Il valore dell’agroalimentare del nostro Paese supera i 240 miliardi di euro, circa 50 miliardi è il peso della produzione agricola e quasi 38 miliardi è il fatturato dell’export. Solo l’export agroalimentare lucanosegna al 2016 un nuovo risultato positivo con un giro di affari di 79 milioni 439 mila euro e un più 3%. Numeri che si completano con quelli riferiti alle eccellenze prodotte: più di 280 cibi e oltre 520 vini a marchio tutelato e certificato (79 in Basilicata). Una ricchezza generata dal lavoro quotidiano di oltre 1,2 milioni di addetti. Performance importanti che indicherebbero d’investire nel settore per migliorare ulteriormente i valori, impegnando nuovi lavoratori. Invece, nei campi il ricambio generazionale è fermo sotto il 7 per cento, con gli addetti attuali che per oltre il 50 per cento hanno compiuto 60 anni. Proiettando questa tendenza occupazionale nel settore fino al 2030 – spiega Dino Scanavino presidente della Cia-considerando uscite e nuovi ingressi, verrebbero a mancare circa 150 mila unità. Tra questi, occorreranno diversi profili professionali, perché l’agricoltura e l’agroalimentare si sono evoluti. Serviranno, ad esempio, informatici, esperti di marketing, oltre ad agrotecnici, agronomi e operai specializzati. Per non parlare nell’indotto dove il ventaglio di necessità specialistiche abbraccerà una platea ancora più vasta. Da qui, si deduce come il settore primario possa essere uno straordinario equilibratore del tessuto sociale, un luogo d’integrazione anche per gli stranieri.
La ricerca di naturalità, tradizioni culinarie, sapori e gusti – è scritto nella nota – cresce parallelamente allanecessità di certezze sui prodotti di nuove pratiche produttive, di garanzie in terminidi sicurezza e salubrità. La prima incisiva spinta l’hanno impressa itanti allarmismi che si sono sussegui- nel tempo. Correva l’anno 1986 quando il vinoal metanolo uccideva 23 persone. Da allora i consumatori hanno fatto i conti con unlungo elenco di eventi nefasti-: dagli oli di semi confezionati con residui di lavorazione,alla carne gonfiata con gli ormoni; dalle uova e i polli alla diossina, alla famigerata “mucca pazza”); senza dimenticare i vari virusdell’influenza (suina, aviaria), il pesce “al mercurio” e l’alta presenza (anche se entro ilimiti di legge) dei residui di pesticidi negli alimenti. Crisi, allarmi, paure, emergenzehanno costellato gli ultimi trent’anni di storia alimentare, sospingendo in avanti ilbisogno di controlli, etichettature e tracciabilità, ma anche la necessità di innovare ilsettore, sia nella fase della produzione, sia in quella di commercializzazione eristorazione.
Per queste motivazioni il “brand Qualità Basilicata” , quale Marchio d’Area ed efficace strumento di marketing – sottolinea la Cia lucana – continua ad avere una centralità. L’idea progettuale parte dall’individuazione di un’area territoriale che si impegna a realizzare una rete di prodotti e servizi, sia pubblici che privati, tra loro omogenei, coordinati e complementari, non sovrapponibili e non concorrenziali.
Uno strumento legato da un mix di caratteristiche: ambientali, come paesaggio, flora, fauna; economiche, come attività agricole, industriali e di servizi; culturali e sociali, come eventi storici, espressioni artistiche, tradizione e folclore, abitudini religiose; agroalimentari, come produzioni tipiche.
Il Marchio d’area può diventare anche un importante strumento di gestione/governance territoriale. Di fronte alla competizione globale, agli scenari del cambiamento e alle sfide del futuro, l’ipotesi prefigurabile non è un mondo senza agricoltori, una agricoltura consegnata alle multinazionali alimentari ma un mondo con agricolture “plurali” e con agricoltori più protagonisti, in grado di innescare processi più integrati tra agricoltura, ambiente, turismo, artigianato, cultura, welfare, tra città e campagna, tra produttori e consumatori.