Lo storico materano Gianni Maragno “rispolvera” alcune vicende dell’emigrazione italiana sconosciute o dimenticate e ne ha scelto due, particolarmente emblematiche, per i lettori di SassiLive. Di seguito il contributo inviato da Gianni Maragno.
“La vita in un bagaglio” questo il titolo della mostra dell’artista israeliana Orna Ben Ami che rimarrà aperta fino al prossimo 23 aprile, presso l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro di Matera.
Le vite e le aspettative di migranti, divengono installazioni, abbinando il sottile supporto cartaceo delle fotografie di uomini, donne e bambini al ferro pesante e massiccio dei loro modesti bagagli; scrigni che racchiudono le radici del passato, ma anche i sogni di futuro.
L’esperienza e gli studi hanno rafforzato in me la convinzione che occorra guardare al passato per evitare il ripetersi degli errori in futuro. Il Belpaese, che in tema di emigrazione vanta una storia molto lunga, con una tendenza all’aumento negli ultimi anni, vive attraverso il mare anche un fenomeno immigratorio senza precedenti.
I flussi migratori dal continente africano e dai luoghi di conflitto sono soltanto l’ultima fase di un fenomeno che ha visto l’Italia protagonista per tanti anni, forse oggi con un livello di assuefazione manifestato dalla pubblica opinione nei confronti di quanti a loro volta sono costretti a emigrare.
Alcune vicende dell’emigrazione italiana sono sconosciute o dimenticate, ne vorrei riportare due, particolarmente emblematiche.
Il 25 febbraio del 1891, il piroscafo Utopia, appartenente ad una compagnia di navigazione britannica, salpò dal porto di Trieste diretto a New York. Il fiorente business del trasporto di emigranti aveva favorito la ristrutturazione dello scafo, che poteva contenere fino a 800 passeggeri, oltre gli uomini dell’equipaggio. In coincidenza con lo scalo previsto a Napoli si imbarcarono diversi cittadini della Basilicata. L’Utopia effettuò alcuni scali tecnici, per poi fare rotta verso Gibilterra, dove le navi erano solite rifornirsi di carbone e viveri prima di intraprendere la traversata oceanica. In quei giorni, però, il mare di Gibilterra era in tempesta e ostacolava le operazioni; tuttavia, il capitano della nave inglese decise ugualmente di entrare in porto. Si aggiunse l’imprevista presenza di una corazzata della Reale Marina britannica al molo dove l’Utopia era solita attraccare; cosicché, il comandante della nave passeggeri dette ordine di percorrere il braccio di mare tra la corazzata e il primo molo disponibile. La nave militare era dotata di un rostro sommerso, sul quale l’Utopia andò ad impattare e, nel volgere di 20 minuti affondò. Trovarono la morte 562 persone tra emigranti e membri dell’ equipaggio. I lucani annegati nel naufragio furono 32 e provenivano dai seguenti comuni:
S. Paolo Albanese: Osnato Maddalena; Troiano Caterina; Fioravante Maddalena; Locilento Francescantonio; Blumetti Maddalena; Buccolo Maddalena; Blumetti Domenica; Basile Giuseppe; Fioravanti Raffaele; Lucilari Francesco; Lucilari Diamanta; Terespo Andreana;
Rionero in Vulture: Guariniello Filomena; Nardozzi Marco;
Matera: Grieco Anna Rosa; Morelli Paola Maria; Morelli Francesco Paolo; Morelli Eustachio;
Pomarico: Buongiovanni Michele; Dilallo Rocco; Glionna Francesco; Laterza Vito;
Sarcone: Casino Maria; Maggio Caterina;
S. Fele: Granaldi Lucia;
Rapolla: Ricigliano Antonio;
Brindisi di Montagna: Scarano Antonio;
Potenza: Perrone Giovanni;
Calvello: Pennella Rocco; De Rosa Pasquale; Schiavone Rocco; Tortorelli Michele.
La seconda vicenda di emigrazione, sempre legata al mare, risale al 1940. Il 10 giugno di quell’anno, l’Italia, componente dell’Asse a fianco di Germania e Giappone, entrò in guerra contro i paesi Alleati, tra i quali il Regno Unito.
Il Governo Britannico, nel timore di attività di spionaggio da parte degli immigrati che prestavano lavoro nei propri territori, mise in atto strategie per disfarsi di ogni potenziale spia. Per esempio, cuochi, camerieri, lavapiatti, muratori, calzolai e civili, che avevano il solo torto di essere nati in Italia e Austria divennero internati e stipati sulla Arandora Star, una nave da crociera requisita per esigenze belliche e adattata al trasporto di prigionieri dell’Asse, e fatti salpare sulla rotta per il Canada. Tutte persone di sesso maschile, da molti anni immigrate in Gran Bretagna, addirittura con figli arruolati nell’esercito di Sua Maestà. A costoro vennero negati tutti i più elementari diritti civili e politici, compresi quelli derivanti dalla Convenzione di Ginevra per i militari. Molti videro confiscate le proprietà personali, ai parenti non venne data alcuna comunicazione della deportazione e in un clima di caccia alle streghe il 1 luglio del 1940 l’Arandora Star tolse gli ormeggi dal porto di Liverpool e, senza nessuna scorta, intraprese la navigazione per il campo di prigionia in Canada con a bordo circa 1500 passeggeri, tra i quali 86 prigionieri di guerra. Le condizioni sulla nave erano delle peggiori, con molti passeggeri ammassati nei locali della sala da ballo e costretti a dormire per terra. Non risulta chiara la ragione per la quale la nave non esponesse il simbolo della Croce Rossa e inoltre era stata ridipinta degli stessi colori delle navi da guerra in possesso di armamenti bellici.
Il giorno dopo la partenza, la nave, in navigazione in acque irlandesi, venne colpita e affondata dal sommergibile tedesco U-47. Quel 2 luglio 1940 nelle acque dell’Atlantico Settentrionale galleggiavano moltissimi cadaveri; le vittime furono 865, tra queste 446 erano italiani. Certamente se il comandante tedesco avesse saputo chi c’era su quella nave non avrebbe sparato quell’ultimo siluro che era rimasto al suo sommergibile in ritorno da una operazione di perlustrazione.
A distanza di molti anni da quel tragico evento, non è del tutto svanito il sospetto che l’affondamento dell’Arandora Star sia stato voluto o addirittura provocato da parte della Marina di Sua Maestà.
La riflessione su quanto sta avvenendo a gente di altre nazionalità, costretta a migrare a vario titolo dai propri paesi e dai propri affetti, mette in risalto un processo del quale siamo e siamo stati partecipi, con nomi e cognomi delle vittime. È auspicabile, pertanto, che tutto ciò possa servire a risvegliare una sensibilità sopita dagli innumerevoli telegiornali e dalle eccessive riprese di disgrazie con morti in mare che ci allontanano dal problema anziché provocare la opportuna consapevolezza. Siamo cittadini ed abbiamo il diritto di conoscere e il dovere di esercitare la nostra potestà negli ambiti che ci competono.