La festa di sant’Eustachio martire, primo patrono di Matera, mi offre l’occasione di raccontare la vita avventurosa e più che giobbica del Santo. Compendio la narrazione fattane dal domenicano Iacopo da Varazze (1228 ca. – 1298) nella sua Legenda aurea che, scriveva Arrigo Levasti, dopo la Bibbia è stato forse il libro più letto, più amato, più vissuto, più stampato, più tradotto. Mi riferisco alla traduzione a cura di Alessandro e Lucetta Vitale Brovarone per la nuova edizione einaudiana del 2007. Non è il caso di soppesarla criticamente né di mettere a tema i valori cristiani che ne emergono e devono ispirare i panegiristi (le opere di misericordia, la sapienza della Croce, l’amore familiare, la pazienza nelle prove, la fiducia nella Provvidenza, l’accettazione della vita oscura, il martirio per il Signore). Qui basti il racconto.
Il suo nome era Placido e comandava la cavalleria dell’imperatore Traiano. Adorava gli idoli, ma praticava con assiduità le opere di misericordia. Egualmente la moglie che gli aveva dato due bambini.
Un giorno, uscito a caccia con i subalterni, s’imbatté in un branco di cervi fra i quali spiccava un esemplare di straordinaria bellezza. Lo inseguì, ma quello si rifugiò su una rupe. Mentre ponderava come catturarlo, fra i palchi del cèrvide apparve la croce santa aureolata di sole e con la figura di Gesù Cristo che gli parlò attraverso la bocca del cervo. Perché Placido lo cacciava? Lui era il Cristo che venerava senza saperlo. A lui erano saliti i suoi atti di misericordia. E lui era venuto a cacciare il cacciatore. Il Cristo gli rivelò la propria identità e lo invitò a farsi battezzare dal vescovo di Roma e, il giorno dopo, a ripresentarsi sotto la rupe. Nella notte Placido e i suoi furono battezzati: lui fu chiamato Eustachio, la moglie Teopista, i bambini Agapito e Teopisto. Il mattino seguente, Eustachio uscì a caccia, sviò per il fitto del bosco gli accompagnatori e raggiunse il luogo dell’apparizione. Il Signore gli profetizzò che il diavolo l’avrebbe messo duramente alla prova, ma lui avrebbe conseguito la corona della vittoria; avrebbe conosciuto umiliazioni da un punto di vista mondano, ma sarebbe stato riportato alla gloria più vera; la grazia avrebbe sostenuto la sua pazienza.
Non molti giorni dopo un’epidemia gli sterminò servi, cavalli e greggi. Una notte predoni spogliarono di ogni bene la sua dimora. Eustachio rese grazie a Dio, ma vergognandosi del degrado in cui era caduto, con la famiglia s’imbarcò per l’Egitto. Durante la navigazione il padrone della nave s’invaghì di Teopista ed Eustachio, non potendo pagargli il passaggio, suo malgrado, piangendo, per non essere gettato in mare con i figli, dovette cedergliela. Poiché doveva attraversare un fiume dalla corrente impetuosa, decise di inoltrarvisi con un bambino per volta. Trasportato il primo sull’altra riva, tornando, da mezzo al fiume, vide un lupo trascinarlo via. Si affrettò allora a raggiungere il secondo, ma già un leone fuggiva tenendolo tra le fauci. Per la disperazione si sarebbe arreso alla corrente, se la provvidenza non l’avesse trattenuto. Eustachio si lamentò con il Signore per essere stato messo alla prova più di Giobbe, ma lo pregò di custodirgli le labbra e la mente così da non divenire indegno di comparire al suo cospetto.
Per quindici anni Eustachio fece il guardiano dei campi in un villaggio. A Roma l’imperatore, in difficoltà a causa dei barbari, si ricordò del valoroso comandante della sua cavalleria che, anni prima, era scomparso e mandò soldati a cercarlo per tutto il mondo, promettendo una grossa ricompensa a chi l’avrebbe ritrovato. Due soldati che avevano militato nella sua truppa giunsero al villaggio dove badava ai campi. Eustachio, non riconosciuto, li riconobbe. Di colpo rammemorò la gloria di un tempo. Ah, poter almeno rivedere allo stesso modo Teopista, Agapito e Teopisto! Una voce dall’alto lo incoraggiò ad aver fiducia: presto avrebbe riavuto e gloria e moglie e figli. Eustachio offrì ai soldati di rifocillarsi in casa sua. Quelli, osservandone il volto deterso dal sudore e dalle lacrime, riconobbero l’antico superiore, confermati dalla cicatrice di una ferita che aveva riportato in una battaglia. Gli si buttarono fra le braccia. I vicini trasecolarono a udirli celebrare il valore di Placido comandante e che l’imperatore aveva bisogno di lui.
Quindici giorni dopo, a Roma, reinsediato d’imperio nel ruolo d’una volta, Eustachio prese atto che con uno sparuto contingente di armati non avrebbe potuto guerreggiare contro un nemico più numeroso. Indisse una leva in cui furono reclutati anche due giovani che, ben meritando, furono ammessi alla sua mensa. Eustachio sconfisse i barbari. Di ritorno con l’esercito si accampò tre giornate in un luogo dove c’era una locanda gestita da una donna cui accadde di sentire quei due giovani raccontarsi il passato. L’uno e l’altro erano stati privati della madre. Il primo, poi, portato dal padre sull’altra sponda di un fiume, era stato sottratto alla bocca di un lupo dai contadini accorsi. L’altro, in attesa di essere traghettato dal padre sull’altra sponda, era finito preda di un leone che, braccato da alcuni pastori, era stato costretto a lasciarlo. Le storie combaciavano: si abbracciarono, riconoscendosi fratelli. La locandiera, ascoltandoli, era andata chiedendosi se fossero i figli. Si precipitò dal condottiero. Gli raccontò di sé: anni prima era stata sequestrata al marito e a due figlioletti, ma era stata rilasciata senza aver subìto violenza. Eustachio e Teopista si riconobbero e ringraziarono Dio. La moglie, poi, riferì quel che aveva udito dai giovani. Eustachio li convocò: erano i figli. Ne seguirono abbracci, baci e lacrime di felicità.
Vittorioso, a Roma Eustachio trovò che a Traiano venuto meno era succeduto Adriano. Costui si stupì che non volesse sacrificare agli dei e non fosso disposto a ringraziarli né per il trionfo né per il ritrovamento della famiglia, professando che Gesù Cristo era il suo Dio. Allora l’imperatore decretò che lui e i suoi venissero esposti a un feroce leone nell’arena. La belva, raggiuntili, chinò il capo come in venerazione e si ritirò. Allora l’imperatore li fece rinchiudere in un bue di bronzo arroventato in cui, raccomandandosi a Dio, Eustachio, Teopista, Agapito e Teopisto emisero lo spirito. Tre giorni dopo, quando estrassero i corpi dal tormento, grande fu la meraviglia dell’imperatore al vederli intatti. I cristiani li raccolsero e seppellirono erigendo un oratorium.