Basilicata e mercato del lavoro, Terzo rapporto Ires Cgil: “Proporre progetti industriali e infrastrutturali candidabili al Recovery Fund e migliorare offerta di formazione professionale”. Di seguito la nota integrale.
Dopo la dura battuta di arresto subita nei primi mesi del 2020, nel secondo trimestre dell’anno e nelle previsioni formulate dalle imprese per la seconda metà del 2020, il mercato del lavoro lucano mostra alcuni segnali di stabilizzazione. Una stabilizzazione che, però, è al ribasso: a giugno, i livelli occupazionali sono tornati indietro sui valori di metà 2014. È quanto emerge dal terzo rapporto sulla Basilicata e il mercato del lavoro dell’Ires Cgil.
Detti segnali sono in buona misura legati a fattori eccezionali (il divieto di licenziamenti imposto opelegis) e stagionali (il tipico miglioramento dei dati occupazionali che si verifica in ogni secondo trimestre grazie alla ripresa delle attività agricole ed edili) e/o a rimbalzi congiunturali legati alla fine del lockdown, e quindi alla ripresa produttiva negli stabilimenti manifatturieri.
“Non siamo quindi di fronte a una inversione del ciclo – affermano il segretario generale della Cgil Basilicata Angelo Summa e il direttore scientifico dell’Ires Cgil Riccardo Achilli – anche se, in termini congiunturali, gli occupati aumentano di circa 3.000 unità fra primo e secondo trimestre, quanto piuttosto alla fine della fase di contrazione, sempre auspicando che non vi sia un secondo lockdown generalizzato”.
Rimangono peraltro sul campo notevoli perdite e si accelera un processo di degrado complessivo del mercato del lavoro lucano: se diminuiscono i disoccupati “ufficiali”, aumentano enormemente gli scoraggiati, coloro cioè che, pur essendo in età lavorativa e desiderando lavorare, non svolgono più attività di ricerca di un posto di lavoro e cadono nel bacino degli inattivi. Considerando tali lavoratori scoraggiati, il tasso di disoccupazione “reale” si attesta poco sotto il 24%, otto punti in più rispetto alla situazione pre-Covid.
Inoltre, si assiste alla prosecuzione della caduta delle nuove assunzioni a tempo indeterminato e delle trasformazioni dei contratti a termine in tempo indeterminato, misurando in questo modo sia il fallimento del nuovo contratto a tempo indeterminato disegnato dal Jobs Act, sia delle politiche del lavoro, nazionali e regionali: ad esempio, non si può non registrare come l’apprendistato continui ad essere uno strumento del tutto marginale.
“È chiaro che in questa situazione – concludono Summa e Achilli – è necessario uno sforzo di policy maggiore, a cominciare dalla capacità di proporre progetti industriali e infrastrutturali candidabili al Recovery Fund (ad esempio il potenziamento del campus di ricerca della Fca di Melfi, come anche la progettata trasversale ferroviaria Taranto-Brindisi-Potenza-Salerno) e dalla capacità di migliorare l’offerta di formazione professionale finanziata dal Fse in funzione degli specifici fabbisogni delle imprese. In questo senso, il ruolo degli enti bilaterali di formazione andrebbe maggiormente valorizzato. Serve altresì una politica che incentivi la crescita patrimoniale e dimensionale delle imprese, perché il nanismo imprenditoriale, oltre che essere un freno agli investimenti e alla competitività del nostro tessuto produttivo, è anche un ostacolo all’assorbimento occupazionale di giovani ad alta scolarizzazione, costretti a emigrare”.