Riportiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata nella Santa Messa del Giovedì Santo nella Cattedrale di Matera di Monsignor Pino Caiazzo.
Carissimi fratelli e sorelle in preghiera nelle vostre case, chiese domestiche,
diamo inizio, in modo solenne, al Triduo Pasquale. È il Giovedì Santo, giorno in cui celebriamo il memoriale dell’Istituzione dell’Eucaristia, che noi chiamiamo l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli. Questo memoriale, da quella sera, si perpetua fino ad oggi.
Durante quella cena, a Gerusalemme, gli occhi dei discepoli erano dapprima pieni di stupore, meraviglia e gratitudine, subito dopo, si riempirono di lacrime e di afflizione per il tradimento, il rinnegamento, l’abbandono di Gesù ai suoi carnefici.
L’esperienza, nella quale quest’anno stiamo celebrando il memoriale dell’Eucarestia, non è diversa. Infatti celebrare l’Eucaristia significa per il sacerdote come per il vescovo come per voi tutti, partecipare alla Mensa come se fosse la prima volta, come se fosse l’unica volta, come se fosse l’ultima volta.
Se da una parte lo stupore aleggia nelle nostre case perché è la prima volta che celebriamo il ricordo dell’Ultima Cena in questo clima, dove la tavola attorno alla quale come famiglia consumate il pasto, l’avete apparecchiata come fosse la Mensa Eucaristica, dall’altra parte lacrime di dolore rigano i nostri volti. Non è facile dimenticare certe immagini. Non è facile convivere con il buio che sta ricoprendo milioni di persone: paura del contagio, dolore per la morte di una persona cara, fermo di tutte le attività produttive, incertezza del futuro. È come se la vita ci avesse improvvisamente traditi, consegnati ad un invisibile virus che ci ha resi inermi.
Celebrare e vivere da casa la partecipazione all’Eucaristia non significa che ogni famiglia si sia staccata dalle altre: la Chiesa è una sola, formata dai singoli battezzati, dalle tante famiglie che guardano verso le uniche due mense: della Parola e dell’Eucaristia.
L’evangelista Giovanni, anche nel brano del vangelo che abbiamo appena ascoltato, sottolinea un aspetto che ritengo sia molto importante: Gesù sapeva che stava per affrontare la tristezza della sofferenza e l’ingiustizia della morte. Abbiamo sentito: Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
L’evangelista sottolinea spesso che Gesù sapeva quanto stava per vivere e quello che gli sarebbe accaduto. Gesù comprende che quanto gli accadrà è qualcosa di terribile ma necessario ma non ne parla apertamente, anzi, a chi nutre qualche sospetto gli avrà certamente ripetuto che sarebbe andato tutto bene, come succede a chi è malato e conforta i suoi cari.
“Andrà tutto bene”: è la frase che ci stiamo ripetendo da due mesi, malgrado siamo consapevoli di dover attraversare momenti duri, difficili. Lo dicono e scrivono i bambini, lo gridano i ragazzi, lo cantiamo tutti. È un modo per esorcizzare la storia? No! È la convinzione di chi, ben sapendo e conoscendo la paura, sa che deve affrontare con coraggio il momento storico presente.
Ma per noi cristiani c’è di più. Non confidiamo solo nelle nostre forze, perché sappiamo di essere limitati, fragili, non esenti da momenti di paura e disperazione. Confidiamo nell’aiuto e nella forza che viene dall’alto che ci rende forti e coraggiosi, coscienti che potrebbe essere chiesto anche a noi di consegnare definitivamente la nostra vita nelle mani di Dio. È quanto fa Gesù. È quanto siamo chiamati a fare noi. Noi viviamo lo stesso dolore di tutti, versiamo le stesse lacrime, ma abbiamo una diversa speranza: siamo figli di Dio e in lui, per quanto dolore possiamo provare e sentire dentro, sappiamo di ricevere molto di più: la vita eterna.
Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, entra nella volontà del Padre. Il passaggio da questo mondo al Padre è difficile. Ci sono affetti, persone care, luoghi ai quali si è fortemente legati. È difficile lasciare tutto questo, nonostante la certezza della vita senza fine. È stato difficile per Gesù, lo è per ognuno di noi. Siamo uomini e noi crediamo e ci fidiamo del Dio che in Gesù si è fatto uomo.
Penso a tutte quelle volte che abbiamo vissuto accanto a una persona cara che ci ha lasciato. Che lirismo, in quei momenti finali di vita! Che voglia di condividere con tutti ogni cosa! Spesso chi sta per lasciare gli affetti terreni, nasconde la sofferenza e tranquillizza i propri cari dicendo che sta bene. Il desiderio più grande è di potersi ritrovare a tavola con tutti i cari. È il messaggio ultimo della comunione fraterna da vivere, l’eredità che viene lasciata nello spezzare lo stesso pane e bere la stessa bevanda.
È esattamente quanto ha fatto Gesù con i suoi discepoli. Non vuole rovinare la festa della Pasqua alla quale gli apostoli si erano preparati con tanto entusiasmo. La celebra con loro mostrando concretamente quanto sia loro legato, quanto li ami. Chi ama, ama sempre, serbando nel suo intimo ogni dolore, nonostante sappia quanto dovrà soffrire.
È facile amare quando si è innamorati: penso agli occhi di due fidanzati che si perdono l’uno nello sguardo dell’altra o a quello di una mamma o di un papà verso il proprio figlio o a quello di chi vive l’attesa di una vita nuova che deve venire al mondo.
Viceversa è più complicato nutrire gli stessi sentimenti d’amore quando subentrano problemi, liti, incomprensioni, delusioni. Sembra il fallimento di tutto: la fecondità improvvisamente diventa sterilità.
In questo clima di condivisione traspare la gioia della comunione, della fraternità che anima ogni famiglia cristiana. È in questo clima che Gesù istituisce l’Eucaristia. Ed è questo il senso vero dell’Eucaristia: il rito diventa offerta reale sull’altare della Croce.
Comprendiamo meglio le parole di Gesù: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…prendete e bevete, questo è il mio sangue. La vera comunione si celebra nella vita di ogni giorno ed è espressa in quel saluto finale della celebrazione eucaristica che in latino suona così: Ite, missa est! Vale a dire: la messa è ora, inizia da questo momento in poi, nella quotidianità dove chi si è nutrito di Cristo si spezza per gli altri, diventando comunione, prossimità.
Questo tempo del COVID19 ci sta costringendo a celebrare a porte chiuse e senza fedeli. Al di là di quelle che sono le opinioni personali, vorrei che tutti ci chiedessimo: perché Dio lo sta permettendo? Cosa ci sta volendo dire e comunicare? E perché non posso ricevere Gesù Eucaristia nel suo vero corpo e nel suo vero sangue? Sono più fortunati i pochissimi che, per motivi di servizio all’altare, stanno partecipando? Non è così. È una falsa lettura che rischia di portarci lontani da Dio e dalla storia che stiamo vivendo.
Non è bello vedere le porte delle chiese chiuse. Non lo è per nessuno. C’è una mensa in casa nostra che solo da un po’ di tempo a questa parte abbiamo riscoperto come luogo attorno al quale ritrovarci e condividere lo stesso cibo. Le nostre abitudini, i nostri orari, i nostri gusti sono improvvisamente crollati, per ritornare a guardarci negli occhi, a sentire le voci familiari, per sorridere e litigare, per amare e aprire il cuore alla condivisione del tempo, dei luoghi, se pur ristretti, che sono di tutti i componenti della famiglia.
Non è bello vedere le porte chiuse nella stessa casa, magari con la scritta su alcune: privacy, non entrare. Esistiamo noi: le solitudini e le differenze creano rotture, intolleranze, chiusure, paure. L’Eucaristia spalanca le porte del cuore e fa compiere un gesto importante, quello di Gesù, pur sapendo che tra i commensali ci sono persone che lo fanno soffrire e lo faranno soffrire (Giuda che lo tradirà, Pietro che lo rinnegherà, gli altri apostoli, tranne Giovanni, che lo abbandoneranno): “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto”.
Si, carissimi fratelli, celebrare l’Eucaristia, significa piegarsi, inginocchiarsi davanti all’altro e lavargli i piedi. Una volta le nostre mamme e le nostre nonne, ai papà e nonni che ritornavano dai campi stanchi, lavavano loro i piedi, non come segno di sottomissione ma come segno d’amore nel riconoscere che quei piedi avevano camminato per una giornata, erano stati fermi in mezzo alle zolle della terra. E tutto questo per amore della propria famiglia. All’amore si risponde sempre con amore anche quando si è fortemente feriti dentro. È l’unica legge che mette fine a conflitti, inimicizie, guerre.
L’amore che sta circolando in questi giorni è incredibile. I confratelli sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose, vicini e presenti nelle loro comunità parrocchiali, mi dicono che la generosità della gente è davvero tanta. Questo significa che si stanno aprendo, anzi spalancando tante porte, portoni, si stanno alzando saracinesche per far uscire dai diversi luoghi (aziende agricole, privati, commercianti vari, industrie presenti sul territorio) tutto ciò che serve per venire incontro alle numerose famiglie fortemente in crisi per mancanza del minimo indispensabile.
A questo proposito sento di ringraziare i confratelli sacerdoti e diaconi che, in questo momento di emergenza, hanno accolto il mio invito di devolvere un mensile intero con una finalità ben precisa che si sta elaborando. Devo dire che la risposta è andata oltre ogni previsione: chi ha chiesto di rateizzare, chi ha offerto una mensilità, chi due, chi tre. Grazie per la vostra generosità, per la vostra attenzione, per l’amore che mostrate, anche attraverso questo gesto, di come siete vicini verso i bisogni e le necessità della nostra gente.
Indipendentemente se si riesca a capire il senso profondo dell’Eucaristia, dico: questa è l’Eucaristia che si sta celebrando in questi giorni e alla quale si sta partecipando come non mai. I mezzi di comunicazione (l’emittente televisiva Trm, le dirette facebook e youtube, ecc.) sono continuamente presenti nelle nostre case e ci stanno portando come non mai la presenza di Gesù Cristo attraverso la Parola che viene proclamata, la preghiera, l’Eucaristia alla quale partecipiamo alimentando in noi il desiderio di ricevere Gesù per essere noi stessi Eucaristia.
Carissimi, non possiamo fare l’adorazione eucaristica questa notte. Vi invito ad adorare la vita che avete messo al mondo, i figli o quella che portate in grembo, quella sofferente perché malata, sola, anziana, quella dei vostri genitori e di quanti sono a servizio della nostra crescita umana e spirituale. Rimaniamo ugualmente vigili in questa notte del silenzio, dell’abbandono, del tradimento, del pianto e adoriamo in altra forma Gesù Cristo!
✠ Don Pino