Per celebrare nel migliore dei modi l’intesa culturale tra Matera e Patti a Matera, scaturita dal premio assegnato al giornalista materano Carlo Abbatino a seguito della pubblicazione della poesia “Matera ieri, Matera 2019”, dedicata alla città dei Sassi quando era ancora in corsa per il titolo di capitale europea della cultura, il Presidente dell’Associazione “Beniamino Joppolo” Luigi Ruggeri ha presentato il 14 settembre scorso al pubblico “Parlar d’amore”, la seconda raccolta di poesie di Carlo Abbatino, che arriva due anni dopo la pubblicazione di “Inside, parole d’amore”.
“Non c’è poeta – scrive Ruggeri nella prefazione – che non abbia mai messo al centro della sua poesia il tema dell’amore, tutti hanno cantato dell’amore, ciascuno di loro come ad una esperienza dell’infinito e come tale indicibile per definizione. Per Carlo Abbatino l’amore o la passione d’amore costituisce l’apice dell’esperienza umana, perchè lo ha condotto e lo conduce ancor attraverso quei “territori oscuri”, in cui si radunano i significati più profondi dell’esistenza, dell’esaltazione fino al proprio annullamento, la percezione dell’unità di tutte le cose e della loro tragica separatezza, il sentimento della pienezza della vita o della sua mancanza di senso. Nella poesia di Carlo l’amore viene rappresentato, anzi, direi configurato nella passione che brucia e rende necessariamente separati, poichè avvinti da qualcosa che sovrasta. Ecco quindi che Carlo Abbatino desidera ardentemente, attraverso la poesia, narrare l’amore, ponendolo, l’amore fronte al mito che gli permette di afferrare la stretta relazione delle esperienze umane, come la felicità con la sofferenza e come la vita con la morte.
Si avvale quindi della poesia “amorosa” classica per parlare e raccontare dell’amore come di un’esperienza totale, coinvolgente, che lo mette in contatto con l’infinito.
Con la sua “positività” e nonostante il dolore l’abbia colpito con la perdita della persona amata, Carlo riscatta uno dei tratti comuni alla “poesia amorosa moderna”: l’assenza di amore, considerata come impossibilità di realizzarne il desiderio di esso. Non fatico a considerare che questo tiopo di poesia sia parecchio gradita ai lettori perchè trovo in essa la capacità di avvalersi di un vero e proprio arricchimento espressivo quasi a voler sottolineare che la “forma d’amore” non sia destinata a finire ma a conservarsi, arricchirsi e quindi a trasformarsi.
Una poesia lirica amorosa questa di Carlo, mai banale, perchè non si riassume soltanto nell’esplicitarsi dlella passione, ma nel vedere come essa riesca a intrigare il linguaggio. Come se a contare fosse, alla fine, la parola pi che l’esperienza che la determina. Da queste osservazioni possiamo affermare che, una dele più forti intensità che colpisce chi si attardi a leggere e riflettere le poesie di Carlo è a mio avviso quella sul valore universale dell’amore, che è già felicità al solo suo esistere, anche quando a amare si è soli.
Così scrive e narra, e si apre facendo ricorso a tutta la sua arte poetica che gli consente di mostrare dentro ogni cosa, anche la più triste e la più sofferta, la presenza dell’Infinito, di Dio. Egli infatti, ci consegna, attravreso pagine edificanti come queste contenute nella raccolta “Parlar d’amore”, l’anima, le emozioni e sensazioni, ponendo alla nostra attenzione il bilancio significativo della sua esistenza, che è passata e passa ancora attraverso desideri rimasti forse inappagati, attraverso occasioni mancate e fatti che hanno contrassegnato il Suo modo di essere uomo. Tutto questo sullo sfondo di un luminoso passaggio esistenziale che fa da sfondo all’anima che rimane assorrta di fronte alla meraviglia di Dio”.
La raccolta di poesie “Parlar d’amore” di Carlo Abbatino è stata oggetto di studio da parte del professore Pasquale Labriola. Di seguito la recensione dedicata alla poetica di Carlo Abbatino.
Per “Estetica” si intende la scienza filosofica dell’arte e del bello. Il nome è stato introdotto da Baumghrten nel 1750 e significa “dottrina della conoscenza sensibile” e che Kant, nella Critica del Giudizio, chiama giudizio estetico condizionato dalle forme a priori della conoscenza sensibile. Oggi designa qualsiasi analisi o speculazione che abbia per oggetto l’arte e il bello. (arte e bello erano ritenute separate).
La dottrina dell’arte era chiamata dagli antichi poetica, cioè arte produttiva di immagini, mentre il bello cadeva fuori della poetica.
Pertanto mentre il bello (Platone) è la manifestazione evidente delle Idee, cioè dei valori, l’arte è imitazione delle cose sensibili. Basti consultare la poetica di Aristotele per il quale il bello consiste nell’ordine, nella simmetria e nella grandezza con cui l’occhio abbraccia tutta la vita nel suo complesso.
Agli inizi del ‘700 le due nozioni dell’arte e del bello appaiono connesse attraverso il concetto di GUSTO, inteso come facoltà di discernere il bello sia dentro che fuori dell’arte. (cfr Hume. Regola del gusto 1741) e il saggio di G. Spaletti “Sulla bellezza”1765). Ma la svolta l’abbiamo con Kant che stabilisce l’identità dell’artistico e del bello affermando che “ la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte, la quale è bella quando è conforme alla natura”. Non intendendo in tal sede fare l’analisi storica dell’estetica, cosa che ci allontanerebbe dall’oggetto per cui siamo presenti e cioè presentare il libro del giornalista Carlo Abbatino “Parole di amore, ci limitiamo a presentare al gentile pubblico tre diverse concezioni dell’arte:
- Arte come imitazione; Platone:l’arte è subordinata alla natura.
- Arte come creazione; Schelling: l’arte è attività creatrice dell’Assoluto perché il mondo è un poema.
- Arte come costruzione; Kant: arte come incontro tra la natura e l’uomo; l’Estetica è una forma del giudizio riflettente: con cui le leggi della natura sono subordinate alla libertà dell’uomo.
Ma occorre fare un passo indietro per attribuire a Giambattista Vico la scoperta non solo della conoscenza storica, ma anche e soprattutto dell’estetica. Fu Vico a scoprire per primo l’essenza e la genesi della poesia nella vita dell’uomo perché le più importanti testimonianze della storia antica sono quelle poetiche. E’ l’impulso poetico dell’uomo a dare valore di verità alla poesia. Per Vico la poesia non è un’attività aggiunta alla vita, ma la vera forma di parlare dell’animo commosso del fanciullo, dell’uomo primitivo. L’uomo, per esprimersi, crea la poesia che è “linguaggio” Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura” (Scienza Nova). I primi uomini parlano in maniera fantastica e si servono dei miti e delle favole, poi avvertono il bisogno della verità e scacciano i sensi.
Infine la poesia diventa Metafisica non ragionata e nasce l’universale fantastico, che non indica qualcosa di immaginario, ma di universale e di oggettivo che viene comunicato agli altri come passione, come pathos, cioè sofferenza; le parole assumono il volto delle idee formate e Omero fu la voce poetica della Grecia.
Filosofia e Filologia sono interdipendenti per Vico, ma non per Croce.
Vico morì sconosciuto e non apprezzato dal suo tempo, ma trionfò sempre in lui la volontà di aver dato alla religione cattolica uno dei suoi contributi più nobili e più alti perché è Dio che corregge le forze della natura, come s’intende dalle liriche di Carlo Abbatino.
Entro tali coordinate e ragionate considerazione è possibile accendere il discorso sulle liriche di Carlo Abbatino allo scopo di non cadere nella retorica e nell’oratoria vuota che oggi si registra nelle varie e numerose pubblicazioni poetiche.
Ho cercato di esaminare con occhio critico le sue poesie preoccupandomi, soprattutto, di mettermi dalla parte dell’artista giacché, se è vero che l’opera si fa da sé, è altrettanto vero che tale opera viene fatta dall’artista che possiede il germe della costruzione e che gli consente di comporre, unificare, organizzare, progettare attraverso il proprio sentire.
Ciò che è embrione, spunto, tentativo si matura e si evolve gradualmente in un processo dialettico di maturazione che è il frutto poetico.
In altre parole, l’ispirazione, lo spunto, la vena consentono all’artista di organizzare le proprie emozioni e di dipingerle attraverso lo scritto. E ciò consente al lettore di leggere la poesia e declamarla in sinergia col sentire dell’artista. Chiarisco che “leggere poesie” significa eseguirle, così come leggere un dramma o gustare l’Antigone, di Sofocle, significa rappresentarla a condizione che si sia padrone del contenuto dell’opera.
Ebbene la Silloge di Abbatino contiene molti spunti che ho cercato di astrarre per chiosarle con la consapevolezza di giungere ad una identità poetica delle liriche dell’Autore. Per esempio , centrale è nelle sue poesie il tema dell’amore che deve dissipare “ i territori oscuri”, inesplorati della esperienza umana. La sua è una lirica amorosa, è un linguaggio d’amore a cui viene conferito il valore della oggettività e della universalità della esperienza umana. E’ qui l’ansia dell’artista, ove la parola “esperienza” significa ricerca di una vita che conduce a Dio.
Costante è nelle sue liriche il richiamo a Gesù, al sublime che diventa “luce”, “rivelazione” della sua onnipotenza verso la città terrena, abitata dal corpo, dalla materialità , dall’avarizia. Anela il Nostro, alla gioia della vita attraverso il dono delle mimose alla sua amata che può richiamare Laura del Petrarca cantata nella sua corporeità ma anche vissuta come infinito, simbolo della vita, della creazione, fascino e meraviglia. Della sua donna Abbatino coglie lo sguardo, la voce, la bellezza come salvezza interiore, la vita come sacralità e dono divino che deve trionfare sulle atrocità del mondo contemporaneo. Mette in luce i capelli, l’azzurro del cielo, l’incanto, l’estesa serenità, l’alba e l’occaso, il calore umano, il mondo degli affetti, il cinguettìo dei passeri, il garrire delle rondini, la voce velata, lo smarrimento esistenziale. Quest’ultima espressione merita di essere sviluppata perché originale. L’uomo di oggi, infatti , preda della tecnologia, si sente nientificato e reificato perché ha smarrito la reta via, di dantesca memoria, ed è divenuto vagabondo, erra senza una direzione, vinto dall’avarizia e dalle passioni carnali (la roba verghiana), ha abbandonato Dio.
Quella di Abatino è una meditazione su se stesso, è un parlare a se stesso attraverso le varie immagini della donna amata:, il tremore, il pallore, i sospiri finalizzati alla conquista della donna amata sono emozioni che intendono sfuggire alla Morte e al Male e avverte il peso di questo amore. Così significa ciò. Significa che Carlo è un peccatore come tutti e avverte la vergogna e il pentimento , perché il suo amore non riposa ancora in Dio. Il pentimento è l’unico rimorso alla sua caduta e al suo riscatto. L’Autore avverte il dissidio interiore tra l’anima e il corpo, il contrasto fra due “auree catene”: l’amore e la Pace. E s’interroga se abbandonarle o assecondarle: cioè deve operare una scelta che lo inquieta. Un altro esempio, vedi l’Attesa, pag. 21, ove l’innamorato attende pazientemente la sua donna, ove egli è combattuto tra la volontà di volere e la (Noluntas). Ma deve pur scegliere.
Altri temi come la luna, custode dei cuori innamorati, le rose rosse i cui petali sono baci, la festa del Santo Natale l’invocazione di Gesù, la poesia “Mamma” che viene pronunciata tre volte, nome incomparabile, in cui si vede la culla, l’infanzia della storia, la memoria antica, l’ansia della felicità da perseguire e non l’utile epicureo.
Anche “questo maggio” è una bella lirica, il mese delle rose, della primavera dell’anima, del vento che ulula, che respira, che travolge. Poi la quiete.
Ultima osservazione: Abbatino è un poeta in fieri, cerca qualcosa che ancora non ha, come tutti noi, cerca l’abreazione, la libertà dalle catene delle passioni e combatte la
prepotenza politica, la hybris contemporanea, il dispotismo, la tirannide che sempre più oggi serpeggia nella vita delle istituzioni. Tuttavia deve attendere, deve cessare di fuggire, di essere ramingo e picaro, perché l’aiuto che verrà da Dio, il massimo Fattore di cui abbiamo ardentemente bisogno è il suo scopo. . Apprezzo il suo lavoro perché l’opera d’arte non ha limiti;
“In interiore Nomine habitat veritas”, è il motto delle Confessioni di Agostino di Tagaste che farà germogliare in Carlo il valore della fede e l’amore per la trascendenza, rimedi validi per mitigare le catene delle passioni.