diceva: “In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: Che cosa è tanto mio quanto me stesso? Che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile. Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore”.
Qualche volta accade che un sacerdote viva dei momenti di stanchezza e di fragilità che potrebbero indurlo a perdere l’entusiasmo dello slancio missionario. Spesso tutto muove da difficoltà che nascono da delusioni, da fatiche, dalla solitudine dovuta all’isolamento dei nostri paesi, ma anche dall’indifferenza che miete vittime; a questa condizione spesso si aggiungono le critiche da parte dei fedeli. Non lasciamoci rubare dal maligno quanto Dio ha seminato e continua a seminare in ognuno di noi. C’è bisogno di cuori che tornino ad ardere e ritrovare vigore. “Lo Spirito del Signore è su di me”. Continua ad esserlo anche oggi e ciascuno di noi non deve dimenticare di stare sotto lo Spirito Santo, di abitare nello Spirito Santo che profonde entusiasmo – dall’ètimo greco “En moi Theòs”: Dio abita in me. Sento di ringraziare Dio per la testimonianza di Mons. Paolo Ambrico e Don Michele Pandolfi che, nonostante l’età avanzata e benchè fisicamente provati, continuano a trasmettere.
Sentiamo anche di ringraziare il Signore per l’ordinazione presbiterale di Don Antonio Spianato che sta continuando gli studi di specializzazione a Roma.
Ma i nostri occhi e i nostri cuori si alzano al cielo e rivolti al Signore ricordano Don Rocco De Cicco e Don Paolo Paradiso: la Chiesa celeste è arricchita dalla loro presenza.
Il profeta Isaia, “consacrato con l’unzione”, sa che è stato segnato nel corpo e nell’anima, e vive il suo ufficio sacerdotale cosciente che, pur fra mille difficoltà, il mandato che ne deriva dall’unzione è costellato dalla missione di consolazione e sostegno verso un popolo chiamato a far risorgere la speranza.
L’esperienza mi insegna che, quando un sacerdote si trincera sulle difensive, si chiude nel poco che ha. Basti pensare ai discepoli che, di fronte alla folla affamata, pensano di mandarla via perché hanno solo cinque pani e due pesci, così il sacerdote sfiduciato pone ostacoli agli orizzonti ampi della sua missione, diventa miope nello Spirito, mostra anche poca fede, non solo nel Signore ma anche nella sua azione quotidiana, non aprendosi alla fiducia in me, in te, in noi.
Nel prefazio fra poco per voi tutti dirò a Dio: “Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti”.
A te, giovane seminarista Biagio, che oggi vieni ammesso tra i candidati all’ordine del Diaconato e del Presbiterato, dico semplicemente: sii grato al Signore che ti ha chiamato, preparati a servire Cristo e la Chiesa presente su un vasto territorio, sfuggi la tentazione della sistemazione e il ruolo da occupare, ama ciò che il Signore ti chiederà attraverso il Vescovo, soprattutto sii felice nonostante le prove e le sofferenze che a volte la vita ci riserva.
Carissimi, confratelli sacerdoti, siamo un solo e unico presbiterio e questa celebrazione crismale lo mette chiaramente in evidenza per la comunione tra voi e il vescovo, tra noi e il Sommo Pontefice, ma anche con l’intero collegio episcopale. Chiudo con questa sintesi mirabile che l’allora Cardinale Joseph Ratzinger affermava (La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, 1991):
«II sacerdote deve essere un uomo che conosce Gesù nell’intimo, che lo ha incontrato e ha imparato ad amarlo. Perciò dev’essere soprattutto un uomo di preghiera, un uomo veramente “religioso”. Senza una robusta base spirituale non può resistere: a lungo nel suo ministero. Da Cristo deve anche imparare che nella sua vita ciò che conta non è l’autorealizzazione e non è il successo. Al contrario deve imparare che il suo scopo non è quello di costruirsi un’esistenza interessante o una vita comoda, né di crearsi una comunità di ammiratori o di sostenitori, ma che si tratta propriamente di agire in favore dell’altro. Sulle prime ciò contrasta con il naturale baricentro della nostra esistenza, ma col tempo diventa palese che proprio questa perdita di rilevanza del proprio io è il fattore veramente liberante. Chi opera per Cristo sa che è sempre uno a seminare e un altro a raccogliere. Non ha bisogno di interrogarsi continuamente: affida al Signore ogni risultato e fa serenamente il suo dovere, libero e lieto di sentirsi al sicuro del tutto. Se oggi i sacerdoti tante volte si sentono ipertesi, stanchi e frustrati, ciò è dovuto a una ricerca esasperata del rendimento. La fede diviene un pesante fardello che si trascina a fatica, mentre dovrebbe essere un’ala da cui farsi portare».